Home » 2014 » June

Monthly Archives: June 2014

Storie di donne del Sud

DSCN9822Storie di donne         franca molinaro, Ottopagine, domenica 23 giugno 2014

Il cielo annega la sua luce nel mare burrascoso sulla sponda desolata del tramonto, le ombre calano senza allungarsi tra i flutti mormoranti, il lungo nastro d’asfalto che costeggia la riviera è quasi deserto. Nell’aria la stanchezza della festa e la malinconia del rientro. Maurizio è un ottimo compagno di viaggio nonché un ottimo autista, per questo posso rilassarmi e osservare il paesaggio modificarsi mentre l’auto divora i chilometri. Torniamo dall’Emilia per una festa e strada facendo si ragiona del più e del meno, delle persone incontrate, delle belle emozioni vissute. Son partita con la preoccupazione di abbandonare il lavoro per il fine settimana e con la celata speranza di poter, tra una cosa e l’altra, trovare erbe nuove nella flora romagnola. Non mi è andata bene sotto questo aspetto, la pianura ha le stesse identiche erbe delle nostre valli, graminacee in fiore, piantaggini, piccole asteracee. Erbe a parte, è stato un magnifico fine settimana ricco di spunti di lavoro ma soprattutto di comunione e condivisione con amici da mezza penisola. Festeggiamo le nozze d’oro di Mafalda e Giuseppe, lei avellinese, lui pugliese. Gli anni son passati sulle loro teste ma non sul loro cuore, una storia d’amore straordinaria, d’altri tempi, insomma di cinquant’anni fa. Mafalda nacque in una famiglia numerosa come all’epoca era naturale, con un padre severissimo, più di quanto era naturale anche a quei tempi, nelle campagne irpine tra la miseria e l’analfabetismo incombente. Sua madre, come tutte le “Madri del Sud”, cercava di gestire un marito padrone e un padre gelosissimo. Poca istruzione per le ragazze, nessuna vita sociale, nessun divertimento, qualche messa nei giorni di festa accompagnate da zie, nonne, comari, dopo aver svolto diverse incombenze nei campi. Mai un commento agli ordini paterni a rischio di botte senza misura, ubbidienza era la parola d’ordine, lavoro era la bibbia quotidiana, sacrifici sotto il sole o nel freddo inverno. A suo padre arrivavano richieste di matrimonio ma nessun pretendente sembrava adatto al genitore, per dargli in sposa la figlia. Mafalda era una bella signorina, bei capelli ondulati e un fisico mozzafiato ma non poteva scambiare nemmeno un saluto con alcun ragazzo, era quella la legge dell’epoca, occhi bassi e silenzio. A ventiquattro anni fu inviata, in compagnia di un amico di suo padre, al Nord, a lavorare in una sartoria, almeno così le avevano promesso. L’imbarazzo della ragazza era indescrivibile, lei che non aveva mai potuto scambiare una parola con un uomo ora si ritrovava sola, in macchina con uno che conosceva appena. Trascorse le ore di viaggio tremando come una foglia nel terrore che quell’individuo potesse approcciarla per scopi personalissimi. Per fortuna il viaggio si compì senza incidenti ma la realtà, nel lontano e fumoso Nord, si rivelò tutt’altra. Fu assunta come cameriera da una signora; inutile provare a spiegare il disagio, sarebbe difficile. Non conosceva bene l’italiano né, tanto meno, quel complicato dialetto che non aveva nessuna somiglianza con quello natio. In quella casa di città c’erano stoviglie differenti dalla sua campagna, c’erano elettrodomestici sconosciuti che lei non sapeva usare, ma la signora non voleva sentir ragioni e la sgridava nel miglior dei casi, a volte la picchiava. Il suo calvario era appena iniziato e fu lungo, cosparso di incidenti, di malevolenze, di pregiudizi da parte dei fratelli del Nord e di quelli restati al Sud. Imparò tante cose nuove e tanti mestieri, visse in comitiva con le compagne, come fanno oggi i ragazzi all’università, fu ospite di brave suore, diede opportunità ad altri membri della famiglia, così la raggiunsero le sorelle, il fratello, altre amiche d’infanzia. Un giorno, guardava la televisione insieme alla sorella, stavano intervistando  due ragazzi, i più bravi giardinieri d’Italia, uno del Nord e uno pugliese; scherzarono sull’aspetto dei giovani, a Mafalda piaceva il Pugliese, alla sorella il Padano. Il caso, nella vita non è mai tale, forse il destino, forse la giustizia divina, prima o poi premiano i giusti. Quel giardiniere della televisione, il più bravo d’Italia, un giorno capitò in casa di Mafalda, nacque lì la loro storia d’amore. Si recarono dal fotografo e fecero una foto insieme che inviarono ai rispettivi familiari per far benedire il loro fidanzamento. Stranamente non ci furono resistenze da parte del padre di lei mentre la mamma di lui pronunciò una frase bellissima che la ragazza non ha più dimenticato: “Se piace a Giuseppe va bene anche a me”. Nel giro di pochi mesi i due fidanzati si sposarono nella chiesa di San Giuseppe a Bonito, lo sposo arrivò dalla Puglia con tutti ii suoi parenti ma trovò la strada interrotta e per giungere in Via Roma, cuore del paese, dovette fare un ampio giro per Melito. Naturalmente arrivò in ritardo tra il panico degli invitati e della sposa. Questo l’unico inconveniente nella loro storia d’amore, ora son passati anni e dolori, sacrifici e preoccupazioni, ma si portano ancora per mano, Mafalda è ancora bella, solo con qualche chilo in più, Giuseppe ha i capelli bianchi ma ancora un cuore pieno d’amore per la sua compagna. Dal matrimonio nacquero due bambini Vito e Rosa. Oggi Mafalda è nonna e vive a Sant’Arcangelo di Romagna in una bella casa dove mi ospita ogni volta che salgo in Emilia. Mi racconta della sua vita e si commuove parlando della suocera. Sembra inverosimile considerata la reputazione che queste, in genere, hanno, ma sua suocera era dolcissima e buonissima. Quando tornò dall’ospedale dopo aver partorito il primo figlio, la prese in braccio e la portò sul letto assicurandosi che si sarebbe riposata mentre lei  accudiva alle faccende domestiche. Ho le lacrime in gola mentre mi abbraccia nel salutarmi, prometto in cuor mio di raccontare la sua storia in segno di riscatto, la storia di tante donne costrette a partire. Intanto, auguri a Mafalda e Giuseppe per altri cinquant’anni d’amore.

Terra e Fuoco

1497636_732436256819764_3859970064297416397_nTerra e fuoco                di Franca Molinaro Ottopagine 15 giugno 2014

Dallo sperone di montagna da cui mi affaccio, come d’incanto, appare un panorama indescrivibile, mai i miei occhi avevano ammirato tanto orizzonte. Siamo sul sentiero 205, a Sant’Angelo a Scala, sono la guida botanica di una escursione in occasione della manifestazione “Terra e fuoco”. Il santuario di San Silvestro, a mezza montagna, è una meta di pellegrinaggio per fedeli e naturalisti, situato sulle pendici Nord del Partenio, è scavato nella roccia e si compone di una chiesetta e una grotta con sorgente dove i fedeli intingono un pezzo di stoffa e bagnano le parti del corpo malate, poi abbandonano l’indumento e il male in un angolo della grotta. L’acqua è miracolosa per chi ha problemi di pelle. La salita è ripida e impervia ma la montagna è bella perché non è mai monotona. La flora ricchissima sfoggia la fioritura di Dactylorhiza maculata, Myosotis sylvatica, Vicia cracca, Trifolium  medium, Veronica chamaendry, Vicia villosa, Vicia hybrida, Rubus fruticans, Geranium versicolor, Silene paradoxa, Digitalis lutea, Tamus communis, Ajuga reptans, Scutellaria columnae, Teucrium chamaendrys, Cytisus scoparius, e di tante altre piccole magnifiche piante. Inoltre è possibile ammirare diverse specie di felci, dalle più piccole come l’Adianto, alle magnifiche felci aquiline dalle grandi fronde. Sul sentiero scopriamo le impronte dei cinghiali, della volpe, del tasso, la fauna deve essere ricchissima considerate le tracce. Tornare a valle mi sembra un sacrificio ma il dovere ci chiama e Maria Assunta allunga il passo per arrivare in orario. E’ lei che ha ideato la manifestazione, la dottoressa Basile, donna di polso, solida come la montagna, come la Terra, ma con un fuoco dentro che la anima e le conferisce forza e determinazione, un fuoco sacro che brucia per il suo territorio, per le sue genti. A sostenerla in queste impresa ci sono varie aziende e associazioni: la Tenuta Sorbo Serpico, l’Ass. Terra Narrante, l’Associazione Culturale il Girasole,  il Centro di ricerca “La Grande Madre”, la Soc. Coop. Gea Irpina, la Soc. Coop. Acerone, le Guardie Ambientali volontarie, il Centro servizi per il volontariato Irpinia Solidale (CVS), la Paranza della Valle delDSCN9663l’Orco, il Museo delle cose perdute e naturalmente il Comune di Sant’Angelo a Scala. L’incontro è stato un momento di comunione tra varie categorie e tra diverse generazioni; i bambini, guidati da Erminia Barbieri e da Marianeve Grieco, hanno imparato gli antichi mestieri attraverso gli utensili del museo di Gaetano De Vito, e hanno appreso i primi passi di tarantella, taranta, pizzica, hanno cavalcato i magnifici cavalli insieme a Carla Basile dell’Associazione Equestre Tenuta Serpico a.s.d. Il pranzo comunitario, l’interazione col nostro psicologo psicoterapeuta Nunzio Lucarelli, il luogo suggestivo, hanno fatto di questa giornata un momento indimenticabile. Ad arricchirla ha contribuito l’incontro con Natalina Zaccaria nipote del custode al castello di Sant’Angelo a Scala. Mi racconta che, un giorno San Michele, mentre saliva la ripida scalinata adiacente al maniero, vide sull’edificio un uomo sospetto che subito cominciò a infastidirlo, era il diavolo e presto s’innescò una terribile battaglia, naturalmente l’Arcangelo ne uscì vittorioso e salvò il paese che da allora porta l’attuale nome. In un luogo con questi presupposti, dove d’inverno il sole tramonta alle prime ore del pomeriggio e la notte incombe e avvolge con le sue ombre, non potevano mancare “presenze” inconsuete e, per soddisfare la mia curiosità,  Natalina mi fa conoscere un’anziana zia omonima. La signora comincia a parlare del castello e della sua grandezza. L’edificio ora decapitato, un tempo aveva ben 353 stanze con una chiesa; lei da piccina, ogni giorno accompagnava il padre che attendeva agli obblighi del lavoro. In seguito, i terremoti dissestarono la struttura e la manutenzione costosa costrinse Zaccaria a consegnarla agli enti pubblici. Natalina le chiede insistentemente di raccontare del lupo mannaro e lei, indicando la fontana, spiega che fu suo fratello a riconoscerlo e ad essere aggredito, per fortuna fece in tempo a riparare nel cancello del portone, tutt’ora esistente. Zia Natalina è una bella nonnina, ben disposta al dialogo ma l’ora non è quella adatta così ci congediamo ringraziandola. Natalina junior continua il suo racconto illuminando gli occhi. Sua madre abitava in Piazza Tiglio, in casa udiva sempre strani rumori e il bambino piccolo piangeva di continuo. Quando si alzava trovava stesa a terra una tovaglia con sopra una zuppiera, a volte trovava le scarpe del marito fuori la porta. Preoccupata si trasferì dalla madre dove non era disturbata da nessuno e il bambino era tranquillo. Ritornata a casa ripresero i problemi e un giorno vide in penombra un cappello rosso che salì sulla culla del bambino e cominciò a saltargli sul petto. Intanto continuava a trovare la tovaglia e la zuppiera per terra finché una mattina trovò il recipiente pieno di feci. Da quel giorno non si vide più per casa. Le ombre della montagna si allungano sul paese e un’aria fresca spira dalla valle, gli ultimi raggi di sole illuminano la Dormienta del Sannio, il Fortore, e la corona di colli irpini che si estende da Est verso Sud. Cala la sera tra le note di una tammurriata e le lingue di fuoco del falò, Erminia continua la sua danza richiamando immagini arcane mentre le creature fantastiche si svegliano nel cuore della montagna e nell’immaginario collettivo delle genti. Gran bella esperienza questa giornata, -Sarebbe opportuno ripeterla- dice soddisfatto il sindaco Domenico Majello, consegnandoci gli attestati.

La Madonna del Monte a Celledi Bulgheria e Novi Velia

di Giovanni De Luca

Tanto tempo fa la Madonimages (2)na si trovava sul Monte Bulgheria (il monte che sovrasta il mio paese), tuttavia capitò che i pastori che portavano gli armenti nella zona utilizzavano le pendici della montagna comsacro_monte2e “discarica” senza rispettare la sacralità del luogo. La Madonna allora, offesa del trattamento che le riservavano i Cellesi, decise di andare via. Alle parole di “Chi a Mmaria voli vidì, ngoppa lu mòndi adda vinì !” spicco il volo verso l’alta montagna che si trova proprio di fronte: il Monte Gelbison, un contrafforte dell’Appennino Calabro-Lucano (che in gergo è detto per antonomasia “u mòndi”). Da allora esiste un santuario dedicato alla Madonna del Sacro Monte ubicato proprio sull’alta vetta (1725 m) di questo monte, in territorio di Novi Velia. Va detto tuttavia che a Novi Velia la leggenda è diversa in quanto secondo la loro versione, un pastore che aveva smarrito un agnello, lo ritrovò vicino un quadro della Vergine e da lì cominciò la devozione. Un’altra leggenda, per chi ci crede, riguarda la conversione di un cavaliere che era un bestemmiatore; girando per la montagna dopo una bestemmia, il suo cavallo si imbizzarrì e lo sbalzò di sella. Quel segno convertì il cavaliere ed oggi c’è in quel punto una roccia con una forma concava sulla sommità che viene chiamata “ciampa di cavaddu” ossia sarebbe l’orma che lasciò quel
cavallo e, da secoli, i pellegrini vi buttano per buon augurio una moneta da far cadere nell’incavo.

Inoltre da noi si dice che La Madonna del Sacro Monte è una delle 7 sorelle che proteggono il Cilento. Sette madonne che hanno a loro volta sette santuari in zona: la Madonna di Pietrasanta di San Giovanni a Piro, la Madonna del Monte Stella ad Omignano, la Madonna sulla Civitella a Moio della Civitella, la Madonna del Granato a Capaccio, la Madonna delle Nevi sul Cervati tra Sanza e Piaggine che se la litigano e la Madonna del Carmine a Catona.

Venendo alla storia documentata, il Santuario è stato fondato nel’400 ed è stato per secoli gestito dai Monaci Celestini fino alle leggi napoleoniche quando fu incamerato dalla diocesi di Vallo della Lucania. E’ aperto solo da maggio ad ottobre in quanto la neve lo sommerge e non permette l’accesso. In tutta la zona è diffusissimo il culto a questa Madonna nera; nei paesi, una volta, c’era un organizzatore che formava la “compagnia” e raccoglieva offerte per le case. Il giorno prestabilito si partiva all’imbrunire per arrivare, tra sentieri nei boschi e campagne, alla base del Gelbison. Lì si trova un corso d’acqua in località “Fiumefreddo” dove, quasi a purificarsi ognuno si bagnava. La salita impervia era vista come un percorso purificatore e ognuno portava 10264548_570151586433524_5950243559644779650_ncon sè una pietra in testa. Al suono quindi di zampogne e ciaramelle e con le donne che in testa portavano, oltre alle pietre, delle piccole costruzioni fatte con le candele chiamate “cente”, si arrivava a destinazione dove tutti buttavano le pietre in un punto dove ancora oggi c’images (1)è una piramide di pietre. La devozione è diffusa non solo nel Cilento ma anche nel Vallo di Diano e nelle limitrofe Lucania e Calabria e numerosi sono gli ex voto conservati. Anche la mia bisnonna ne fece uno per la salute di mia nonna: ascendere alla montagna muta e scalza, nonostante questa scelta arrivò in cima con i piedi puliti (un miracolo a detta di mia nonna).

La nostra non è l’unica “Madonna del Sacro Monte”, anche a Viggiano (PZ) si chiama così ed è anche lei una Madonna nera. Da noi c’è stato nell’ VIII/ IX secolo l’arrivo dei monaci Basiliani che, nel mio paese, hanno dato il nome al comune e hanno fondato le “laure” ossia i loro luoghi di raccoglimento nelle numerose grotte della montagna. Infatti CELLE per le celle dei monaci nelle grotte e BULGHERIA perchè venendo dall’Asia Minore dove esistevano persecuzioni iconoclaste da cui scappare, erano in generale denominati “Bulgari” ma sull’origine di bulgheria ci sono varie teorie.

Filomena vestale della Grande Madre

Filomena: Vestale della Grande Madre        Ottopagine, 2 giugno 2014Immagine                      franca molinaro
Era mezzanotte quando, istintivamente, o forse guidata dallo spirito di Nunzia, ho scelto di tornare a casa percorrendo una stradina comunale parallela alla SS 303. Via Confine serpeggia a valle dal Santuario di Santa Felicita passando per la Mephite. Percorrerla di giorno è un sollievo del cuore, tra aromi di zolfo e di ginestre e caprifoglio che ammantano le siepi aggettanti sull’asfalto. Di notte, salvo i pochi residenti, è percorsa solo da animali selvatici e nottambuli coraggiosi. Alla mia sinistra, il bosco di Santa Felicita è scuro e impenetrabile, naturale dimora di creature fantastiche partorite dalla fantasia umana e dalla Grande Madre. Incurante dell’atmosfera incantata spingo il fuoristrada tra i fossi in cui, inevitabilmente, sobbalza. E’ l’ora in cui le anime timorate di Dio non l’offendono violando il buio e i segreti della notte, ora vietata nella tradizione popolare, ad ogni individuo di fede e di buon senso, ma noi abbiamo perduto la religiosità dei nostri padri e proseguiamo dissacrando la fede e la Grande Madre. Così io, incurante, procedo con le narici solleticate dal “pestifero respiro di Aletto” e il canto di Filomena reiterato nel cervello: “Nunzia. La messaggera. Nata dalla cascata e cresciuta nella Valle d’Ansanto. Se ti avvicini alla corrente, lei ti sussurra cose all’orecchio. Se le annusi il collo, ti accorgi che profuma di zolfo. E ti piace il suo odore. Anche se sai che può soffocarti. Ti piace quello che ti dice e che non ti dice. Nunzia. La messaggera d’acqua. C’è chi la vede a Monteverde e chi a Rocca. Nunzia, che se non ci credi non la incontri”. Filomena mi ha colpito: 26 anni, laureata, parla diverse lingue, suona diversi strumenti, voce possente, severa, tonante, profonda, sembra non appartenere a lei, ma se la guardi negli occhi ti perdi. Ha lo sguardo di Michelina De Cesare, quasi torvo, di fiera che mette in guardia ogni possibile disturbatore. La sua voce e i suoi occhi sembrano dire: “Lasciatemi stare se non capite, io sto bene con le mie cose, non m’importa quello che pensate, io sto bene con me stessa”. Ma poi le parli e scopri una fanciulla mite, quasi timida, di una umiltà sconcertante, dice le sue cose se le viene chiesto e si pone con delicatezza come per non  infastidire. Io l’ho conosciuta Filomena D’Andrea, un prodigio, scrive da sé testi e musica, e poi canta, la accompagnano il fratello, Amilcare D’Andrea e il percussionista, Virginio Tenore di Aquilonia. Insieme hanno fondato un gruppo di spettacolo i “Makardìa”, il termine è un’esclamazione dialettale propria dell’Alta Irpinia. Sono stati ospiti al San Bernardino a Lioni per il 43° anniversario del Bar di Antonio Pica, punto di riferimento, ormai, per gli intellettuali dell’entroterra, salotto culturale dove è d’obbligo la condivisione, l’umiltà, la correttezza e il rispetto del prossimo. In quest’occasione si è parlato anche del suo libro di racconti “A Joshua piacevano i pistacchi”, una rivisitazione della figura evangelica di Gesù attraverso la figura femminile della Maddalena. La lettura rimanda un po’ al Vangelo dell’infanzia col miracolo degli uccelli riproposto anche nella nostra tradizione orale, un po’ a Brown, a Scorzese, un po’ all’ironia di Covatta, ma è intrisa della simbologia biblica di cui l’autrice mostra essere attenta conoscitrice. E’ ancora la figura femminile, custode di tesori e saggezza, a guidare il racconto, la madre e poi l’amante custode dei segreti della Grande Madre, come lo spirito dell’acqua nato nell’Ofanto.  Lionese, Filomena è molto amata dalla sua gente ma non so quanto la sua gente comprenda le profondità del suo spirito,  il suo sguardo sa spaziare oltre l’alta Valle dell’Ofanto, nei suoi versi si legge l’Appennino, le sue storie, i suoi miti antichi come la pietra. Dalla Sicilia, per la Calabria, dalla dorsale rugosa, Filomena raccoglie l’anima delle genti, gli spiriti ctoni e li ripropone nei suoi ritmi che sposano naturalmente le gravi problematiche odierne. I Makardìa credono in un futuro migliore, sono quella gioventù pulita che ha ancora ideali buoni da perseguire. Il 26 giugno saranno a San Casciano (FI), per uno scambio culturale, l’Undicesimo Festival Internazionale di Teatro Azione San Casciano in Val di Pesa, il tema della rassegna sarà “Fame”, una presa di coscienza della situazione alimentare internazionale, la fame nel mondo, la qualità dei cibi, il ritorno al naturale. Temi attualissimi, quelli proposti dal festival, gli stessi proposti da varie associazioni, prima di tutto dalla Slow Food, presente a Lioni con il Fiduciario Condotta Alta Irpinia Gerardo Lardieri e la sua straordinaria chitarra dall’ampio repertorio; da noi della Grande Madre, ribaditi, insieme al rispetto e alla valorizzazione del territorio, dalle Pro Loco di Lioni, Teora, Morra, Conza, Nusco, Sant’Angelo dei Lombardi, Castelfranci, Guardia dei Lombardi, invitate per un confronto. Molti i giovani validi, tra i rappresentanti di questi organi, un potenziale umano che, come ha espresso Tony Lucido, della Pro Loco di Sant’Angelo, va canalizzato in un progetto di collaborazione che miri a risolvere i problemi comuni a tutto il territorio. Il tema della cooperazione, su cui ha puntato Antonio Pica fin dall’inizio del suo progetto culturale, sembra inizi a imporsi nelle menti di tutti. E’ importante abbassare la guardia e superare i propri limiti fatti di egocentrismo, arrivismo, presunzione. Limiti umani con cui ognuno è chiamato, quotidianamente a fare i conti.