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Domenica della Pignatta e Segalavecchia

dscn8130Riti e giochi di quaresima tra penitenza e rinascita
Franca Molinaro, Ottopagine 29 marzo
Il periodo quaresimale è caratterizzato da penitenza, mortificazione del corpo, preghiera e astinenza, ma non è una regola, ogni occasione è buona per trasgredire anche se, la trasgressione è travisata da monito a prevenzione dei peccati, di gola in modo particolare. Già nella domenica successiva al carnevale, un po’ ovunque in Italia, si festeggia la “Pignatta” con il rituale della rottura della stoviglia. Quest’anno ho avuto modo di assistervi a Calvi (BN) dove, l’Associazione Fornillo, ogni anno si ostina a mantenerne viva la tradizione. La pignatta, in questa zona, è posta a terra mentre in altre, solitamente è sospesa ad una corda tesa. I partecipanti si iscrivono con una quota simbolica, poi intervengono rispettando un ordine dettato dal sorteggio. Ogni partecipante è bendato e fatto girare su se stesso, armato di un lungo bastone e incitato a proseguire, solitamente nella direzione sbagliata, tra l’ilarità generale. Il campo di gioco è delimitato da segni fatti sul selciato, chi li oltrepassa è squalificato. La regola vuole che può sferrare un solo colpo, se riesce a rompere la pignatta ha un premio che corrisponde solitamente a un prodotto agricolo, salame o formaggio. Giuseppe Molinaro, curatore di questa manifestazione, così spiega il rito: “La domenica che segue il carnevale si ripulisce la dispensa dei residui del carnevale perché in settimana vige il veto della carne. La domenica, la contrada si riunisce per consumare ciò che è restato di cucinato, la pizza con salame, il “pezzente nella pignata” e altre cibarie solitamente di maiale come: piedi, cotenna, orecchie, coda. Il gesto di rompere la pignatta significa che da quel momento si entra realmente nella quaresima e non si cucina più di grasso fino a Pasqua”. La festa della pignatta, però, è più antica di quanto immaginiamo e, sicuramente, ha radici in quei riti equinoziali propri della primavera e della rinascita, momenti delicati dell’anno agricolo e della spiritualità umana ad esso inscindibilmente legata. La pignatta, inoltre ha valenza simbolica che, al di là del licenzioso dire del volgo che l’associa al sesso, ha valore ben più sacro in quanto oggetto cavo e scuro, di cui nessuno conosce le interiora, immancabilmente simbolo dell’utero divino della Grande Madre. La quaresima cristiana non può sopprimere le pulsazioni vitali che giungono dal cuore della terra e investono la natura tutta facendola rifiorire, condizione che inevitabilmente solletica l’uomo e lo invita alla vita.  La serata calvese è una prima occasione per dimenticare il tempo di penitenza e con la scusa di rammentare i doveri cristiani quaresimali, si scherza e si ride ancora come in clima carnevalesco. La manifestazione comincia nel primo pomeriggio e si conclude a sera con suoni, balli, canti, vino e gli immancabili taralli che da sempre, a Calvi, hanno accompagnato ogni evento. Dopo questo primo  momento di allegria ne sopraggiunge un altro a mezza quaresima, precisamente il quarto giovedì, con il “Sega la vecchia”, rito ritrovato un po’ ovunque sotto diverse forme, teatralizzato o messo in scena in famiglia, era comunque occasione di gozzoviglio e allegria. In alcuni luoghi vi è memoria di teatranti che portano in giro lo spettacolo in compenso di cibarie, una seconda questua carnevalesca, come già era accaduto con la Zeza. Il motivo comune è una farsa che ricorda una vecchia golosa di salame, colta in flagrante e condannata per aver divorato una salsiccia. La pena è capitale, essere segata in due; in un secondo momento arriva il marito, un vecchio che la cerca. Con l’ausilio di figure simboliche quali medico e farmacista, la si rianima e il vecchio la riporta a casa. La vecchia è impersonata da un tronco di quercia o da un pupazzo impagliato. L’unica testimonianza diretta che ho trovato in provincia di Benevento è quella di Molinaro Antonio che, fino a venti anni fa, ha ospitato il rito nella sua masseria. Antonio però ricorda che la festa si svolgeva nel giorno di giovedì grasso e non nel quarto giovedì di quaresima. Non so dire se questo particolare importantissimo è una incongruenza o un fallo della memoria del testimone. Ecco come si svolgeva la cosa. Tutti i membri della famiglia, un tempo particolarmente allargata, si riunivano presso la casa del capostipite e realizzavano un pupazzo con i vestiti e le sembianze di una donna: gonna, grembiule, fazzoletto in testa. Poi, mentre gli anziani giocavano a carte e la padrona di casa preparava la cena, solitamente frittata con salsiccia, i giovani prendevano lo “strongone”, vecchia sega a due adoperata dai boscaioli per segare i tronchi di quercia, e segavano in il simulacro di vecchia. Fatta l’operazione si dedicavano ad altri giochi quali il tiro della fune, il palo della cuccagna, e naturalmente il ballo. Antonio non sa darmi una spiegazione di questo gioco ma anche questo ha una radice molto antica, ecco cosa spiega Cattabiani: “Si tratta in realtà di un rito precristiano che segnava il passaggio da un anno all’altro ed è sopravvissuto nella cristianità, dove fino alla Rivoluzione francese in molte regioni e città europee, l’anno cominciava il primo o il 25 marzo, con l’Annunziata”. Anche questa festa cristiana lascia pensare a riti precedenti legati alla primavera e all’annuncio del nuovo ciclo vitale. Intanto ricompare la vecchia con gli ultimi giorni di marzo, in alcune leggende del mondo pastorale, in questo caso la vecchia, o in alcuni luoghi il pastore, si assoggetta  ai capricci di marzo  per avergli mancato di rispetto.

A Cèlle de Sant Vite se fàte la ‘squàccià-pìgnate’ sélle appennì che dinghién aiànte ciuòse bùne e pòiye avòiye lu già de la ‘Cannarùte’ che se fàte a sa maniére: se barrùnte lo siye do na bénde strènte ‘nchiòcche lo sìye e pòiye sélle bendà i a ressàtere a taglìye l’ià ‘ntustà, fine a decchìre i ressàglie pa, avòye do un pu de ayute e pòye se lu puòtte mingìye. = A Celle San Vito si fa la rompi-Pignatta quella appesa che dentro vi si mettono cose buone e poi anche il gioco della ‘Cannarute’ che si fa in questo modo: (simile alla Pignatta) si chiudono gli occhi con una benda ben stretta sugli occhi (del bambino) e poi quello bendato deve riuscire a tagliare l’uovo duro, (precedentemente rassodato) fino a che non vi riesce, anche con un po di aiuto, dopodichè potrà mangiarselo.

IL GIOCO franca molinaro

Il gioco nasce con l’uomo, ma potremmo dire anche con gli animali, tutti i cuccioli giocano poi, crescendo, gli uni e gli altri, modificano l’azione ludica secondo l’occorrenza. Gli uomini organizzano gare che possono coinvolgere il mondo intero, gli animali, i pavoni combattenti, ad esempio, si danno appuntamento, quotidianamente, in una radura delimitata da loro leggi e vi duellano a turno sviluppando un agonismo simile a quello umano.

Il gioco può essere inteso come una parte della creazione, un’idea archetipica che si è modificata nel corso della storia seguendo un’evoluzione culturale pari all’etnia di appartenenza.

Il gioco ha valore sacro presso le civiltà delle origini, valore che è andato sfumando nel corso dei secoli o solo camuffandosi in superficiali mutamenti. L’essenza del gioco resta sempre la stessa come lo stesso è il principio.

Fatto esclusione della trottola, che è tipicamente occidentale, e dell’aquilone introdotto in Europa nel XVIII secolo, tutti gli altri giochi compaiono fin dall’antichità in diverse forme o con sfumature differenti, presso tutte le etnie, questo a conferma dell’ipotesi di un unico meme originario.

Il gioco più popolare, la campana, ha origini nell’antico “gioco del mondo”, un labirinto nel quale si spinge una pietra verso l’uscita. La pietra starebbe a rappresentare l’anima nel suo percorso terreno. Con il Cristianesimo si modifica lo schema del gioco ma non il significato, il graffito disegnato sul terreno diventa la pianta di una basilica con il suo asse costituito da rettangoli, terminante nel semicerchio dell’abside. La pietra è sempre l’anima spinta nel percorso di salvezza verso il paradiso idealmente identificato nell’abside semicerchio. Anche gli scacchi, provenienti dall’India si occidentalizzarono durante il Medioevo subendo l’influenza del cristianesimo e dell’amor cortese (Cfr Roger Caillois I giochi e gli uomini, la maschera e la vertigine, Bompiani 2007).

Il gioco  ha numerose sfaccettature che, prese tutte in considerazione, investono totalmente la vita dell’uomo, dall’apprendimento alla regolazione degli istinti. Seguendo la suddivisione di Caillois si possono individuare nel gioco quattro aspetti fondamentali: Agon, Alea, Mimicry ed Ilinx. Agon è la spinta interiore a confrontarsi, mettersi in competizione e, con regole civili, primeggiare, a questa categoria appartengono tutti gli sport ma anche i giochi improvvisati tra ragazzi e regolati dalla lealtà. Alea comprende tutti i giochi in cui è la sorte a determinare la vincita, dai dadi alla lotteria. Mimicry è il divertimento attraverso l’assunzione momentanea di una nuova identità, dall’attore al bambino che gioca al dottore. Ilinx comprende i giochi che generano uno stato di smarrimento sia organico che psichico, quali le montagne russe dei luna park, la caduta libera ecc.

Questa suddivisione operata da Caillois non è affatto canonica, come egli stesso sottolinea, perchè ogni categoria si può integrare e a volte confondersi con altre, ciò a dimostrare che il mondo del gioco è talmente vasto e inafferrabile che non può essere schematizzato facilmente o esaustivamente. Il gioco, di per sé, è momentaneo abbandono delle regole quotidiane, evasione dalla routin, ma è regolarizzato da leggi specifiche atte ad imbrigliarlo in schemi moralmente inoffensivi e socialmente non dannosi. Il gioco è una frazione della vita in cui è sospesa momentaneamente la realtà ma non per questo scindibile da essa, infatti l’attività ludica interagisce con la vita reale, dalla nascita alla morte. In alcune etnie il cordoglio è composto da varie attività e tra queste è compreso il gioco. Dalla nascita alla morte, dunque, l’uomo fa del gioco un fedele compagno di percorso.

L’immagine che il bambino acquisisce dello spazio nel quale vive si struttura sulla base dell’esperienza quotidiana del territorio e sui simboli che successivamente vi si imprimono. Il primo rapporto uomo-spazio si ha attraverso il gioco, metodo che l’uomo fanciullo applica seguendo un naturale bisogno. Per il fanciullo, il gioco è un’esperienza fondamentale di rapporto con la realtà e occasione di continua sperimentazione.

Pavese scriveva nel suo diario che, mentre “l’adulto gioca per divertirsi, il bambino gioca per giocare” come se il gioco fosse un lavoro atto a forgiare il futuro uomo.

L’acquisito della sua percezione, però, non è l’esatta dimensione della realtà. Il fanciullo che gioca vive l’esperienza ludica in due dimensioni, una reale ed una immaginaria entrambe si integrano e si confondono tanto da risultarne difficile lo sdoppiamento.

Questo aspetto ambiguo del gioco mette in crisi tutte le opposizioni concettuali classiche, reale-immaginario, verità-finzione, realtà-apparenza. Per la stessa ragione il gioco è stato, a volte, esorcizzato, neutralizzato e spogliato di questa sua carica eversiva, fino a renderlo puro sollazzo, fenomeno non serio, marginale, appunto momento di gioia e spensieratezza.

Il mondo del gioco, occupando una dimensione tra il reale e l’immaginario, trasmette agli oggetti del gioco la sua natura, i giocattoli, quindi, acquistano quell’anima che Baudelaire definiva diabolica. Un giocattolo, infatti, vive solo nel momento in cui è reso oggetto di gioco e, al pari del bambino che gioca, si ritrova in una realtà bidimensionale, la sua realtà effettiva e quella dell’immaginazione del giocatore; il suo essere reale è di semplice oggetto con o senza mansioni specifiche, la sua essenza, diversamente,  è nel suo carattere magico. Magica è la stessa dimensione in cui si vive giocando. Un semplice pezzo di legno, una pietra, un ramo spezzato può fungere da giocattolo. I fanciulli di un tempo giocavano a mazza e pivezo (mazza e pezzo) con una mazza e un pezzo di legno, da questi due elementi sviluppavano un gioco abbastanza elaborato, con leggi modificabili secondo la circostanza ed i patti dei giocatori, un gioco che rimanda al baseball americano. Il giocattolo o il mezzo del gioco, visto con gli occhi dello spettatore è un oggetto parziale appartenente al mondo reale ed ha il solo scopo di tenere occupati i fanciulli, diversamente assume un significato ambiguo per il bambino che gioca, egli ha coscienza della natura del pezzo di legno che usa come mazza o pezzo, ma sa anche che tale pezzo può assumere l’identità opportuna per il suo gioco. Questo lavoro mentale non sempre è causato dall’assenza di mezzi di gioco, dovuti, come nel caso del nostro studio, a deficienze economiche, piuttosto è ascrivibile alla capacità propria dell’età fanciulla.

Il fanciullo ha una grande capacità inventiva, sa creare con la sua fantasia luoghi e vissuti differenti dalla realtà che con essa si integrano e si scindono al momento opportuno.

Bisogna però riconoscere che i giochi di un tempo lasciavano molto più spazio alla creatività, la mancanza di giocattoli induceva i fanciulli ad inventarne traendo mezzi dagli oggetti posseduti o recuperati in natura. Non a caso gli oggetti più presenti tra i giochi del passato, sono i sassi.

Oggi, la quantità di giocattoli che possiede un bambino appartenente alla classe media è enorme ma non solo, la maggior parte sono giochi che non costruiscono bensì distruggono. Tutti i giochi play station creano dipendenza, apportano problemi alla vista, sono violenti quindi sviluppano nel bambino la visione di un mondo in cui i rapporti umani sono prevalentemente violenti. Anche l’immedesimarsi nel pupazzetto del gioco è deleterio per la salute mentale del fanciullo. Il pupazzetto diventa il delegato del fanciullo che desidera essere il supereroe ma sa di non poterlo diventare nella realtà, dunque delega le sue aspirazioni immedesimandosi nel vincitore. Lo stesso discorso è valido per quanti vivono alimentandosi di un idolo che può essere un cantante, un attore o anche un politico, un individuo in vista insomma.

Un esperto di giochi elettronici può diventare un disadattato nella vita, un perdente, come chi vive la gloria per interposta persona.

I giochi elettronici, oltre a modificare i rapporti umani, modificano la capacità di sentire del fanciullo; i sentimenti e la sensibilità che può sviluppare un bambino vivendo all’aria aperta, in contatto con la natura, gli animali e le persone, vengono cancellati dalla presenza coatta di un mondo immaginario ben lontano dalla realtà in cui l’uomo dovrà vivere. L’esperienza ludica perde il suo valore terapeutico e precipita nell’opposta reazione, piuttosto che scaricare le tensioni interne le aumenta. Un bambino che ha giocato due ore al videogioco non è rilassato o salutarmente stanco come un bambino che ha fatto capriole nei prati o rincorso un aquilone.

Il gioco, dice Fink, “produce il ‘divenire leggero della vita, genera una temporanea, solo terrena liberazione, anzi quasi redenzione dai pesi dell’esistenza. Ci strappa ad uno stato di fatto, alla prigionia in una situazione opprimente ed angusta, procura una felicità fantastica nel farci volare tra possibilità fuori del tormento di una scelta reale”. Se il gioco produce allegria la sua funzione terapeutica è assicurata perchè uno stato mentale positivo favorisce il riequilibrio delle forze endogene, diversamente non può che essere deleterio.

Aristotele diceva che si gioca sempre “in via di ricreazione”, come pausa distensiva. Un gioco è tale solo se induce piacere. L’azione ludica si esaurisce nel momento in cui l’allegria e lo slancio si affievoliscono.

Per Nietzsche il rapporto tra Cultura e gioco è inscindibile e perpetuo, egli scrive: “Noi crediamo che la favola e il gioco appartengano alla fanciullezza: miopi che siamo! Come se in una qualsiasi età della vita potessimo vivere senza fiaba e senza gioco! Certo, li chiamiamo e li consideriamo diversamente, ma proprio ciò dice che sono la stessa cosa, perché anche il fanciullo considera il gioco come il suo lavoro e la fiaba come la sua verità”.

L’esperienza ludica, dunque, ha valore terapeutico nel momento in cui favorisce l’attivazione di problematiche inconsce liberando l’io dai contenuti rimossi, attraverso lo smaltimento delle tensioni interne attiva una naturale forma di difesa contro gli stati ansiogeni, costituisce, inoltre, motivo di maturazione dell’io nel momento in cui ristruttura attivamente i contenuti dei vissuti.

Caillois scrive: I giochi disciplinano gli istinti e impongono loro un’esistenza istituzionale. Nel momento in cui accordano agli impulsi un soddisfacimento formale e limitato, essi li educano, li fecondano e vaccinano l’anima contro la loro virulenza. Contemporaneamente, li rendono atti a contribuire positivamente ad arricchire e determinare gli stili delle culture.

Nella società contadina, i primi contatti col mondo, giungevano al fanciullo attraverso la madre che, spesso, doveva dedicare le sue attenzioni al figlio nascondendosi al resto della famiglia allargata in cui viveva.

La regola di tale società voleva infatti che i figli se vasano quanno duormono. In tale contesto fatto soprattutto di bisogni primari non c’era spazio per effusioni affettive o perdite di tempo.

Il demologo Salvatore Salomone Marino, descrivendo l’atteggiamento dei padri siciliani verso i picciriddhi  così scrive: “…Il contadino, utilitario sempre, piange e si attrista profondamente per l’asino che gli s’azzoppa, pel maiale o la gallina che muore, pel cane che gli s’arrabbia; ma non una lagrima, non una parola ha per la creatura che gli muore di qualche mese: eppure è carne della sua carne! Se la triste nuova gli giunge mentre è al lavoro ei non ismette per ciò”.

La madre, però, per quanto plasmata in questa ottica, restava madre per istinto naturale e riscattava i pargoli investendoli di valore magico in certe ricorrenze e coccolandoli nei momenti di intimità. Approfittava del sonno del figlio per dedicargli ninna nanne in cui cantava tutto il suo amore e la disperazione per la situazione precaria.. Poi inventava giochini per la prima infanzia accompagnati da filastrocche con le quali aiutava il bambino ad impadronirsi del linguaggio. In tutta l’Irpinia, il primo gioco dei neonati era il cavalluccio sulle gambe della madre accompagnato da strofette del tipo Arri arri Gesualdo parti priesto e arriv’a tardo. Si te parti stammatina tu t’abbuschi ‘no carrino, si te parti a mizzijuorno tu t’abbuschi ‘no bello cuorno. Se il movimento, da trotto, diventava oscillatorio allora si diceva: Seca mollese e ‘ste donne ‘e ‘sto paese e la seca no’ bo’ secà ce mettimmo pane e vino vide la seca come cammina, ce mittimmo pane e caso vide la seca come trase, trase trase tanto bella tuppetew tuppete ninno ‘nterra. Oppure: seca seca masto Ciccio ‘na panella e ‘no sausicchio, lo sausicchio ce lo mangiamo e la panella ce la portamo, ce la portamo a l’abbatessa, l’abbatessa ea de Patierno quanno more vace a lo ‘nfierno.

La madre, alla quale era affidato l’insegnamento, usufruiva del gioco per impartire le prime nozioni di vita. Allora comparivano i primi giochi che nel far ridere il fanciullo miglioravano le sue capacità riflessive. Il gioco della fontanella era fatto nel palmo della mano del bambino contando le dita: Qua ce steva ‘na fontanella, ivo a beve ‘no pecuriello, ivo lo lupo se l’ancappao, quisto l’accidio, quisto lo scorcia, quisto se lo mangiao e quisto deceva pio pio la parte mia. Oppure, carezzando il viso del fanciullo: Mucia mucella t’ha mangiato lo casillo, t’ha mangiato la recottella, frusta a la casa, frusta a la casa.

I primi passi del bambino si svolgevano sull’aia o al fresco di un albero, nei campi dove lavoravano i genitori, allora il bimbo giocava da solo con pietre, rametti col fedele cane di compagnia ma, sebbene da solo, il bambino compiva un’esperienza comune perchè giocare comporta sempre un rapporto con un altro, anche nelle vesti di un avversario immaginario tutto interno. L’apertura all’altro fa parte costitutiva del gioco sia nella veste di una pietra, di un cane o di un ipotetico compagno invisibile.

Presto i fanciulli incominciavano a rendersi utili nell’economia domestica, la loro prima attività lavorativa era il pascolo, per conto dei genitori o a garzone presso i massari. La prima esperienza di pastore avveniva con animali di piccola taglia tipo i tacchini, poi si passava al gregge o ai maiali. In questo primo contatto con la natura e con altri ragazzi più o meno grandi, incominciava l’esperienza sociale del fanciullo e la sua formazione. Lontano dalla madre, solitamente più propensa ad un insegnamento legato alla morale corrente, il fanciullo si trovava in balia dei suoi istinti e degli insegnamenti dei compagni più grandi.

Cominciava l’interesse per i suoi stimoli sessuali e dalle cose ascoltate traeva considerazioni, dalla curiosità al desiderio e quindi alla sperimentazione spesso con le femmine del pascolo.

Il tempo libero non lasciava spazio all’ozio che nel fanciullo sano è totalmente assente. Mentre gli animali pascolavano i ragazzi giocavano costruendo trottole, frecce, trappole per uccelli, pifferi, fionde, balestre, cerbottane.

Da queste attività emergevano le caratteristiche della loro personalità. Dalla ricerca sul campo risulta prevalere la componente sadica infatti, il più delle volte, gli strumenti erano costruiti per nuocere agli animali. Le bestie catturate erano spesso seviziate o uccise, il rospo finiva impiccato, il tafano era mandato a mietere in Puglia con una resta di spiga infilata nel dotto deferente, le farfalle inchiodate da spilli, il riccio appeso per un piede.

Naturalmente emergevano anche i temperamenti miti distinguendosi nell’ingegno poetico,  costruivano strumenti musicali e ne sperimentavano il potenziale melodico oppure seguivano i pastori anziani per imparare i loro canti. Il flauto di castagno o di salice, noce, era il primo strumento musicale che i pastori imparavano a costruire, bastava un coltellino e il ramo giusto nella stagione primaverile, quando la linfa affluisce sotto la corteccia. Da questo rudimentale strumento nascevano armonie impensabili, dipendeva tutto dal talento del suonatore. I pastori, col loro coltellino, imparavano anche ad intagliare, nel legno di bosso o di ulivo, le castagnole che accompagnavano il ritmo della tarantella. Gli spiriti nobili creavano artisticamente modellando nell’argilla rudimentali statuine, i trastulli.

Le fanciulle avevano meno tempo per giocare perchè erano avviate alle attività domestiche fin da piccole, venivano addestrate a fare la pasta sulla spianatoia al lato della madre o a lavare qualche piccolo indumento su una pietra bassa presso il fiume o il ruscello. Quando potevano, con l’aiuto della mamma, costruivano una pupa di pezza e giocavano a fare la mamma. Le bambine erano educate al ruolo femminile fin da piccole di modo che la loro unica aspirazione fosse quella di metter su famiglia e procreare.

I giocattoli erano pochissimi, erano un lusso per ricchi, inaccessibili alla classe subalterna. I bambini sfruttavano la loro fantasia e rendevano ogni cosa potenziale mezzo di gioco.  Se i bambini di oggi non avessero giocattoli sofisticati sarebbero capaci lo stesso di giocare con mezzi poveri. Anzi, verrebbe stimolata meglio la fantasia e quindi la capacità inventiva. “I bambini giocano ovunque allo stesso modo” scrive Francesco Barone “Quando un bambino gioca non fa altro che giocare. Il gioco è il mezzo e il fine dell’apprendimento, non è mai qualcosa di insegnato da altri”.

Quando potevano riunirsi in crocchio, i ragazzi facevano giochi di competizione mettendo in discussione la propria abilità, il proprio ingegno ed intelligenza.

Molto comune era il gioco dei bottoni che consisteva nel lanciare, con una particolare mossa del pollice sull’indice, un bottone in uno o più cerchi, oppure vicino ad un muro, secondo regole stabilite all’occorrenza, chi vinceva aveva in premio il bottone a discapito di chi perdeva che tornava spesso a casa con i pantaloni legati con lo spago. Qualche bottone più grosso era usato per fare lo zerreche zè, infilato in uno spago e fatto ruotare velocemente, il bottone si avvolgeva e si svolgeva emettendo un ronzio. Anche i sassolini erano buoni per giocare e i giocatori a volte mettevano in palio cucchiaiate di carburo per realizzare le bott’a muro per le feste natalizie. Possedere un soldo era da ricchi e chi aveva l’ardire di scommetterlo giocava a doppio soldo usando una moneta al posto del bottone.

Le pietre erano la fonte di materiale più comune, quelle rotonde e piatte erano usate per giocare a zzolle, un tipo di gioco simile alle bocce. Sempre con un sassolino tenuto tra le mani giunte, il capo gioco passava con le sue mani in quelle giunte dei compagni e lo lasciava cadere dove preferiva, poi chiedeva ad un giocatore dove stava il sassolino. Se l’interpellato indovinava prendeva il posto del capogioco. . Le bambine invece giocavano a cicciole, prendevano un pugno di sassolini possibilmente di calibro regolare, le lanciavano in aria e le lasciavano ricadere sul dorso della stessa mano cercando di recuperarne il maggior numero possibile. Naturalmente vinceva chi ne reggeva di più. Tra le bambine era molto frequente la ben nota campana, oppure zopp’allina: bisognava saltellare su un piede solo ripetendo Zoppa zopp’allina quante penne puorte ‘nzino? Ne porto vintequatto una doe tre e quatto. Il gioco dei ceci consisteva nell’indovinare quanti ceci racchiudeva nel pugno il capo del gioco che recitava: Puzzunzerra quant’afferra? Quanta cicere ind’a lo puneie? La atta cecata si giocava in una stanza coprendo gli occhi ad una bambina, la prima ad essere toccata dalla bambina bendata ne prendeva il posto. Comune era anche il nascondino chiamato cicola. Il salto con la corda si chiamava zompalafuna e il termine era usato come dispregiativo quando si voleva indicare una ragazza di facili costumi.

Nei giochi che prevedevano un capogioco, per sceglierlo, tra giocatori si faceva la conta, se vottava tuocco, la pratica consisteva nel recitare strofette apposite e toccare il petto consecutivamente ai giocatori fino all’esaurimento delle sillabe che componevano la strofa. A volte nel gioco era previsto uno strumento più sofisticato che i ragazzi costruivano con l’aiuto dei nonni o dei genitori.  Lo strumento più in uso era lo strummolo, una trottola di legno che fungeva da passatempo per singoli o come competizione tra più ragazzi, allora diveniva spaccastrummolo, un giocatore lanciava una trottola e subito un secondo giocatore ne lanciava un’altra per eliminare la prima e così via.

 Quando i barili se scarrecavano,  si allentavano e perdevano i cerchi di ferro, allora era un’occasione buona per trafugarli dalla cantina e usarli, servendosi di una mazza, come gioco.

Palla di pezza era un altro gioco comune a chi aveva pezze o stracci da poter arrotolare.

Uno ‘mpont’a la luna era l’attuale cavallina, un bambino si metteva piegato e l’altro gli saltava addosso a gambe aperte aiutandosi con le mani.

Il gioco non tramontava con l’adolescenza infatti nelle sere di festa, molto frequenti durante l’inverno, finché non si esauriva l’olio della candela, si ballava e tra una danza e l’altra si facevano dei giochi, degli indovinelli, chi perdeva doveva pagare un pegno del tipo baciare la fiamma della candela, fare una dichiarazione d’amore alla padrona di casa. Naturalmente il tutto era accompagnato dal suono allegro dell’organetto che induceva spesso a quadriglie in cui il gioco diventava malizia, abilità e scaltrezza. Un giovane comandava la quadriglia e, attraverso varie figure, proprie di questo ballo, eliminava, uno per volta i ballerini fino a lasciare in pista la ragazza da lui corteggiata o, dietro suggerimento di un innamorato, una coppia in cui c’era celata intesa. Gli adulti osservavano vigili e lasciavano scorrere le cose consapevoli che la vita, dopotutto, è un gioco continuo, ci si mette in gioco quotidianamente ed ogni volta si giocano le carte migliori per raggiungere il traguardo prefissato.

 

Equinozio di primavera: giornata mondiale della poesia, di Franca Molinaro

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“San Biniditto (21 marzo) la rinola a lo titto ma si no’ bene pe’ l’Annunziata (25) o è morta o stace malata”, abbiamo tempo, dunque, fino a martedì, poi dobbiamo incominciare a temere, già perché quest’anno di rondini non se n’è viste ancora, i nidi sotto i cornicioni, sfaldati dalla pioggia, sono colmi solo di speranza. L’assenza di rondini è un segnale di degrado ambientale, ci auguriamo che la situazione non precipiti con ulteriori aggressioni al grembo della Grande Madre perché i fumi dell’oro nero cancellerebbero definitivamente i voli garruli delle messaggere primaverili. Intanto l’annuncio della rinascita è affidato ai passeracei che amoreggiano cinguettando, ai ranuncoli dalle corolle dorate, che gareggiano col sole per splendere in tutta la loro bellezza. Mandorli, peschi e susini hanno indossato l’abito nuziale e ingrossato le gemme, la fruttificazione, ora, dipende dal sole e dalla cura dell’agricoltore. Tutt’intorno, il cielo azzurro, è garanzia del ritorno alla luce, la natura si sveglia e le creature tutte si preparano ad affrontare un nuovo ciclo vitale. L’equinozio di primavera, che segna l’ingresso nel nuovo anno astrologico, è il momento dell’anno, insieme all’equinozio autunnale, in cui il giorno e la notte pareggiano le ore, dopo il 21, l’oscurità si ridurrà sempre più. Il ventuno marzo è anche la Giornata Mondiale della Poesia istituita dalla XXX  sessione della Conferenza Generale UNESCO nel 1999 e celebrata per la prima volta il 21 marzo dell’anno seguente. L’istituzione di tale giornata riconosce all’espressione poetica un ruolo privilegiato nella promozione del dialogo interculturale in funzione della pace. La poesia, tra le più nobili delle arti ma, sicuramente, la meno redditizia, è spesso bistrattata per non essere fonte di reddito ma semplice moto dell’anima, espressione di chi “ha poco contatto con la realtà e vive in un mondo oltre le nuvole”. L’UNESCO però, ben ha inteso quanto importante è l’espressione poetica rispetto ai singoli e alla comunità. Se per il singolo individuo la poesia, come la scrittura tutta, è un atto terapeutico capace di restituire la serenità interiore liberando dai numerosi fardelli interni ed esterni, per una civiltà, la poesia è il mezzo attraverso il quale si individuano e si comprendono le problematiche meno evidenti, è il segnale che indicizza il livello di sofferenza o di pace, di serenità sociale o di malcontento perché, da sempre, il poeta è “figlio del suo tempo”. Coerenti con la nostra linea di condotta, noi del Centro di ricerca tradizioni popolari la Grande Madre, abbiamo ritenuto opportuno iniziare le attività del 2014 celebrando la giornata sia come inizio della primavera e quindi di rinascita, sia come proposta dell’UNESCO. Per festeggiare la bella stagione, nella sala consiliare di Bonito, Erminia Barbieri e la sua scuola di ballo hanno creato una coreografia sulle note della musica popolare. Le chitarre di Nunzio Lucarelli e Gerardo Lardieri, del Centro La Grande Madre, hanno ottimizzato l’atmosfera apportando convivialità e gioia, indispensabili per la giusta riuscita di ogni evento. Per rendere onore al territorio, abbiamo parlato di poesia irpina con Paolo Saggese e il suo ultimo testo, Storia della poesia irpina 2, da primo Novecento ad oggi, Edizioni Delta3. In merito, dopo il saluto del sindaco di Bonito Antonio Zullo e dell’ass. David Ardito,  è intervenuto Giuseppe Iuliano del CDPS, Paola Silano del Centro La Grande Madre e l’autore, il tutto moderato da chi scrive. Il testo, che raccoglie 102 profili di poeti, è il seguito di un primo già edito da Sellino Editore. La meticolosa ricerca del professore Saggese ha portato alla luce numerosi scritti abbandonati in biblioteche pubbliche e private e ridato dignità a personaggi che hanno affidato alla poesia le pene e le gioie, le tribolazioni e la storia di varie generazioni. Molti i ritratti di poeti dell’ultima generazione, segno, forse, di una comune sofferente coscienza sociale o, forse, solo risultato della scolarizzazione che, finalmente, ha donato dignità culturale a tutto il popolo. Una sezione è dedicata anche ai poeti dialettali che, in questi anni, abbiamo proposto e incoraggiato attraverso il Raduno annuale di Montemarano e il concorso di poesia dialettale. Il capillare lavoro di Saggese, in qualche modo è parallelo alla nostra ricerca in campo antropologico, dare dignità alla letteratura di un luogo è come riscoprirne le tradizioni, la storia, è come dipingere i ritratti di chi ha vissuto quella terra, chi vi ha sofferto e chi l’ha amata. Il nostro entroterra, come ben scrive Ugo Piscopo nell’introduzione, è sconosciuto nel resto del territorio nazionale, sia in termini culturali che geografici, studiarlo significa valorizzarlo e promuoverlo nelle sue bellezze siano esse paesaggistiche che letterarie. Un territorio studiato è amato e di conseguenza è maggiormente protetto dall’insidie di possesso o sfruttamento. Dare identità a un popolo significa anche conferirgli una statura morale capace di affrontare il nemico e vincerlo mentre, un popolo sconosciuto porge il fianco agli aguzzini e si lascia scacciare o avvelenare, si lascia conquistare, la storia ne è testimone.

Storia della Poesia Irpina – 21 marzo 2014 – Bonito (Av)

21 marzo Equinozio di primavera, Giornata mondiale della poesia

21 marzo equinozio di primavera, giornata mondiale della poesia

Presentazione “Storia della poesia irpina2, dal primo Novecento ad oggi” di Paolo Saggese

La domenica della pignatta

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La domenica della pignatta                                                       di Franca Molinaro
I quattro giorni successivi al carnevale sono giorni di magro, di astinenza, di penitenza, la quaresima annunciata il mercoledì con l’imposizione delle ceneri è ormai una realtà ma, nell’aria si avverte ancora un residuo di allegrezza, reminiscenza dei lazzi carnevaleschi o attesa della domenica, in qualche luogo detta “Carnevalicchio”. In alcuni paesi come Montemarano o Castelvetere si tratta di una nuova puntata del carnevale, la messa in scena della sua morte, il testamento e infine il rogo in cui il pupazzo brucia sulla piazza, tra il lamento funebre della vedova e le risa degli astanti. In tanti altri, invece, si compie un rito dalla molteplice valenza. Lungo tutto lo stivale, ma persino nell’odierna Spagna, si festeggia la domenica della pignatta”, con ritualità più o meno somiglianti ovunque. A  Calvi (BN) è l’Associazione Fornillo a organizzare la manifestazione. La prima domenica di quaresima, tutta la contrada si riunisce in un luogo spazioso, preferibilmente un’aia dove, sospese a un filo di ferro, si trovano tre pignatte. Nel caso di Fornillo, la pignatta non è sospesa in aria ma appoggiata a terra in un cerchio disegnato sul selciato, sul lato corto di un rettangolo. I presenti versano una simbolica quota di iscrizione poi, l’ordine di partecipazione è estratto a sorte. Ogni concorrente è accuratamente bendato e fatto girare più volte su se stesso infine, armato di un lungo bastone è lasciato libero di andare incontro al suo trofeo, la pignatta, posta a una ventina di metri di distanza. Durante il tragitto il concorrente prosegue ascoltando i suggerimenti dei presenti che, spesso, per divertimento, portano il cavaliere bendato in tutt’altra direzione. Se il concorrente esce dalla linea che segna il campo, è subito squalificato, se arriva nei pressi della pignatta è incitato a sferrare il colpo, uno solo che, solitamente cade a vuoto nell’ilarità generale. Quando il pubblico è sazio di burle e di risa guida correttamente i concorrenti e i colpi cadono sulla bella stoviglia di terracotta che va in frantumi. Il premio per i vincitori è un salame o del formaggio, alimenti che rimandano ancora al carnevale. Nei luoghi dove la pignatta è sospesa, la si riempie di acqua, cenere, caramelle, di modo da rendere ancora più scherzosa la manifestazione. Il clima, dunque, è ancora quello di carnevale; tra risa, tarantelle e balli, la serata si conclude con vino, dolci e cibarie. Chiedo spiegazioni a Giuseppe Molinaro che, annualmente, si ostina a mantenere viva la tradizione unitamente agli abitanti della contrada. Mi spiega che il significato di questo rito è legato al cibo e alla quaresima. Il martedì grasso non si consuma tutto il cibo preparato per carnevale, come ad esempio il bollito di maiale, la “pizza chiena” o il “pastiere”, così la domenica si mangia ogni residuo, poi si rompe la pignatta per stabilire che, da quel momento fino al sabato santo, non si cucina più carne o frattaglie. La pignatta era la pentola per eccellenza nella civiltà contadina, in essa si cuoceva ogni sorta di cibo, dalla “menesta mmaritata” a quella vedova, i legumi e quant’altro, rompere questa stoviglia stava a significare digiuno o quanto meno, nulla di cucinato. Questo è tempo di patate e cipolle sotto la cenere accompagnate, magari, dall’intramontabile peperone sott’aceto, di pane asciutto con “sponzali” di cipolla, di “menesta asciatizza” che abbonda nei campi fino a Pasqua, e degli immancabili broccoli di rapa con la “pizza jonna”, la pizza di granturco cotta dentro il “chinco” di terracotta, sotto la brace. Questi i significati immediati che il popolo riconosce nel rito descritto ma, non è da escludere che, come ogni manifestazione rituale, a monte vi siano significati più antichi perduti di vista nello scorrere delle ere. La pignatta può avere tante corrispondenze ma a noi piace sostenere quella schiera di studiosi secondo cui, la stoviglia rappresenta l’utero sacro della Grande Madre dal quale, presto risorgerà la vita. La rottura della pignatta, volendo cogliere i doppi sensi che il volgo fraseggia, è l’atto copulatorio che attende alla procreazione, momento impegnativo e delicato in cui la propiziazione della fertilità animale e vegetale riveste un ruolo primario. In questo senso, il gesto del “rompere” lo ritroviamo ai matrimoni, con la rottura del piatto. All’arrivo degli sposi nella nuova casa, la suocera si avvicina con un piatto colmo di riso, un tempo grano, e lo lancia sulla coppia poi rompe il piatto lanciandolo, con decisione, sul pavimento. La “rottura” è simbolo della deflorazione alla quale la sposa va incontro ma anche interruzione di un periodo della vita, quello della giovinezza, per un nuovo cammino, quello della maturità all’interno della nuova famiglia. Così la pignatta si pone a chiusura del Carnevale, momento di sovversione, per la totale reintegrazione, attraverso la penitenza quaresimale, nella rinascita primaverile e pasquale.

Un carnevale antico quanto l’uomo


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Ottopagine 8 marzo 2014,                             Franca Molinaro

La vecchia quaresima rinsecchita passa per vichi e cortili e spazza via gli ultimi confetti lanciati dai “Caporabballo” montemaranesi, già, perché in questo paese non si lanciano solo coriandoli ma veri confetti come a un matrimonio; è azzardato dirlo ma a me fa pensare allo “sposalizio della terra col sole”. Il Carnevale, iniziato con le maschere e i suoni di sant’Antonio Abate, vede il suo tripudio e condanna al rogo il martedì grasso, sarà poi bruciato domani in piazza. Nel nostro entroterra, il carnevale più antico e caratteristico è sicuramente quello di Montemarano, quest’anno trasmesso in diretta dalla Rai. Molti studiosi ne hanno scritto e tutti hanno concordato sull’originalità della tradizione. Il paese, arroccato su uno sperone dell’Appennino, come un’aquila reale vive con fierezza le sue peculiarità. La tarantella che porta il suo nome è compagna inscindibile del carnevale, non si sa chi dei due sia nato prima, questo ritmo arcaico comune a tutte le regioni del Sud, a Montemarano conserva sonorità uniche e altrettante valenze. Questo momento di passaggio e quindi di capovolgimento dell’ordine costituito legato forse ai riti di passaggio, a Montemarano presenta un rituale ascrivibile alle antiche processioni sacre, accompagnate da determinati suoni. I Montemaranesi, a giusta ragione, sono orgogliosi del loro patrimonio etnomusicale e lo propongono, oggi, a tutto il mondo collegandolo a diverse attività, nel corso di tutto l’anno. Il paese ha la fortuna di avere giovani operosissimi che si adoperano per la salvaguardia e la promozione del territorio, a partire dal giovanissimo sindaco Beniamino Palmieri, il presidente dell’associazione “Amomontemarano” Antonio Di Vito, l’ideatore e curatore del museo etnomusicale, ricercatore della tradizione sonora Luigi D’Agnese, il gruppo folkloristico  di Achille D’Agnese che ha portato le note della Montemaranese in tutto il mondo, la scuola di tarantella di Roberto D’Agnese. Una gioventù che non si arrende alla crisi e alla depressione ma si alimenta alla radice profonda e antica della propria cultura. Ma quale rischio corre una manifestazione che ogni anno vede arrivare un numero sempre maggiore di forestieri non sempre rispettosi delle regole vecchie di millenni? E’ vero, la tradizione popolare non è mai cristallizzata, è viva e si evolve perché è nella sua natura, ma il rischio di spettacolarizzare il rito derubandolo della sua anima originaria, è alto. Mi rivolgo a Luigi D’Agnese, responsabile del museo, lui ha recuperato la memoria di questo popolo con varie pubblicazioni e registrazioni, conosce le regole tramandate di generazione in generazione. Ecco alcune norme fondamentali per “Vivere la Tradizione” nel Carnevale di Montemarano:

– Il “caporabballo”  è la figura fondamentale, una maschera unica che compare solo in questo paese per questo deve essere rigorosamente maschio e locale, egli ha il compito di far rispettare le regole nell’ambito del gruppo che rappresenta. Un tempo, quando le serate si prolungavano nelle case private, il capofamiglia apriva la propria casa ma la responsabilità della festa era del caporabballo. E’ indispensabile l’ospitalità verso i forestieri ma bisogna spiegare che Montemarano non è il paese della trasgressione o del divertimento sregolato, occorre partecipare nel rispetto degli usi e costumi del popolo ospite. Durante i giorni di Carnevale, è necessario che siano i musicisti locali a suonare secondo regole stabilite non da noi ma da chi ci ha preceduto nei secoli scorsi. Questo non è un palcoscenico per esibire la bravura di alcuno. La stessa Montemaranese, in questa circostanza ha delle regole: non deve esagerare nella paranza con un’infinità di strumenti musicali, sono consentiti al massimo 2 clarinetti, 2 fisarmoniche e 2 tamburi, questo per avere una musica pulita, ascoltabile e, soprattutto ballabile. Le paranze debbono fare una preparazione preventiva per ottenere una coreografia ordinata e armonica. Inoltre non è il caso di adottare “suonate” nuove o importate perché il senso del tutto è dato dai ritmi originali che rappresentano la nostra storia. Altra cosa indispensabile è la riscoperta dei costumi tradizionali: Ballerinola, Caporabballo col bastone o con la scopa, Pulicinielli con le pagliette e i nastri variopinti, Pezzaro ovvero l’arlecchino montemaranese, Vecchio, Pacchiana. La comunità deve recuperare il valore del rito, una volta era aggregazione familiare, amichevole e piena di allegria, ci si riuniva una volta per casa e si consumava un pasto insieme, vicino ad un buon bicchiere di vino e un saporito salame paesano, poi tutti a ballare e a divertirsi. Il periodo che va da Sant’Antonio Abate al carnevale era uno scambio continuo di cene, incontri, consigli, prove di musica e coreografia. Oggi rischiamo di perdere di vista il senso vero del momento per uniformarci sempre più agli sfarzosi carnevali nazionali e internazionali”. Le perplessità sono comprensibili pur nella coscienza che non si può bloccare l’evoluzione culturale di qualsiasi ritualità ma, noi siamo certi, Montemarano saprà conservare la sua tradizione pur confrontandosi col mondo.