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San Martino e la pizza di Teora

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Foto di Emidio Natalino De Rogatis

Una leggenda popolare irpina racconta che:
San Martino era un delinquente che le combinava di tutti i colori. Con una brigata di bravacci si dedicava alle azioni più spregevoli. Ogni volta che andava a confessarsi non trovava prete che lo assolvesse e aggiungeva agli altri omicidi quello del confessore. Un giorno, per volere di Dio, capitò nel confessionale un uomo molto saggio. Quando il delinquente finì di confessare i numerosi peccati il prete gli diede assoluzione raccomandandolo di riflettere ogni volta si trovasse sul punto di fare del male a qualcuno e ricordare queste parole: “Si fosse a me come me sapesse?”. Martino se ne andò tutto contento e riprese la sua vita squilibrata ma, alla prima bravata gli tornarono in mente le parole del prete. La raccomandazione gli risuonava scandita nella mente e si rifiutò di fare la cattiva azione. Questo capitò un’altra volta e poi una volta ancora finché i compagni lo scacciarono dalla comitiva. Allora, l’uomo pensò di rientrare a casa e vi arrivò che era ora tarda, voleva chiamare la moglie ma ripensò ancora alle parole del prete. Si dispiacque di svegliare la donna nel cuore della notte e si addormentò sullo scalino. Durante la notte cominciò a fioccare e al mattino la moglie lo trovò congelato sotto la neve, davanti al portone. Preoccupata di finire in prigione o malmenata dai colleghi del marito, decise di sotterrarlo in cantina sotto la botte vuota. Venne la vendemmia e riempì la botte di vino, poi venne il tempo di venderlo e cominciò ad attingere. Vendi oggi, vendi domani, il vino non finiva mai. La notizia si sparse tra le comari come le piume nell’aria. Arrivarono i gendarmi per controllare l’inganno. Spostarono la botte e, tra le doghe, trovarono un dito di Martino che spillava vino di continuo.

Legate alla festività dell’11 novembre troviamo diverse costumanze anche di notevole interesse antropologico. A Teora (AV), riferisce Gerardo Lardieri, la sera di San Martino tutta la famiglia si riunisce, si possono invitare amici e conoscenti, una volta l’invito era esteso alle famiglie povere. La massaia prepara una grande pizza di patate con gli ingredienti classici, patate, uova, formaggio, salsiccia, segna la superficie in spicchi e, in uno di questi inserisce una monetina avvolta in un poco di carta stagnola. Fatto questo mette la pizza in forno come di consueto. Al momento di servire le porzioni, si scambiano i piatti per evitare preferenze da parte della massaia.  Chi troverà la monetina “comanderà” la cena del 21 novembre, giorno della Presentazione della Vergine Maria.  Se la moneta è toccata ad un bambino sarà un genitore o un nonno ad aiutare il piccolo nella richiesta di cibarie da portare. Il 21 la comitiva si riunirà ancora per festeggiare ed ogni commensale dovrà partecipare secondo le direttive date dal possessore del trofeo. Gerardo Ciccone di Lioni (AV), ricorda che il nonno, Teorese, manteneva questa usanza, tagliava la pizza e la poneva a tavola, ognuno ne prendeva un pezzo e chi l’aveva preparata prendeva l’ultimo.

Emidio De Rogatis in un suo articolo su “Irpinia ed Irpini” scrive: “La Pizza di San Martino negli anni ha avuto dei cambiamenti. In origine, LA PIZZA, era una sorta di focaccia, nel quale impasto, prima della cottura, era letteralmente inserita una moneta del valore di un soldo. Tant’è vero, che ancor oggi la moneta che è inserita nell’attuale “PIZZA”, è denominata: LU SOLD. L’antica Pizza ha avuto delle modifiche nel tempo, e da una semplice focaccia, arricchita magari di spezie ed erbette varie, si è passati alla più moderna e cosiddetta PIZZA D’ PATAN’ (Pizza di Patate), che non è altro che il famoso Gatoau (Gattò di patate). La tradizione vuole, che le porzioni di pizza, prima di essere degustate, siano messe tutte sul tavolo, e tirate a sorte per la scelta delle singole porzioni (generalmente con la conta, de LU TUOCC’), per far sì che non ci siano imbrogli. Chi trova il tanto agognato SOLDO, è investito da una sorta di comando, pertanto si dice: CUMANNA’ LU PANZ’, con il quale si ha il potere di ordinare, per ogni singolo commensale, una portata diversa, che è chiamata “La condanna”, per il pranzo che si dovrà consumare da lì a dieci giorni, vale a dire il 21 di novembre; nel cosiddetto giorno de “La Madonna”. Detta Condanna può essere leggera o pesante, a seconda della quantità richiesta di cibarie. Detto futuro pranzo, è denominato “CUMMIT’” (convivio). D’altra parte, come per il giorno undici di novembre anche il giorno ventuno non si svolge nessun rito religioso”. Sull’antico impasto della pizza anche gli antropologi Claudio Corvino ed Erberto Petoia convengono con De Rogatis sostenendo che si trattasse di semplice pasta di pane. Questo particolare apparentemente irrilevante è fondamentale per comprendere alcune espressioni quali “Crisci Santo Martino” rivolte ai bimbi per proteggerli dalla fascinazione o anche in presenza di messi, lavorazione di salumi, conserve o impasti di pane e dolci. Si potrebbe trattare di magia simpatica, i bimbi, le messi, le conserve, il pane, debbono crescere come la pasta madre della pizza di San Martino, ovvero “lo crescente”. Ma lasciamo agli esperti lo studio delle simbologie legate alla crescita e al soldo e comprendiamo il messaggio immediato della manifestazione. Dal racconto di Gerardo si evince che è “sparte la pizza”  la chiave interpretativa, cioè condividere oggi con gli amici, occasione per mangiare e far festa, cosa molto consona ai Teoresi, ma, un tempo, caricata di un valore sociale inestimabile: condividere con le persone bisognose. Dunque, se San Martino rappresenta una sorta di capodanno, ovvero  momento di transizione in un ciclo naturale e sociale, considerato che la data era rispettata per la scadenza dei contratti di case o terreni, cambiali ecc.., è occasione di regali e di festeggiamenti, è anche il momento di pensare ai bisognosi e condividere con loro quel poco che si ha, in questo caso un semplice “gattò” di patate.                                             di Franca Molinaro

Ognissanti

 

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La gerarchia sociale nel vissuto di morte, alla ricerca delle antiche sensibilità analizzando le ricorrenze della terra                                                        di Franca Molinaro    Ottopagine 2 novembre

Il 2 novembre è dedicato alla commemorazione dei defunti. Questa mesta ricorrenza, non a caso, cade in un momento dell’anno solare in cui la natura si appresta al riposo invernale e i semi, nel buio dell’Ade, muoiono, per risorgere a breve e moltiplicare la loro discendenza. Così, come da sempre nella storia dell’umanità, il ciclo della terra s’intreccia con la vita umana e la caratterizza. Se il rito Cristiano della commemorazione dei defunti fu istituito, in tutta la Chiesa Cattolica, da Odilone abate di Cluny, nel 998, lo stesso non si può dire dei rituali che, all’interno della Chiesa, lo accompagnano. La stratificazione di usanze modificatesi nel corso della storia è il frutto di una evoluzione culturale del meme “morte”. La necessità di credere alla vita post mortem, per potersi ricongiungere ai propri cari ma, ancor più per avere certezza della propria continuità, il contatto “paranormale” spesso stabilito con l’altra dimensione, hanno  sostanziando riti e tradizioni. È quanto emerso dall’ultimo appuntamento con le “Ricorrenze della Grande Madre”, giovedì sera a Bonito, nell’ambito delle attività del gruppo di ricerca “La Grande Madre”. Questo appuntamento ha visto la presenza di tutti i membri ed ha fatto trasparire la comunità d’intenti, il loro rapporto  saldo e incorruttibile, prerogative indispensabili per l’attuazione di qualsiasi iniziativa. Dopo i saluti dell’Assessore David Ardito e di Agostino Della Gatta, Emilio De Roma ha introdotto il convegno con  un’ampia panoramica storica, evidenziando come l’uomo, fin dalla preistoria, anche nei nostri luoghi, abbia avuto cura dei propri defunti. A stupire, per la ricchezza di curiosità e notizie inedite è stato Gaetano De Vito, i suoi cimeli hanno il senso dell’horror ma non spaventano se osservati alla luce della conoscenza e della fede. Paola Silano, con la sua voce morbida e suadente, e la ricerca svolta minuziosamente su Villanova del Battista e Greci, ha catturato il qualificato pubblico. Il suo lavoro scientificamente curato nei minimi particolari ha portato alla luce costumanze ormai dimenticate, dal lamento funebre di Giuditta, in lingua albanofona, alle condoglianze reiterate in maniera spasmodica per evitare il “contagio” della morte. Il vissuto “morte”, spiega la Silano, è strutturato dalla gerarchia sociale, mentre i ricchi allontanano il rischio del contagio affidando a terzi la salma, magari anche in strutture apposite, la classe povera vive direttamente il lutto occupandosi di tutti i particolari annessi. Questa ragione, secondo gli studiosi, ha definito una serie di azioni per preservare i congiunti dal “virus” che l’evento luttuoso porta nella comunità. Ha scosso i più scettici e ha toccato il cuore la testimonianza di Gerardo Lardieri, riportato a Bonito da una serie di insolite situazioni e percezioni. Gerardo, la cui spiritualità travalica i limiti dell’immaginabile, ha ritrovato la terra di sua madre, ed è stata lei a guidarlo con una serie di segni; ora, in questo secondo paese di appartenenza ritrova i colori, le immagini e addirittura i profumi di una metà del suo patrimonio genetico. Spiega: “Le percezioni possono influenzare la vita di ognuno, sono quel filo invisibile che fa toccare con mano la presenza di un mondo ultra. Aldo Grieco, attraverso i culti dei popoli che hanno attraversato la penisola, ha colto il senso della ricorrenza e gli influssi delle varie culture che si sono susseguite. La nostra Ognissanti, sebbene abbia la stessa radice della nordica Halloween, non ha subito le aberrazioni a cui è giunta la seconda. Purtroppo, anche a Bonito, sono comparsi bambini in veste da strega, ninfetta e altro ma, per fortuna, ancora ben lontani dalla Halloween americana in cui serpeggia l’ombra nera del male attraverso messaggi subliminali o espliciti. Nunzio Lucarelli, psicologo del gruppo, ha sottolineato il nostro intento primario: “Dare maggiore impulso alle antiche sensibilità”, recuperare insomma un rapporto più diretto col tutto e con se stessi attraverso lo scrutamento del proprio intimo. Continua Nunzio: “Il mondo occidentale ha soffocato la sensibilità necessaria per avvertire altre dimensioni”. La nostra testa è bersagliata da raffiche di messaggi di ogni genere, tali messaggi disturbano la vita psichica e le sue naturali interazioni rendendo la mente un magazzino vuoto in cui poter affardellare ogni sorta di spazzatura. Dall’attentissimo pubblico è emersa la testimonianza di Antonio Panzone che ha ricordando, tra l’altro, come il lutto fosse occasione, per le famiglie disagiate, di pranzi più sostanziosi. Dal suo intervento sono emersi nuovi spunti di approfondimento e nuovi vissuti da registrare. Nel concludere, mi sono soffermata sul cibo preparato per l’occasione, un buffet a tema con piatti tipici dall’Italia tutta. Pietanze semplici ma altamente simboliche consumate dai vivi e dedicate ai congiunti, spesso lasciate sulla tavola per rifocillare i morti nella loro annuale venuta. La base di queste preparazioni è costituita da cariossidi di Poaceae, naturale dicotomia tra la disidratazione che blocca il processo degenerativo e permette di aspettare il momento propizio per germogliare, e la morte momentanea in attesa della resurrezione dei morti. Si tratta di grano o granturco, il cui episperma protegge l’embrione e ne inibisce la germinazione in momenti inopportuni; così le anime avvolte dal sonno della morte, sono in attesa del giudizio universale, quando risorgeranno per contemplare l’Altissimo.

convegno 31 ottobre 2013 – Le ricorrenze della Grande Madre – (Bonito – Av)