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MONTEMARANO Al raduno dei poeti dialettali la voce dei luoghi

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Al reading poetico i versi di decine di autori.

Suoni e parole legate alla terra e alle tradizioni               di Franca Molinaro, Ottopagine, 21 luglio

Il cellulare squilla insistente mentre i lampi tracciano fili di fuoco nel cielo, sulla montagna di Chiusano. In auto, con altri amici, ci dirigiamo nel cuore del temporale, a Montemarano, per il IV Raduno dei poeti dialettali. I partecipanti chiamano per informarsi sulla serata, se si fa, dove si fa considerato il tempo, come si arriva. Mi ritrovo così a fare il navigatore satellitario smarrito nel diluvio universale. In paese ci aspetta Antonio Di Vito, presidente dell’Associazione Amo Montemarano, giovanissimo, di grande entusiasmo e capacità organizzative. La temperatura è invernale ma andiamo lo stesso sulla Rupe, dove è prevista la manifestazione, è un terrazzo naturale affacciato su uno strapiombo verdissimo di fronte Castelvetere. Lo spettacolo è mozzafiato e mi vien voglia di togliere i tacchi e raggiungere lo sperone roccioso a fronte, interessante sito botanico a causa della sua conformazione geologica. Ripieghiamo all’asciutto per necessità e sembra essere in quattro gatti, presto però, l’auditorium si anima e si riempie di poeti e di spettatori. La serata inizia col saluto di Antonio e del sindaco Beniamino Palmieri, giovanissimo e attivissimo, entrambi hanno provveduto a far in modo che tutto  risultasse accogliente e piacevole. Mi prospettano la possibilità di stabilizzare il raduno a Montemarano evitandomi di formalizzare la stessa  proposta. Amo questo paese da quando l’ho conosciuto; lo spirito tenace, il ritmo inconfondibile della sua tarantella, la capacità di mantenere vive le tradizioni, la lungimiranza nell’allestire un museo etnomusicale, lo rendono, ai miei occhi, un modello da perseguire. Montemarano ha, inoltre, la più antica tradizione del carnevale con le sue maschere caratteristiche e uniche, ha un paesaggio mozzafiato con boschi di castagni abitati da antiche fantastiche creature, ha vino corposo e formaggi squisiti. Ha, inoltre, una spiccata ospitalità che permette al forestiero di sentirsi a suo agio, lo hanno pensato i circa trenta poeti  che, in questa serata si sono ritrovati magicamente in armonia, senza pregiudizi o arroganze, ognuno nel suo idioma differente. Impressionando su supporto materico  i suoni delle loro parole si potrebbe disegnare una carta geografica, realizzando quella che Paolo Saggese e, prima di lui Quasimodo, definiva geopoetica. Operazione, questa, più fattibile con i poeti dialettali perché, questi, attraverso la parlata natia definiscono il luogo e le sue specificità. Ha, dunque, questa poesia, un valore aggiunto che la poesia in lingua non può vantare. Presentato dal prof. Emilio De Roma,  inizia il reading poetico. Dal napoletano, Giuseppe Vetromile e Giovanni D’Amiano, hanno portato il loro linguaggio musicale toccando problemi vari, dalla zingara che questua ai bimbi che non son più quelli di un tempo. Agostina Spagnuolo parla del caffè di primo mattino e del temporale che permette il riposo. Nunzio Lucarelli presenta un’ode degli animali al sole nascente e, da psicologo che è esamina un ricordo d’infanzia. Casale Marciano rimpiange la sua Taurasi sottoposta a restauri discutibili. Lucia Gaeta confessa che inizia a scrivere per dolore e continua per amore, non trascurando un pensiero per i terremotati dell’Emilia. Angelo Cristofaro si sofferma sull’ora del risveglio quando un uccellino allegramente lo raggiunge sul davanzale. Licia Furno chiede al vento il perché delle cose con parole profonde e dolorose. Gerardo Lardieri, dopo aver sciolto gli animi e i cuori con la voce melodica sua e della sua chitarra, predisponendoli al prossimo, prende in giro la luna che, naturalmente “lunatechea”. Sempre dedicata alla luna, i versi di Ettore Cicoira vincitore del 31° concorso di poesia e prosa “50&più”, una luna diversa perché calitrana. Salvatore Salvatore presenta il magico scenario del tramonto visto attraverso gli occhi di due innamorati. Donato Cassese ricorda un vico ormai disabitato di Sant’Andrea di Conza. Tullio Barbone traccia uno spaccato della Montella assoggettata ai latifondisti. Vito Donniacuo racconta una figura ormai scomparsa: la masta, e una sempre attuale: la morte. Virginio Gambone mette in scena una lite familiare ironizzando simpaticamente anche su se stesso. Singolare la poesia di Libero Frascione valorizzata da un’ottima interpretazione e da un forte senso autocritico. Gaetano Calabrese da Lioni aggiunge una nota erotica alla serata con una poesia a tema. Anna Maria Renna canta la primavera a Prata e i tempi andati con la frittata di Tanacetum balsamita. Carmen De Vito, pianista, apporta note di alta liricità e sentimento recitando versi d’amore. Anna Calabrese, considerato il tempo consono, recita per il Natale. Giuseppe D’Ascoli , tra racconto e versi confronta un passato andato e un presente incerto. Conclude Paolo Saggese con le sue note critiche. Allegria finale con la scuola di tarantella e cibi squisiti, vino rigorosamente aglianico. Al ritorno, col prof. De Roma ed altri amici si commenta: – Se questo appuntamento conserva lo spirito di lealtà, empatia, allegria, semplicità, se non cade nell’arroganza di certo intellettualismo, allora possiamo esser certi che in futuro avrà successo e condivisione d’intenti. Guai se questi poeti dovessero provare invidia o alterigia, allora scomparirebbe il flusso di energia positiva che siamo riusciti a mettere in circolo-.

A Montemarano la poesia del canto popolare

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A Montemarano IV Raduno dei Poeti Dialettali                          di Franca Molinaro Ottopagine, domenica 7 luglio 2013

Venerdì 12 luglio, ore 20, a Montemarano si terrà il IV Raduno dei Poeti Dialettali, manifestazione promossa dal Centro di Documentazione sulla Poesia del Sud Dipartimento di ricerca etnografica, dal Comune di Montemarano e dall’Associazione Socio Politico Culturale Amo Montemarano. Le adesioni sono state numerose, quest’anno avremo voci da tutta l’Irpinia, dal Sannio e dal napoletano. La serata prevede la partecipazione del Sindaco Beniamino Palmieri, di Antonio Di Vito Presidente dell’Associazione, dei direttori del Centro Paolo Saggese e Giuseppe Iuliano, del Coordinatore del Dipartimento Emilio De Roma, il tutto moderato da chi scrive. Hanno confermato l’adesione i poeti: Agostina Spaguolo da Capriglia Irpina, Giuseppe Vetromile da Napoli, Giovanni D’amiano da Torre Del Greco, Casale Marciano e Lucia Gaeta da Atripalda, Francesco Maria Olivo da Mercogliano,  Licia Furno e Angelo Cristofaro da Volturara, Nunzio Lucarelli  da Montefalcone in Valfortore, Aniello Russo da Bagoli Irpino, Gerardo Lardieri da Teora, Giovanni Famiglietti da Aquilonia, Ettore Cicoira da Calitri, Salvatore Salvatore da Carife, Donato Cassese da Sant’Andrea Di Conza, Tullio Barbone e Virginio Gambone da Montella, Manlio Miletti da Bonito, Libero Frascione da  Bisaccia,  Gaetano Calabre da Lioni, Anna Maria Renna da Prata P.U.,  Fernando Antoniello da Torella dei Lombardi, Vito Donniacuo da Montoro Superiore,  Giuliana Caputo da Flumeri, Giuseppe della vecchia e Gaetano Calabrese da Nusco, saranno lette, inoltre, le poesie dei poeti scomparsi: Agostino Astrominica di Nusco, Fedele Giorgio di Sant’Andrea di Conza, Pasquale Martiniello di Mirabella Eclano, Margherita Belmonte di Bonito. Diversi anni fa, studiando la poesia dialettale, insieme al professore Saggese, ci rendemmo conto che molto c’era in comune tra i componimenti dei poeti attuali con gli anonimi canti popolari che avevo recuperato attraverso la ricerca sul campo. Provammo così, a fare un excursus storico in una serata organizzata in collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Bonito, partendo dalla filastrocca al canto, attraverso poeti popolari scomparsi fino al cantastorie Paolino Minichiello, ultimo cantautore della tradizione popolare. Cos’era, allora, il canto popolare se non poesia? Perché nessuno ha mai riconosciuto il valore poetico di questi componimenti? Forse perché tutto ciò che proviene dalla classe “subalterna” può essere solo oggetto di curiosità per gli antropologi e non avere un valore reale di per se stesso? Come poter riscattare questa poesia dal suo oblio? Eppure, nella semplicità più assoluta, i nostri canti, propongono figure retoriche di straordinaria bellezza, figure riprese da alcuni dei più bravi poeti dialettali irpini. Come poter dar voce, allora, ai timidi poeti dialettali guardati con superbia da alcuni dotti poeti in lingua? Occorreva incoraggiarli riunendoli in una occasione periodica, un reading come si fa per la poesia in italiano. Ritrovandosi tra simili non avrebbero temuto il confronto, e così fu. Il primo vero raduno lo tenemmo proprio a Montemarano, quattro anni or sono, e si svolse durante i festeggiamenti del carnevale, proseguì nello stesso paese l’anno successivo mentre lo scorso anno ci spostammo a Vallesaccarda. Quest’anno, il cuore non la testa, mi ha suggerito di bussare di nuovo all’uscio di questo paesino meraviglioso, appollaiato come una poiana su una rupe dell’Appennino Campano. Mi è stato aperto, come sempre, con grande entusiasmo da parte del sindaco e del presidente Antonio Di Vito. Anche i poeti hanno aderito volentieri perché è un’occasione unica,  per ritrovarsi tutti insieme e godere i numerosi idiomi. Da Calitri, con la sua parlata quasi lucana, attraverso la Valle dell’Ofanto verso il napoletano e il salernitano, poi la valle del Sabato, del Calore e dell’Ufita, l’avellinese e il Valfortore, si disegna una costellazione di dialetti differenti con accenti a volte morbidi a volte duri. Posso dirmi soddisfatta del nostro operato, i dialetti, linguaggio della classe più bistrattata, sono finalmente protagonisti, attraverso la poesia, una delle arti più nobili, i vocaboli ritornano da un passato recente o arcaico, secondo il gusto e la ricerca dell’autore, e si ripropongono scongiurando l’oblio a cui la modernità li condanna. Montemarano ha compreso il valore della tradizione e lo ha dimostrato con il recupero della tarantella, la Montemaranese che farà da colonna sonora della serata insieme alle serenate di Gerardo Lardieri, e continua a dimostrarlo con l’impegno profuso in questa occasione.

 

 

 

Franca Molinaro “Presenze” di Teresa Iarrobino

Se è vero che nella vita nulla va mai perduto è pur vero che il libro “ Presenze ’ di Franca Molinaro, pubblicato dalla casa editrice Il Papavero, mette in atto un impegno circolare di riconoscimento della comunità.

Nel suo lavoro di etnografa,  di studiosa del comportamento della tradizione popolare, adopera  la  forma classica della raccolta orale, avviata dai fratelli Grimm che preservarono dall’oblio le fiabe con il loro significato simbolico.

La conoscenza acquisita che procede verso la civiltà della regola, del segno coerente, del visibile e di quanto è restituito all’esistente nella forma della realtà, si oppone a tutto ciò che  si esprime in modo inconsapevole e inesplorato che  può abitare la vita delle persone.

Nel libro si prosegue verso quel processo di individuazione che è dato dalla memoria narrante,  dal vissuto individuale e sociale dei protagonisti che tessono la trama dei racconti trascritti e ci riconducono alla radice, al lembo di storia che la nostra generazione ha voluto mettere sotto terra.  Attorcigliati dal pregiudizio  i racconti della tradizione contadina, sono stati tenuti lontani, valutati come  una riproduzione dell’immaginazione primitiva, riscontrabili negli oggetti e  nei luoghi del folclore. Nel tempo e in modo progressivo  si è attuata una cesura, una rottura, un taglio incanalando un processo di  dissociazione della sedimentazione simbolica alle radici che ha  limitato la capacità di dare senso alle cose sollecitate dall’intuito, si è come  amputata  la parte più incisiva e  bella della creatività umana. Malgrado ciò, qualunque persona si fermi per un momento a chiamare di nuovo alla mente un’idea, un sogno, un sentimento, uno scricchiolio del tempo si renderà conto che, di fatto,  le riflessioni su tali argomenti  sono ritenute alteranti e non spirituali.

Nonostante tutto, non comprendiamo né le cose della terra e né le cose del cielo, ma com’è possibile? Mi piace ricordare Giv. 3.3 “Nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce nuovamente

Dalla teoria degli  archetipi di C.G Jung che talaltro è ampiamente citato nelle note del libro, comprendiamo che le forme del pensiero sono forme sedimentate dell’inconscio e risiedono nell’animus, nello spirito  della persona e della società, sono le forme stratificate della mente umana, che riaffiorano nei sogni e nella percezione della realtà. La profezia di Ezechiele dell’uomo alato con sembianze di angelo è la luce bianca dell’incarnazione di Dio. Il bue alato è la narrazione del sacrificio di Cristo Gesù sulla croce. Il Leone alato è la rappresentazione della resurrezione e l’aquila l’ascensione in cielo per opera dello Spirito Santo.

Ebbene, queste quattro figure apparse al profeta Ezechiele dell’Antico Testamento, le ritroviamo nell’Apocalisse di san Giovanni che simboleggiano i quattro evangelisti del Vangelo. Sorprende il lavoro di ricerca  dello psicanalista sugli archetipi, giacché la visione del profeta Ezechiele – ha un’analogia  con la divinità egiziana del sole, Horus, e suoi quattro figli –  Tutto ciò che racchiude la sfera del simbolico ha una forma non riconducibile al significato immediato e ovvio della realtà oggettuale, comprende in sé alcune cose che stanno al di là del suo significato.

Ecco, il libro di Franca Molinaro ci permette di riappropriarci senza timore della sfera simbolica, del mistero, di ciò che si svela nel soffio di vento, nello spirito che anima i corpi e la natura, nel silenzio dell’universo, del ciclo della vita – morte- vita. Con serietà invita a rispettare l’ignoto, ad accarezzare e pregare  le anime dei defunti, consapevole peraltro, dell’ordinario persistere del bene e del male, così tra i vivi come tra i morti.

Possiamo stare certi che le cose smarrite non si allontanano, sono anche adesso lì, nella nostra psiche, o meglio nella nostra anima.

Teresa Iarrobino

 

 

Compari di San Giovanni legati indissolubilmente con una nota magica

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Ottopagine 28 giugno 2013     

di Franca Molinaro 

Il faccione della luna, col suo Marcoffio ben riconoscibile nelle macchie lunari, illuminava in modo anomalo la piccola piazza-teatro nel cuore di Prata P.U. dove abbiamo celebrato, domenica scorsa, la vigilia di San Giovanni Battista. La serata, che rientra nelle attività del Centro di Documentazione Sulla Poesia Del Sud Dipartimento di Antropologia, è stata caratterizzata da una coreografia di Erminia Barbieri. La scena, ispirata al sabba delle streghe, è stata accompagnata da una incalzante pizzica e inscritta in un cerchio di  fuochi. Streghe, donne e guaritrici insieme alle erbe, sono  le principali protagoniste di questa notte solstiziale per questo hanno rappresentato il tema saliente della discussione. La professoressa Renna ha fatto un excursus tra storia e antropologia ricordando i rituali divinatori reperiti nella stessa Prata. Breve il saluto del sindaco che ha voluto mettere l’accento sulla tenacia necessaria a di chi si occupa della ricerca e valorizzazione delle tradizioni. Soddisfatto e disponibile Agostino Della Gatta, giovanissimo ma da sempre impegnato nel dar visibilità alle nostre specificità, tra cultura, paesaggio e gastronomia. Esaustivo l’etnomusicologo Valerio Ricciardelli che ha sottolineato la necessità dei credo per salvaguardare l’integrità psicologica dei singoli e della comunità in un momento particolarmente delicato. Ha ricordato il valore sociale dei riti, come i pellegrinaggi in cui, soggetti in attrito, coglievano l’occasione per riavvicinarsi perdonandosi in nome di quella fede che li spingeva a camminare sullo stesso sentiero. Oggi non si coglie più quest’opportunità forse perché non si celebrano più i riti con la stessa convinzione di un tempo, la stessa messa cristiana, a volte è occasione di mondanità e non di incontro ravvicinato con la divinità. L’arrivismo, poi, l’egoismo, l’invidia, l’inseguimento continuo di facili guadagni, la mania di protagonismo, scavano baratri profondi tra gli umani. Si è perduto quella semplice predisposizione, comune nel mondo agrario, a porsi nelle mani di Dio, attraverso una frase tanto significativa che i vecchi andavano sempre ripetendo: “Si vole Dio”. In nome di quel Dio lontano, nei cieli, però misericordioso, la gente di un tempo affrontava il bello e il cattivo tempo, le gioie e i dolori, la morte e la malattia, riconosceva nel prossimo l’immagine di se stesso e non un nemico da annientare perché avrebbe potuto oscurare la propria persona. C’era sicuramente ironia, avversità, litigi, ma non la cattiveria gratuita che può capitare nella società attuale. I cafoni tanto disprezzati perché zotici, incolti, grossolani, non erano capaci delle raffinate cattiverie di cui può esser capace una mente acculturata. È proprio in nome di quella fraternità, che si avvertiva sull’aia durante la trebbiatura, o che si giurava sull’altare per il comparatico, quello giovanneo in particolare, che, noi del CDPS Dipartimento di Antropologia, andiamo proponendo i riti legati alla terra, alla tradizione ed al sacro. Questi tre elementi sono da sempre saldati indissolubilmente, sono i cardini intorno ai quali ha ruotato, per tanti anni, un mondo fatto di sacrifici e di dolore, di angherie a discapito della donna, ma anche di spiritualità mai compresa, di rapporto diretto con la Grande Madre. In questo contesto magico-sacro esistono le streghe ma esistono i metodi per allontanarle, esistono le malie ma anche gli antidoti, c’è una giustificazione per tutto ma non c’è posto per chi nuoce all’equilibrio della piccola società. “San Giovanni non vole inganno”, spiegava la professoressa Renna, il compare di San Giovanni è quello che accompagna gli sposi all’altare e poi tiene a battesimo il primo figlio, in questo secondo momento il legame diviene forte e indissolubile, così forte da non spezzarsi nemmeno con la morte perché la morte, in questa cultura non è la fine, ma solo un passaggio verso un altro stadio dell’esistenza. In virtù di questo credo, il compare di San Giovanni appare da morto, spesso, in aiuto del compare vivo, lo preserva dai pericoli, lo accompagna nel cammino notturno e lo scaccia dalla chiesa nella notte di Ognissanti durante la messa dei morti. Anche da vivo, il compare veglia sugli sposi e sul suo protetto, interviene quando le famiglia devia dalla retta condotta, si prende cura del piccolo come fosse un suo figliolo. Una nota magica si riscontra anche nel non poter rendere il comparatico: se una famiglia si lega in comparatico con un’altra, la seconda non può cresimare, tenere a battesimo o testimoniare le nozze a membri della prima. Oggi il compare ha perduto la valenza sacra e con questa il rispetto generale tra le persone. Ognuno tende ad erigersi a dio di se stesso, polvere seppur di stelle, dimenticando la propria pochezza rispetto all’immensità del creato.

La Notte di San Giovanni

Solstizio d’estare, è la notte di San Giovanni                              

 domenica 23 giugno 2013 “Ottopagine” di Franca Molinaro

Siamo all’inizio dell’estate, adesso che il sole comincia a farsi sentire forte e luminoso, paradossalmente, comincia a calare sull’orizzonte celeste. È questo il solstizio d’estate, il momento in cui l’astro raggiunge l’altezza massima e il giorno la massima lunghezza. È un momento particolarissimo dell’anno, un giorno celebrato fin dall’antichità perché, da sempre, l’uomo ha osservato il sole comprendendo che da esso dipende la vita sua e della Terra. Agli occhi degli antichi era un momento delicatissimo, ma, a digiuno di conoscenze astronomiche, lo celebravano quando si accorgevano che cominciava a declinare. Importate le conoscenze astronomiche da Caldei ed Egiziani si comprese che il solstizio ricorreva con qualche giorno di anticipo ma, in generale, la notte magica restò quella tra il 23 e il 24 giugno. In questa ricorrenza si introdusse la festività del Battista che, secondo i Vangeli nacque sei mesi prima di Gesù, la cui nascita rientra nel solstizio d’inverno. Non è difficile individuare l’analogia tra Cristo e il Sole, entrambi destinati a crescere nel corso dell’anno mentre altra sorte tocca al suo precursore la cui testa è destinata a rotolare dal ceppo sotto la scure del boia come il sole è destinato a scendere nel suo giro apparente. Ma la magia di questi momenti non è un’invenzione popolare, v’è un sottile esoterismo di fondo che portava già Omero a parlare di porte dei cieli, una a Borea per il solstizio estivo ed una a Sud per il solstizio invernale. Erano una sorta di intersezioni di piani spaziali in cui si aprivano i passaggi per altre dimensioni, le dimensioni dello spirito e degli dei. Anche nell’antica Roma le celebrazioni erano osservate dalle istituzioni e dal popolino. L’arrivo del Cristianesimo tende a demonizzare le divinità precedenti così ci ritroviamo, nella notte di San Giovanni, con cortei di demoni che scorrazzano per i cieli guidati da Diana e da Erodiade, confusa probabilmente con la Salomè delle sacre scritture. Streghe e demoni si davano appuntamento sotto il famoso noce di Benevento, sulle rive del Sabato, per il loro lugubre sabba, e le abitazioni dovevano essere protette da falci, sale e tante erbe apotropaiche. Ed è proprio in virtù del fiume Sabato che ho scelto Prata P. U. per l’appuntamento estivo delle “Ricorrenze della Grande Madre”, progetto nell’ambito delle attività del Dipartimento di Antropologia del CDPS, in collaborazione coi comuni di Castelfranci, Teora, Prata P. U., Bonito, in collaborazione con Irpinia Turismo di Agostino Della Gatta. Referente del progetto, per Prata, è la professoressa Anna Maria Renna. L’appuntamento è per domani, ore 19, presso la villetta comunale in Via Petrillo. È previsto il saluto del sindaco Gaetano Tenneriello, gli interventi di Anna Renna, Agostino Della Gatta, Valerio Ricciardelli etnomusicologo, Erminia Barbieri che curerà una coreografia sulle musiche di Ricciardelli, il tutto coordinato e moderato da chi scrive. Si parlerà del solstizio, del Battista e del comparatico, dei licantropi e delle streghe, delle erbe che, sotto l’influsso benefico del santo e del sole, assumono poteri apotropaici e terapeutici, iperico, lavanda, verbena, aglio, mentucce, insieme alla rugiada, acquistano poteri incredibili. Si teatralizzerà la divinazione delle fanciulle che, nella magica notte scopriranno il loro futuro attraverso i segni delle piante. Anche la coreografia della Barbieri è improntata sul sabba, non a caso siamo sulle rive del Sabato, il fiume delle janare, a pochi chilometri da Benevento. Questo terzo appuntamento sarà sicuramente il più intrigante perché legato alla magia, all’etnobotanica, a tradizioni antichissime che ormai abbiamo dimenticato ma che fanno parte della nostra cultura. Riproporre questi momenti calendariali è l’intento del mio progetto e, con soddisfazione, posso affermare di aver trovato, fin ora, ottimi collaboratori e Amministrazioni disponibili. Sicuramente questo progetto è il fiore all’occhiello delle attività del Dipartimento, sostenuto da persone convinte degli argomenti che andiamo proponendo, intellettuali che si propongono senza mirare al compenso economico, purtroppo non abbiamo fondi alle spalle, agiamo per il piacere di fare cultura e di farla in un certo modo, con condivisione di intenti, con valori profondi radicati in credo antichi, distanti dall’arrivismo e dal comune senso degli affari. Quando pensai il progetto immaginai un omaggio alla Grande Madre e, insieme, un’occasione per risvegliare, verso di Lei, la coscienza comune attraverso gli antichi riti, lentamente, creando un circuito di positività formato da individui predisposti. Posso dire che c’è speranza.