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Grande Madre, tradizioni, identità, ricerca

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sabato 19 gennaio 2013 “Ottopagine”

I riti di mezz’inverno di Franca Molinaro
Legna bagnata per la “focalenza” di Sant’Antonio a Castelfranci, che ne ha rimandato l’accensione. Si è svolto, invece, con successo il primo incontro-studio “Le Ricorrenze della Grande Madre” dedicato a Sant’Antonio Abate ed ai fuochi rituali. Ha introdotto l’assessore Vincenzo Gambale, a seguire il saluto di Agostino Della Gatta, l’intervento di Alessandro Di Napoli, Vincenzo Di Lalla, Paolo Saggese, il sindaco Generoso Cresta. Un pubblico interessato e numeroso ha ascoltato gli interventi qualificati dei relatori. Dalle parole del prof. Di Napoli è emerso che, in paese, fino ad alcuni decenni addietro, si allevava un maiale libero. Si pregava Sant’Antonio per ottenere una numerosa figliolanza delle scrofe così, uno dei maialino era destinato al santo. Il parroco benediceva il porcello che diveniva “u puorco re Sant’Antuono”.

Qualche cittadino metteva a disposizione “o stalluccio”, un porcile dove il maialino andava a dormire; a volte capitava che, essendo il paese diviso in rioni, ogni rione metteva a disposizione uno stalluccio così il porcello si ritrovava con più case. Il maiale era estremamente autonomo e ben rifocillato da tutti in quanto ognuno aveva un’attenzione per la bestia dal sacro legame. Arrivato il giorno del sacrificio, il 16 gennaio, nessuno si offriva per ammazzarlo perché ormai era diventato come un amico di tutti, allora si ricorreva al macellaio senza rivelargliene l’identità. Le carni ottenute dalla macellazione erano in parte regalate alle famiglie bisognose, in parte vendute. Ogni Castellese accorreva per comprarne perché, c’era convinzione, che avessero potere terapeutico e preventivo. Sant’Antonio era inoltre invocato in periodo di siccità, da quanto raccolto dal professore, in Sicilia, la statua del santo era calata in un pozzo prosciugato fino a fargli toccare la melma del fondo, poi era tirata fuori. Dall’intervento di Vincenzo Di Lalla sono emersi due interessanti aspetti, la gastronomia e la comunione del popolo. Il falò era occasione di incontro per tutto il periodo della preparazione. Le persone andavano in cerca di legna (Quest’anno ho visto i ragazzi di Sant’Andrea di Conza girare con le carriole per la questua), la trasportavano in un luogo comune, a quei tempi il paese era diviso in tre rioni, l’ammucchiavano e poi l’accendevano la sera del 17.

Questuavano anche le patate che poi cuocevano sotto la cenere del falò e consumavano in comitiva. A Bonito, diversamente, vicino al falò si consumavano i “jusci”, castagne, ceci e semi di zucca abbrustoliti. Il termine è onomatopeico e stà a indicare il gesto del soffiare le mani bruciate dai semi cotti e mangiati caldissimi. L’intervento di Paolo Saggese ha descritto il fuoco in epoca classica non omettendo riferimenti alla nostra tradizione, ai falò della sua infanzia allestiti con sacrificio da tanti fanciulli poi superati per grandezza da qualche facoltoso imprenditore che inviava un camion di materiali e, senza molto impegno allestiva il più spettacolare fuoco del paese. La tradizione vuole che le dimensioni del falò siano direttamente proporzionate ai benefici che il santo arrecherebbe ma non so in questo caso quanto la cosa sia valida. Secondo il professore Saggese, il terremoto dell’Ottanta ha cancellato molte tradizioni tra cui quella dei fuochi di mezzo inverno, il sisma ha distrutto i paesi e smembrato i gruppi che, in comitiva, mantenevano le tradizioni. I fuochi, spiega il professore, sono all’origine della nostra civiltà, gli animali possono sopravvivere senza ma non l’uomo, è per questo che l’elemento, fin dalle epoche più remote è tenuto in gran considerazione ed ha generato numerosi rituali. Nell’antica Grecia e a Roma, esisteva una serie di riti di mezz’inverno compresi tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera. Erano riti lustratori rivolti alla dea Tellus, in cui i sacerdoti accendevano un fuoco e da questo venivano prelevati rami come fiaccole e portati tra i villaggi ed i campi.

Corrispondenti al nostro Natale c’erano i Saturnalia, riti propiziatori per il ritorno del sole durante i quali erano tutti in festa e gli uomini ricevevano doni dalle donne, ricambiati poi nei Matronalia del primo marzo. Nei primi giorni di gennaio si celebravano i Compitalia dedicati ai lari dei crocicchi, l’intento era di invocare protezione sui viandanti, motivo sopravvissuto, probabilmente, nelle edicole dei santi cristiani poste lungo le strade. Tra gennaio e febbraio si celebravano le ferie sementive affinchè la Grande Madre accogliesse nel suo grembo il seme e procurasse un abbondante raccolto. Il 23 febbraio si celebravano i Terminalia, un rito italico, dedicato al dio Termine protettore dei confini. Si facevano processioni verso i termini e si accendevano fuochi, si consumavano cibi in comunione con i vicini. Infine, in aprile, si sacrificava una vacca gravida per propiziare la fertilità dei campi. Il mio intervento è stato un’escursione dalle origini ai giorni nostri attraverso i riti cruenti dei Celti e la storia di Sant’Antonio Abate. Ha concluso il sindaco Generoso Cresta sottolineando l’importanza della conoscenza storica, per evitare lo smarrimmento in un momento così difficile. È indispensabile, inoltre, che la cultura sia patrimonio della massa e non di una elit affinché, chi sacrifica per essa la propria vita possa avere un riconoscimento.

Grande Madre, usi, radici, momenti da ritrovare

 sabato 12 gennaio 2013 “Ottopagine” di Franca Molinaro

La divinità del fuoco
È fissato per il 17 gennaio a Castelfranci, il primo appuntamento con “Le Ricorrenze della Grande Madre”, serie di manifestazioni stagionali legata al ciclo della terra e delle tradizioni ideato nell’ambito dei progetti del Dipartimento di Antropologia del CDPS. Castelfranci, piccolo centro irpino, è avviato sulla strada del vino fin dalla costruzione della ferrovia, nel secolo scorso, strada ferrata che permetteva il trasporto delle uve verso il Nord, oggi promuove i suoi prodotti col Castelfranci Wine Festival, una manifestazione di notevole successo. Alla mia proposta di adesione al progetto, il professore Di Napoli è stato entusiasta ed il sindaco ha accettato con entusiasmo. L’intento è quello di riproporre i fuochi rituali, abbandonati da qualche anno e ripresi con successo da altri paesi quali Nusco. Ai fuochi sono legate altre tradizioni che andremo a scoprire grazie all’incontro-studio, è in programma, infatti un appuntamento, alle ore diciassette, nella sala consiliare, in cui ci si confronterà, tra esperti, sulle tradizioni, i simbolismi e le radici storiche dei riti.

Interverrà il sindaco Generoso Cresta, il prof. Alessandro Di Napoli referente del progetto per Castelfranci, intellettuale operoso del CDPS, critico letterario attento ad ogni tipo di scrittura, autore su Silarus, rivista letteraria del Centro Sud. Di Napoli illustrerà le tradizioni del luogo legate a Sant’Antonio Abate e alle “focalenzie”. In paese, spiega il professore, c’era la tradizione di allevare un maialino libero per le strade, ogni persona si sentiva in dovere di cibare la bestiola che girovagava tranquilla senza allontanarsi. Per la festività del santo il maiale ingrassato era sacrificato in dono alle famiglie povere. In altri paesi, quali Sant’Angelo all’Esca, c’era la stessa tradizione con alcune varianti, il maiale era dedicato a San Michele e le sue carni finanziavano la festa del santo. L’intervento del prof. Paolo Saggese, direttore del CDPS, sarà incentrato sulle feste romane che si svolgevano in questo periodo, le “Feriae sementinae”, durante le quali si lustravano villaggi e campi e si ornavano di ghirlande bovi e giovenghi che, in tale ricorrenza riposavano. L’intervento di Saggese servirà a comprendere meglio quelle corrispondenze tra il mondo antico e le nostre tradizioni, tema già trattato ampiamente dai maestri dell’antropologia.

Scrive Di Nola: “La tipologia del rito di accensione invernale dei fuochi di Sant’Antonio è ricca poiché esprime insieme la funzione lustratoria attribuita al fuoco e gli effetti apotropaici dell’allontanamento delle streghe, delle influenze invernali, dei morti, delle malattie”. In verità, questa tradizione del fuoco potrebbe collegarsi ad un archetipo comune a tutta l’umanità. Il fuoco è, ovunque, simbolo della divinità e garantisce la purificazione dai mali di ogni provenienza. Il lupo mannaro si tiene lontano col fuoco, con la luce del fuoco si fugano le ombre, si illumina lo spirito, è fuoco lo stesso Spirito Santo come già altre divinità pagane. Presso i Celti era venerato un dio del fuoco, della luce e della rinascita, il dio Lug che presiedeva sul rinnovamento della natura e sulla fertilità degli animali, allontanava gli spiriti inferi. A lui era consacrato il maiale ed il cinghiale. Era così venerato da queste genti che ponevano la sua effige sulle armi e indurivano i capelli con una poltiglia gessosa per farla somigliare al crine del cinghiale in carica. Il dio era venerato nell’area in cui, nel IX secolo, da Costantinopoli, furono traslate le reliquie del Santo eremita egiziano, precisamente alla Motte-Saint-Didier, in Francia. Per quelle trasposizioni così naturali nella storia dell’umanità, forse perché esiste una legge del divenire o forse perché le anime subiscono quel processo di metempsicosi così caro a tanti credo, Sant’Antonio trovò magnifica veste da indossare e continuare a vegliare sugli animali di cui divenne patrono, sul fuoco che, secondo la leggenda andò a rubare all’inferno e sui maiali. Diverse leggende legano i miracoli del santo al maiale ma, una connotazione storica ci riporta alla testimonianza di Di Napoli riguardo al maialino del paese. Quando il santo arrivò in Francia, nel cuore della comunità benedettina di Mont Majeur, si costituì una comunità ospedaliera laica in cui erano curati i malati di ergotismo canceroso, un avvelenamento causato dalla secale cornuta, un cereale usato nella panificazione, contaminato da un fungo.

La comunità laica si trasformò, nel 1297, in un ordine di canonici regolari retti dalla regola di Sant’Agostino. A quest’ordine fu concesso dalla Chiesa, di poter allevare maiali ad uso proprio ma i porcelli erano allevati dalla comunità e giravano liberi per i cortili facendosi riconoscere da una campanella che portavano legata al collo. Dalla macellazione ricavavano carni per la mensa e grasso che, sciolto serviva la base per i medicamenti sugli ammalati di fuoco sacro detto poi fuoco di Sant’Antonio. Il termine “Fuoco” era riferito ai bruciori insopportabili che la malattia causava nel corpo degli ammalati, quanto alla sugna è servita da sempre (presso le classi povere, i ricchi usavano l’olio) come base per ogni pozione medicamentosa, a questa si aggiungevano succhi di erbe specifiche per ogni male. Fu così che Sant’Antonio Abate, accompagnato dal fedele maialino e da una schiera di altri animali, conquistò il posto d’onore, sulle mangiatoie e dietro le porte delle stalle, le sue “fiure”, tutt’ora resistono tra gli allevatori più devoti.

Grande Madre, riti, cibi, preghiere e canti

Le ricorrenze della natura, sabato 5 gennaio 2013 “Ottopagine” di Franca Molinaro

“Vista la distanza sempre maggiore che si interpone tra quest’ultima e l’uomo contemporaneo, vista la mancanza di rispetto per l’ambiente, visto il decadere dei sacri rapporti tra l’uomo e la Terra Madre, ho ideato un percorso culturale a cadenza stagionale, nel quale avrà ampio spazio l’antropologia, la botanica, la fitoterapia, la gastronomia e tutta la cultura in linea con il rispetto della natura.
“Terra” è anche il luogo delle energie sconosciute a molti, energie che determinano la qualità della vita. Tali energie erano catturate, in passato, attraverso rituali, luoghi, animali, piante e momenti calendariali. L’uomo antico rispettava i momenti e catturava le essenze pur non avendo cognizione scientifica delle cose. Ogni ricorrenza della Grande Madre era momento sacro in cui l’uomo consolidava la propria spiritualità. Attraverso i secoli si sono succeduti i credo ma non è cambiata l’essenza, il meme “madre” è sempre all’origine di ogni cosa. . Entrare in contatto con la Grande Madre significa superare ogni pregiudizio culturale e religioso per disporsi all’ascolto, all’armonia.
Nel corso del giorno e dell’anno ci sono momenti particolari in cui l’uomo può entrare in contatto più diretto con le forze della natura, l’alba, il primo raggio di sole, gli equinozi, ognissanti, la notte del Battista, Natale. Intorno a queste ricorrenze ruota tutta una tradizione di riti, cibi, preghiere, canti, pronostici. Il programma prevede quattro manifestazioni a cadenza stagionale: ad ogni stagione corrisponde una ricorrenza legta alla terra e ai culti tradizionali.
Ho individuato quattro paesi irpini, e valutato le ricorrenze con argomenti di vario approfondimento secondo il valore intrinseco e la scarsa popolarità delle stesse, in questo modo si ridarà vita a riti in via di scomparsa e ne trarranno benefici i comuni meno pubblicizzati. I paesi sono stati scelti secondo le tradizioni ma anche secondo la loro posizione geografica andando a coprire così la Valle del Calore, del Sabato, dell’Ofanto e dell’Ufita.