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L’orgoglio nazionale all’Italian Festival in Inghilterra

L’ITALIAN FESTIVAL DI PETERBOROUGH                        di Franca Molinaro

“Ottopagine” 29 settembre 2013

In settimana, per ragioni organizzative, ho incontrato Gerardo Lardieri, uno dei soci fondatori del Centro ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre”. Sapendolo rientrato da poco in Italia gli ho chiesto dell’esperienza musicale in Inghilterra. A Gerardo brillano gli occhi quando ha emozione nel cuore e, come sempre, anche stavolta mi ha regalato una carica di positività e di energia fuori dal comune. Ha raccontato del viaggio e del concerto in questa terra solitamente nebbiosa,  a circa 150 Km a Nord di Londra. Peterborough, nella Contea  del Cambridgeshire, terra della famosa Università inglese, è una vivace città con più di 180.000 abitanti. Vi risiedono oltre diecimila italiani pienamente inseriti nella vita sociale e amministrativa. I primi arrivarono nell’ultimo dopoguerra tra il 1948  e il 1950. La furia tedesca, nel pieno del conflitto, si era scatenata particolarmente sulla Gran Bretagna, quando la guerra terminò le macerie richiamarono manodopera per la ricostruzione. L’Italia, come tante nazioni, pativa la fame ma più di altre fornì uomini forti e volenterosi che salivano sul treno respirando aria di speranza ma lasciando a casa gli affetti più cari. Dal dopoguerra alla fine degli anni sessanta i treni inglesi hanno “scaricato” migliaia di Italiani, giovani in particolare, in cerca di lavoro. Tra i diecimila connazionali a Peterborough, i Pugliesi e i Campani sono i più numerosi, ma anche Sicilia e Calabria sono ben rappresentate. Da molti anni l’Italian Community Association, organizza l’Italian Festival,  una due giorni ricca di eventi con  stand gastronomici pugliesi e campani per la gioia degli Anglosassoni. L’olio, il vino, i dolci, le auto italiane in bella mostra, e la musica in primis, sono stati i protagonisti.  L’edizione del 2013, tra l’altro,  è stata benedetta da “un sole italiano” che ha portato in Cathedral Square una folla di curiosi. Domenica 22 settembre il festival, con in testa la Banda della città di Foggia, città gemellata, ha visto sul palco e in piazza numerosi artisti, tra cui, unico Irpino, il nostro teorese Gerardo Lardieri, Direttore artistico del Festival delle Serenate, e Donato De Novellis, di Campagna (SA). Si è distinto con la sua chitarra, per bravura e simpatia, Antonello Coradduzza, Sardo di Alghero. Star della giornata il famoso cuoco  Gennaro che in Inghilterra, con i suoi programmi di cucina italiana, è un vero divo del piccolo schermo.  Altri valenti cuochi, provenienti dalla provincia di Foggia (Pietramontecorvino) hanno preparato centinaia di ricette per i presenti, con prodotti tipici portati direttamente dall’Italia. Qualcosa di sconvolgente, a detta di Gerardo ma ecco le sue impressioni a caldo: “Nelle mie avventurose esperienze musicali tra gli italiani all’estero questa inglese, è stata molto particolare e nuova.  Insieme a Donato De Novellis, fisarmonicista e virtuoso dell’organetto ho portato la mia chitarra e la mia voce tra una splendida comunità di emigranti che non ha dimenticato il calore dell’ospitalità italiana. Ogni volta che sono andato all’estero  per portare la musica tra i nostri emigranti, la mia passione per l’antropologia e la sociologia mi ha portato sempre  ad andare oltre le impressioni e le parole permettendomi di leggere negli occhi, nelle mani e nel cuore della gente che incontravo. Anche a Peterborough la mia attenzione è andata a quelle mani che hanno caricato milioni di mattoni, a quegli occhi che hanno pianto mille lacrime di addio; a quei visi che hanno le stesse rughe della nostra terra. Orgogliosi di essere italiani in una terra che amano, ma non quanto la loro bella Italia.  In Svizzera, in Venezuela, gli stessi sguardi, le stesse domande avide di nostalgia. E registro così le stesse sensazioni: l’orgoglio di Carmine e Rita, di avere una bella famiglia, una bella casa, una buona reputazione fra gli amici inglesi;  la dolcezza infinita e la tenacia di Carmela, organizzatrice del Festival insieme a Gino, Isabella e tanti altri che hanno dato l’anima per mantenere alta la nostra bandiera, fatta di cose sane e sentimenti forti;  così la presenza e le parole di Marco Celeste originario di Bovino (FG) vanto degli italiani, che nella cittadina inglese ha raggiunto l’alto ruolo amministrativo di leader del consiglio comunale. Questa è l’altra faccia di un’Italia che si riscatta  con il lavoro, con il forte senso di appartenenza ad un popolo che ha avuto un ruolo importante nella storia del mondo ma che non sempre gli è riconosciuto. Qui si respira ancora un’Italia orgogliosa del suo talento  e del suo ingegno. In un periodo di crisi globale, fa bene immergersi in queste atmosfere di altri tempi, quando il  duro lavoro era l’altra faccia della nostra bandiera”. Quando, col Centro di ricerca organizziamo le manifestazioni abbiamo sempre una scarsa partecipazioni di giovani, solitamente più propensi al cambiamento che al recupero. Chiedo a Gerardo della loro presenza al festival. “I figli, per quello che hanno potuto, hanno seguito le orme della tradizione. Nella piazza di Peterborough ne ho visti tanti, accanto ai loro genitori,  anche loro orgogliosi di un’Italia che non c’è più”. Ben detto Gerardo, un’Italia che non c’è più, ma nel cuore e nella mente degli emigrati è restata quella che hanno lasciato, un paese per cui valeva ancora la pena combattere.

 

 

 

 

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Il pasto dei poveri

Il pasto dei poveri, Ottopagine, 8 stt. 2013                                                               di Franca Molinaro

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Nelle nostre campagne è ancora possibile trovare le massaie che, fin dal mese di luglio, preparano le provviste per l’inverno. Incominciano immagazzinando il grano che servirà per cibo degli animali e per ricavarne farina. Ai primi di agosto, poi, dopo aver dissotterrato le patate, le mettono al buio e al fresco per poterle mantenere integre tutto l’anno. La patata era tra gli alimenti più consumati dai contadini di un tempo, la mangiavano lessa o fritta con peperoni freschi o all’aceto, in zuppa con zucchine, funghi, melanzane ripiene, fagiolini, verza o riso. Il mese delle conserve, per eccellenza, però, è settembre, definito “seccafico” perché dovrebbe essere ancora caldo da poter seccare i fichi posti ad asciugare al sole. Settembre riempie i panieri e le dispense. La massaia si appresta a conservare i peperoni in tanti modi diversi, secondo le varietà. Quelli lunghi si infilzano e si pongono ad asciugare per poi friggerli nell’olio a condimento di broccoli, spaghetti e altre verdure. I tondi si mettono sotto aceto insieme a spicchi d’aglio, menta e sale. Nel nostro entroterra, quest’ortaggio, un tempo, era talmente popolare che compariva puntuale in tutte le colazioni consumate a tavola o nei campi. Anche i pomodori, in questo mese rosseggiano negli orti se la peronospora non ha provveduto a sterminarli. È tempo di preparare pelati e passata. Qualche massaia ha imparato a imitare le grandi industrie alimentari e prepara sughi in barattolo da tirar fuori all’occorrenza e velocizzare i tempi in cucina. Purtroppo è scomparsa la “conserva” che, negli anni scorsi, si usava al posto della passata. Il procedimento era abbastanza semplice: i pomodori ben maturi erano passati a setaccio e la polpa salata era messa a seccare su piatti larghi. La conserva andava rigirata e ritirata prima di sera. Il  procedimento era delicato perché la polpa poteva inacidire. La massaia accorta conosceva i tempi e le modalità giuste per ottenere un prodotto profumatissimo che era conservato in vasi di coccio con un filo d’olio come copertura. La frutta è un’altra risorsa, si inizia a giugno con le amarene sciroppate per passare alla marmellata di ciliegie, prugne, fichi, pere, lamponi, more. In questo mese si dissotterrano le cipolle che, come si è fatto già per i cugini agli, si intrecciano in filze e si appendono in un luogo fresco e arieggiato. Questo ortaggio dal sapore deciso, se cotto diventa dolcissimo e può essere impiegato per confezionare ottime marmellate. Rape rosse, carote, cipolline, sedani e cetriolini possono essere conservati in agrodolce o sotto aceto con sale e aromi. Nell’orto, tutto l’anno, non manca mai il cavolo cappuccio, è una pianta che riesce ad acclimatarsi in ogni stagione, la si consuma cruda o lasciata fermentare con aceto e aromi ma questa è una ricetta delle regioni nordiche poco conosciuta alle nostre latitudini dove si preferisce sposarla con riso o patate. È tempo di grigliare le pannocchie o lessarle ma, anche il mais può essere conservato sotto vetro. Infine, per la “disperazione” del contadino, arriva la raccolta dei fagioli e dei ceci, il cosiddetto pasto dei poveri. Nelle nostre province il metodo di raccolta è lo stesso di dieci secoli fa. Quando i baccelli risultano secchi, all’alba, si estirpano tutte le piante e si portano sull’aia dove si lasciano essiccare perfettamente. Col sole cocente, con l’ausilio di un bastone o una forca, si battono le piante fino a separare i semi dagli involucri. Poi si procede alla spulatura ventilando i semi fino a che ogni impurità vola via. A questo punto inizia il lavoro più paziente di tutta l’operazione. I semi raccolti vanno selezionati uno per uno, quelli scadenti vanno eliminati. Il risultato deve essere una buona pezzatura e un colore perfetto. Un tempo i legumi si conservavano, per tutto l’anno, in sacchi di canapa, oggi, con l’avvento del punteruolo, è necessario conservarli sottovuoto. È questo il pasto dei poveri da sempre consumato nelle classi contadine. Il Phaseulus vulgaris fu introdotto in Europa nel 1500, era originario del continente americano. I fagioli dei Greci e dei Latini erano del genere Dolichos, con un margine di incertezza si doveva trattare di Vigna sinensis, una leguminosa proveniente dalla Cina e dall’Egitto molto simile all’attuale  Vigna unguiculata ovvero il fagiolo dall’occhio di colore ocra con una macchia nera sul germe. Virgilio lo appellava di vile, ossia comune. Apicio suggeriva di consumare i fagioli in antipasto, fritti con salsa acida di vino e pepe mentre, come primo piatto consigliava di portarli in tavola lessi, accompagnati da finocchio verde, pepe, salsa di pesce e poco vino cotto al posto del sale. Curiosa è la menzione del Mattioli: “Mangiati nei cibi gonfiano e affannano lo stomaco ma generano il seme virile e sollecitano al coito”. Un uso inconsueto era registrato a Venezia: le donne li piantavano alla luna crescente di marzo, sui davanzali, poi legavano le piantine rampicanti a dei bastoncini e formavano, con la vegetazione, una sorta di grata dietro la quale sbirciavano all’esterno. Oggi, è riconosciuto ai legumi il giusto valore e, da pasto dei poveri, è diventato cibo dietetico.

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