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L’Osteria Pica Salotto culturale d’Irpinia

DSCN8608La prima del libro di Emilio De Roma, Sul sentiero dei ricordi, all’Osteria Pica, Lioni

franca molinaro
Ieri 26 aprile, al Bar San Bernardino, Osteria Pica, Lioni, si è tenuta la prima del libro di Emilio De
Roma, “Sul sentiero dei ricordi, L’ascolto nel silenzio”, La Bancarella Editrice, in concomitanza con l’inaugurazione della personale pittorica del maestro Angelo Ambrosone. La serata, come già le precedenti, è stata occasione di incontro, di scambio culturale, di riflessione. Il romanzo storico di De Roma è stato lo spunto per parlare con semplicità dei grandi quesiti che l’umanità, da sempre, si pone: chi siamo, dove andiamo, qual è il senso della vita. Domande a cui il professore non ha la presunzione di dare risposta ma suggerisce il metodo per poter giungere a una qualche intuizione. Il racconto storico, pregno di valori ormai in declino, mette a nudo l’onestà, la correttezza, la grande carica di umanità che l’autore porta dentro di sé. A indagare profondamente nel contenuto del testo è stato Nunzio Lucarelli psicologo psicoterapeuta che, con la sua straordinaria capacità di ascoltare e comprendere costituisce un valore aggiunto del Centro di ricerca La Grande Madre. Non è mancata la voce e la chitarra di Gerardo Lardieri, studioso delle melodie del Sud, attento ai moti dell’animo, ai sentimenti che la musica sa stemperare e condividere. A curare la parte tecnica è Nicola Guarino, dell’Associazione Arteuropa, architetto, pittore e poeta malinconico, amante nostalgico della sua Teora che irrimediabilmente ha cambiato volto. Il maestro Ambrosone ha apportato il suo contributo illustrando la sua pittura astratta, pregna di soffusa malinconia ma di una perfezione tecnica e cromatica oltre i limiti dell’immaginabile. L’ottima tavola di Antonio Pica e della sua magnifica e dolcissima Anna, irrorata dal Fiano di Emilio De Roma, hanno contribuito a rafforzare il clima di convivialità che difficilmente si riscontra nelle serate culturali. Il nostro mecenate Antonio Pica, già da anni conosciuto attraverso l’Associazione “Fateci respirare”, non ha eguali in provincia ma sicuramente anche fuori, ci accoglie sotto il suo tetto, gratuitamente e ci ospita per il piacere di far nascere cose nuove, per la consapevolezza che bisogna creare afflato tra gli artisti e i letterati, spesso altezzosi e pregni di un marcato sé. Da Tonino, come per magia, pittori, scrittori, poeti, si incontrano svestendosi di ogni presunzione, si confrontano misurandosi con le proprie competenze e con l’impegno costante di abbassare la guardia e sentirsi parte del tutto. Personalmente sono fiera di far parte di questo gruppo un po’ informale e sono soddisfatta che il Centro di ricerca La Grande Madre abbia contribuito, col suo potenziale umano e artistico, alla riuscita di questa esperienza innovativa. L’idea originaria di Antonio Pica era proprio questa, accomunare le diverse competenze per far nascere cose nuove, lungimirante come è, aveva già chiari i risvolti di una simile attività. Partì due anni fa con una mia personale pittorica antologica, e con la presentazione del mio testo “Menesta asciatizza”, da allora, mensilmente son passati pittori e scrittori provenienti anche dalla vicina Basilicata e Puglia, ognuno ha portato in cuore un eccellente ricordo dell’Irpinia e della sua gente, dei luoghi che Tonino, da brava guida, fa visitare. Il Goleto, i castelli, le chiese, i santuari, la montagna, sono stati i luoghi che ha proposto e fatto conoscere a chi è venuto da fuori e a chi, pur essendo irpino, non aveva mai visto. “L’energia dell’arte”, come aveva suggerito il piccolo Victor Pica, ha dato i suoi frutti svestendosi della presunzione che solitamente ci accompagna e indossando vesti miti di rispetto e condivisione. L’impegno di Tonino corrisponde agli stessi principi su cui si basa il nostro Centro di ricerca: condivisione, umiltà, rispetto, riconoscimento del lavoro altrui, valorizzazione del territorio e della sua gente, delle specificità che i luoghi offrono. La soddisfazione più grande, per chi organizza una serata, è quella di veder tutti serenamente insieme, sarà il vino, sarà il cibo, sarà la musica, sarà la semplicità e l’onestà con cui le persone si approcciano, certo è che a fine serata, tutti, indistintamente, anche il meno avvezzo alla convivialità, avvertono una corrispondenza positiva e una nuova carica per affrontare l’indomani e le brutture che intorno aggrediscono continuamente.

La scopa: riti e simbologia

imagesLa scopa: riti e simbologia    franca molinaro Ottopagine 6 aprile 2014
La primavera, con la sua “scopa fiorita”, spazza via l’inverno, il buio, le tenebre, riporta il sole, la luce, il fermento rigenerativo. Questo vezzo un po’ poetico è sostanziato dalla credenza, tra gli antichi popoli europei, che i fili di saggina, con cui sono costruite le scope rustiche, hanno un potere germinativo. Ma vediamo come, questo strumento che, ignari, usiamo quotidianamente, assume differenti significati.  Pare che la scopa sia nata non come attrezzo di pulizia ma come strumento indispensabile per purificare i luoghi di culto, particolarmente con la nuova stagione quando “la dea del bel tempo” spazzava via le nuvole. Nel corso delle ere, lo strumento, di materiali e forme diverse, ha avuto una sua storia ed una doppia valenza nei quattro angoli del globo passando dall’indiscusso potere apotropaico nelle nostra tradizione meridionale, al simbolo fallico associato ai voli delle streghe. Proseguiamo in ordine cronologico. Il grande Pitagora, nonostante il suo raziocinio, vietava di cavalcare una scopa. Nell’antica Roma, durante le Antesterie, le anime dei morti tornavano sulla terra per far visita ai vivi che le accoglievano con vari riti, passato il tempo stabilito, però, le “scopavano” fuori dall’uscio con l’atto simbolico di spazzare il pavimento. Nell’antica Cina era proibito lasciare scope nelle sale mortuarie perché l’anima del morto poteva tornare come spettro dalla lunga chioma. Nel Messico precolombiano si festeggiava Ochpaniztli, in onore di Teteo-innan, la Grande Madre preposta a “spazzare via” malattie e sventure. Nella nostra tradizione la scopa mantiene il primato tra gli oggetti simbolici a doppia valenza. Il potere apotropaico attribuitole in passato per le sue capacità di tenere lontano streghe e demoni, se messa dietro la porta, si è trasferito nelle scope augurali, variamente addobbate, che si appendono ai portoni nel periodo natalizio; il materiale deve essere assolutamente di saggina, la pannocchia privata dei semi di Sorghum bicolor. Alla scopa sono legati diversi tabù, ad esempio è vietato spazzare il pavimento e buttare l’immondizia fuori dall’uscio dopo il calar del buio, questo perché, con la spazzatura si butterebbe fuori di casa anche l’”uria”, cioè la fortuna. Differentemente è indispensabile spazzare ogni angolo di casa dopo che un morto è stato portato al cimitero, questo perché l’anima deve andar via pulita e serena e non esser trattenuta in qualche granello di polvere. La scopa la ritroviamo a Montemarano in mano ai “caporabballo”, nella sfilata che apre il periodo carnevalesco, in questo caso, mi spiega Luigi D’Agnese, è simbolo di questua, sostituita poi dal bastone simbolo di comando. La scopa rientrava nei giochi di gruppo o nelle penitenze in cui si costringe un giocatore perdente a ballare con la scopa. In alcuni casi, la scopa, agghindata da donna, sostituisce il tronco di quercia in occasione del “Segalavecchia”.  La scopa è un’arma pericolosa in mano ad una donna nubile, se spazzando il pavimento lascia delle tracce di sporco prenderà un marito “zilluso” ovvero con una malattia al cuoio capelluto. Ancora, se spazzando si passa sui piedi di una nubile la si costringerà a restare zitella. Ma l’ultima testimonianza raccolta in quel di Bonito è davvero stupefacente, materiale di studio per gli antropologi e vezzo per i lettori. Mi racconta Rita che, una cinquantina di anni fa, quando lei era ragazzina, assisteva a delle vere e proprie sceneggiate; Napoli ha la nomea ma l’entroterra non scherza. Le donne del vico per attaccar briga o dirsi delle cattiverie usavano uno strano espediente: mentre facevano le pulizie di casa o cucinavano cominciavano a cantare affacciandosi ogni tanto dalla finestra o dal balcone, il motivo era denigratorio e l’ascoltatore comprendeva perfettamente a chi era diretta la canzone, però, non avendo nomi non poteva accusare la cantante. La donna chiamata in causa, sebbene in incognito, rispondeva, sempre cantando, con altre strofe a tono, magari raccontando cattiverie e pettegolezzi sul conto dell’interlocutrice. Il duetto poteva andare avanti per ore, secondo le capacità e i fatti da narrare, poteva, però, capitare che, una delle due, sicura della cattiva condotta dell’altra, uscisse fuori con la scopa in mano e, capovolgendola, l’appoggiava al muro. Il significato del gesto, secondo la referente è: “zoccola”, termine che, in vari dialetti, oltre che indicare la femmina di topo di fogna, indica le donne di facili costumi. Quale possa essere, realmente, il significato di quel gesto, non so, posso solo immaginare che, la scopa, come simbolo fallico e, tra l’altro, messa a testa in su, possa essere associata alla lussuria, al desiderio sfrenato del sesso maschile nelle condizioni ottimali. Anche il termine che indica l’azione dello “scopare” , nel volgo è inteso sempre con malizia che sottende l’atto copulatorio. Dopotutto, nel corso della storia, la scopa, oltre ad essere la cavalcatura preferita delle streghe era anche un simbolo erotico. L’oggetto affusolato, tra le gambe nude delle streghe, creava fantasie erotiche nell’animo degli acidi e frustrati inquisitori dell’epoca, erotismo che si reitera e si traspone oggi nell’asta della lap dance. Cambiano i tempi, cambiano le mode ma, pare, l’animo del maschio resta sempre lo stesso e le “femmine stupide” continuano a proliferare.