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Il museo etnomusicale di Montemarano compie dieci anni

100_2862Montemarano: dieci anni di storia per il museo etnomusicale   di franca molinaro, Ottopagine, 21 settembre 2014
Dieci anni fa, un lungimirante giovane di Montemarano intuì la necessità di raccogliere in un luogo sicuro la memoria materiale e immateriale del paese della tarantella. Fu Luigi D’Agnese, appassionato ricercatore di tradizione popolare, insieme al fratello Generoso, ad abbozzare il progetto museo. A maggio del 2002 fondò l’Associazione Culturale “Hyrpus Doctus”, dal cui grembo sarebbe poi nato il museo inaugurato in occasione del Carnevale 2004. In quell’occasione si tenne un dibattito  dedicato alla conservazione della tradizione ed alle trasformazioni che inevitabilmente subiva nello scorrere del tempo. Il progetto museo fu sposato dall’Amministrazione Comunale di allora  che, con Delibera del Consiglio Comunale, del 25 maggio 2004, riconosceva la validità dell’iniziativa e la poneva sotto la propria elgida. Il museo divenne così “Museo Etnomusicale Comunale C. Coscia e A. Bocchino”, nella nuova veste si proponeva di cooperare perseguendo un unico scopo, quello di recuperare e conservare la memoria di una comunità da sempre dedita alla musica e al ballo. Il 18 febbraio 2007, venne inaugurata la nuova sede ubicata nella Ex ECA, in via San Francesco, questo fu possibile grazie ai contributi europei e all’impegno del Gal Verdeirpinia. Il tanto atteso riconoscimento dalla Giunta Regionale Settore Musei e Biblioteche, arrivò  con la delibera del 22 maggio 2009: “Status” di Interesse Regionale.
Oggi il museo ospita una notevole collezione di oggetti provenienti dalla tradizione musicale locale: fisarmoniche, clarinetti, castagnette, tamburelli, flauti di corteccia di castagno, doppio flauto di canna e di sambuco, armoniche a bocca, organetti, “trombe degli zingari” ovvero scacciapensieri, ciaramelle, tromba di corteccia di castano e una zampogna “surdulina” per ricordare l’ultimo suonatore che negli anni’30 eseguiva la Novena di Natale. Ci sono, inoltre, fotografie, libri e riviste di etnomusicologia, materiale discografico e visivo. Sono in mostra anche i costumi tradizionali del carnevale di Montemarano: il “Caporabballo” una sorta di Pulcinella locale con mantello riccamente ricamato, ornamento di antichi lenzuoli dai quali era ricavato, corredato di scopa da sfoggiare durante la sfilata del 17 gennaio in occasione della “tarantella di questua”, o di “bastone del comando”, probabile retaggio delle  locali necropoli preistoriche; altro costume è quello della “Ballerinola” più volte indossato dal compianto Orazio D’Agostino, detto “Razio ‘a Polece”; questo costume era indossato dagli uomini perché alle donne non era concesso mascherarsi.  In questi dieci anni il museo si è arricchito di altri oggetti legati alla tradizione musicale, io stessa ho donato un quadro raffigurante un organetto corredato di attrezzi da lavoro, falce, fazzoletto, cannette da mietitura, grembiule per ricordare il legame indissolubile tra musica e lavoro agricolo. Inoltre il museo e l’Associazione Culturale “Hyrpus Doctus”, hanno pubblicato un cospicuo numero di ricerche condotte sul campo, frutto dei tanti rilevamenti effettuati da oltre 15 anni, nel territorio di Montemarano, da ricordare l’ultima pubblicazione: AA.VV.,  Mascarà mascarà me n’a fatto ‘nnamorà – Le tarantelle e i canti di Montemarano, Nota Geos 2 Cd Book 565, Campania, Valter Colle Editore. Il museo ha partecipato a giornate internazionali di studi sulle tradizioni orali come: ETHNOI, culture, linguaggi, minoranze, festival delle minoranze culturali ed etnolinguistiche, San Marco dei Cavoti (BN), 25 aprile 2012, in Culture/Patrimoni folclorici, con la relazione: “La tradizione attraverso il Museo Etnomusicale di Montemarano. Quando la ricerca sul campo favorisce la trasmissione delle eredità culturali”. L’evento ha visto anche la partecipazione di Moni Ovadia, cultore instancabile e difensore delle minoranze etnolinguistiche.     Per le stanze del museo son passati tanti visitatori anche forestieri, curiosi e studiosi, turisti dagli Stati Uniti d’America, Giappone, Gran Bretagna, Francia. Sono stati ospitati personaggi di notevole spessore, tra i tanti citiamo il professore Francesco Giannattasio e il professore Giovanni Giuriati, docenti della Cattedra di Etnomusicologia presso   “La Sapienza” di Roma, già allievi del grande Diego Carpitella. Da non dimenticare la visita del maestro Roberto De Simone che, l’otto settembre 2007, lasciò una lettera scritta di suo pugno a memoria delle ricerche condotte negli anni Settanta insieme ad Annabella Rossi, in occasione del carnevale. Quel lavoro diede alla luce un volume che ha dato il via alle ricerche condotte sulla tradizione canora del paese:  Carnevale si chiama Vincenzo, De Luca Editore, Roma, 1977. Motivo di orgoglio per il museo e per tutta la comunità montemaranese è stato l’arrivo, in paese, della dott.ssa Anna Lomax Wood, presidente dell’Association for Cultural Equity, con sede a New York accompagnata dal prof. Goffredo Plastino, etnomusicologo presso la  Newcastle Universty, nonchè curatore dell’archivio italiano del grande studioso americano Alan Lomax. Lo studioso venne in Irpinia nel 1955 e diede il via alle prime registrazioni sul campo documentando la tradizione sonora e canora di Montemarano,  Sant’Andrea di Conza, Mercogliano e Montecalvo Irpino. Tale materiale, edito ed inedito, è stato consegnato dai Lomax al Museo di Montemarano, diventando così Istituto di Documentazione Orale e coordinatore di tutta la ricerca etnografica irpina.

 

 

Le feste del grano

terre d'irpinia  doc (442)Le feste del Grano             di franca molinaro, Ottopagine 15 settembre 2014
La spiritualità dell’uomo mediterraneo ruota, da tempo immemore, intorno alle colture cerealicole assimilandone i tempi produttivi e i simbolismi. Il grano è il cereale che più di tutti ha caratterizzato l’ascesa dell’uomo verso la storia, ad esso sono legati miti e riti, economia e fede. Nel tempo, il legame tra uomo e grano si è infranto spezzando quel filo diretto con la Grande Madre. Quello che resta di una spiritualità agreste sfumata a tratti da paganesimo, sono gli ultimi riti in cui è protagonista il grano ed i suoi derivati. Nell’entroterra  appenninico è possibile rintracciare ancora di queste ricorrenze. Dal seme a Pasqua, alla spiga verde delle Madonne primaverili, fino alla trasformazione in pane, in ceste, “mezzetti” e ancora obelischi di paglia, il grano compare ancora come cibo materiale e spirituale, mezzo di comunicazione col divino. Quando chiedo agli anziani di parlarmi delle feste del grano nel nostro entroterra, il primo pensiero va alla “Scogna”, poi qualcuno pensa ai riti religiosi. In realtà la vera festa per i contadini era proprio il momento di stoccare i semi nel granaio perché era quella l’unica certezza, il sostentamento per l’anno a venire. Questa tranquillità permetteva loro di gioire, ringraziare Dio e festeggiare con suoni e balli. Per Montemarano prevaleva la Montemaranese, per Montecalvo la Montecalevese e così la Covantesa, la Bonitese ecc.. ogni paese aveva le sue variazioni sonore apportate probabilmente ad un antico ritmo comune a tutti, quel ritmo che, magari, accompagnò  riti e processioni pagane.

Le feste coi carri, poi, a sentire le interviste, sembrano appartenere ad altra cosa; non c’è più l’offerta diretta ma un partecipare a qualcosa che si fa così da tanto. Certamente non è scomparsa la devozione ma è scomparsa l’idea di offerta di natura, di rispetto per il grano quale prodotto principale di un’economia ormai modificata. La stessa lavorazione della paglia, nel tempo, è divenuta tecnica, la capacità artigianale, desiderio di mantenere ad ogni costo una tradizione antica e trasmetterla. Per fare un esempio è come chi, oggi, realizza le icone a tempera d’uovo, la tecnica, i vari passaggi sono gli stessi ma mancano le preghiere che i monaci recitavano per la stesura di ogni strato di gesso e colore. L’obelisco si è evoluto, si è staccato dalle sue forme primordiali per seguire i modi e le culture della società in trasformazione. Ciò è inevitabile per ogni tradizione perché è risaputo che questa non è immobile, cristallizzata nel tempo primordiale, ma segue gli sviluppi della cultura che l’ha generata. Nel nostro entroterra non troviamo etnie immobili perché lo sviluppo economico ha raggiunto ogni angolo di territorio, di conseguenza la cultura subalterna ha modificato i suoi costumi seguendo in bene o in male l’andamento del progresso. Gli stessi riti vanno scomparendo; da un lato la Chiesa teme di deviare dalla parola del vangelo rischiando di perdersi in ornamenti superflui, dall’altro sta esaurendosi l’ultima generazione che credeva nel valore sacro del rito. Questo vale per ogni tipo di rito, dal portare “vergenelle”, dall’andare scalzi in santuario all’offrire messi alla divinità. Ma torniamo al grano e al suo valore. Il cereale era l’unico valido elemento di scambio in tutte le circostanze. Si stipulavano con il grano vari tipi di accordo, ad esempio se un confinante dava il permesso di passaggio attraverso il suo campo era ripagato con tanto grano secondo quanto ne avrebbe potuto produrre il terreno calpestato, si trattava di “passata pede ‘nnanze pede” oppure col carro agricolo. Col grano si pagava “lo cienzo” e si barattavano altri prodotti. Intorno all’economia del grano nacquero i Monti Frumentari organi che avevano il fine di togliere dall’usura il prestito delle sementi necessarie alla coltivazione e che il contadino non sempre aveva in disponibilità. Era concesso alla semina ad agricoltori in difficoltà, il “mezzetto varrato” che sarebbe poi stato restituito colmo al successivo raccolto. I chicchi che costituivano il colmo del mezzetto rappresentavano gli interessi. Gli agricoltori conservavano un “ausiello” per offrirlo alla Madonna o al santo dell’occasione. I “mast’e festa” ritiravano i covoni  e ne facevano un gran mucchio nei pressi della chiesa, poi lo trebbiavano. Il grano ricavato era venduto ai commercianti ed il ricavato era investito per allestire la festa, pagavano i fuochi d’artificio e la banda musicale. Questo succedeva a Morroni di Bonito in occasione della Madonna della Neve, a Bonito per San Ciriaco, San Crescenzo ed in tutti gli altri paesi del circondario. A Bonito i “mast’e festa” passavano per i campi, prendevano i covoni e vi lasciavano una “fiura” del santo, senza interpellare i contadini. A Calvi, i “mast’e festa” erano accompagnati da donne che si caricavano di covoni legati in fasci e li portavano sull’aia stabilita. L’offerta dei covoni è rispettata fin nella seconda metà del ‘900, un responsabile della festa di San Crescenzo a Bonito spiega che, negli anni sessanta, si recava personalmente nelle campagne a raccogliere il grano per la festa, i più facoltosi conservavano un “ausiello”, gli altri offrivano poche “gregne”. In questo periodo era già arrivato qualche trattore in paese e chi lo possedeva lo metteva a disposizione per la “carratura”. A Torre le Nocelle, per la festività di San Ciriaco, i devoti si caricavano del sacco di grano, e, a piedi, si recavano al santuario dove lasciavano il dono in un deposito allestito per l’occasione.

A Venticano, la padrona del mulino racconta che negli anni passati arrivava alla molitura una grande quantità di grano donata dai fedeli alla chiesa. Le feste, spiega la signora, si potevano fare solo grazie al ricavato della vendita del grano. Si aspettava di vendere il grano della questua per pagare le spese. Oggi le offerte in denaro evitano ogni grattacapo ai “mast’e festa” e il momento più importante è l’arrivo del cantante famoso. Per fortuna si conservano ancora gli obelischi di paglia affidati alla cura amorevole del popolo o di pochi esperti. L’ultimo a comparire è quello dedicato alla Grande Madre Addolorata, a Mirabella Eclano.

Le janare di Guardia Sanframondi

RICORDI   DI   JANARE   di Silvio Falato
10685498_783331938396862_3849496896618935956_ndisegno, inchiostro di Franca Molinaro

La Janàra è un personaggio del mondo magico popolare collegato alla festività di San Giovanni Battista del 24 Giugno; si tramanda, infatti, che in tale notte streghe e janare di ogni angolo della terra volassero a migliaia nel cielo, per partecipare al grande incontro annuale, denominato Sabba, presso il noce di Benevento. Tale pianta da sempre è stata considerata l’albero delle streghe per eccellenza, credenza avvalorata dalla presenza del fiume Sabato, il cui nome evidenzia il legame con la voce “Sabba”.

In questi luoghi le nostre “perverse” tenevano i loro convegni ufficiali, ma, più sovente, preferivano lugubri anfratti, dirupi scoscesi e isolati, posti orridi abitati da pipistrelli e da altri uccelli notturni. Particolarmente a cuore stava loro quello che ancora oggi è conosciuto come“Ponte delle Janare”, una gola profonda situata tra Guardia e San Lupo, che, per la sua conformazione di anfratto accidentato e scabro, ben si addiceva agli incontri ufficiosi.

Ma chi era la janara? Quali poteri aveva e quali erano i limiti connessi alla sfrenata libertà di fare del male? E come mai il solo sentirla nominare comunicava un senso di smarrimento e di angoscia smisurati?

La janara viene ricordata come una figura del mondo magico prettamente popolare e differisce alquanto dalla strega. Quest’ultima apparteneva a un mondo più elevato sia dal punto di vista sociale che culturale. Nei racconti la troviamo, infatti, sempre legata a grandiosi castelli, simboli di potere e nobiltà; la nostra janara, invece, agiva in un ambito modesto e popolare, regolato da attività femminili proprie del ceto più povero.

Osserviamo una janara in azione:

Il martedì e il venerdì di ogni settimana, intorno alle ore 23, ella si apprestava ad uscire.

Si alzava dal letto e innanzitutto occorreva rendere incoscienti marito e figli.

Premeva, decisa, con due dita sul loro stomaco, recitando una opportuna formula e metteva in atto il sortilegio desiderato. Quindi, sicura di non essere vista o disturbata, cominciava con calma a prepararsi. Si denudava completamente, scioglieva i lunghissimi capelli, ungeva con meticolosità tutto il corpo per mezzo di un olio che teneva in una pignatta, ben al sicuro su una finestra alta:

Si trattava di un comune olio di oliva, al quale, però, lo “stregale” (il capo stregone) aveva conferito particolari poteri che le consentivano di librarsi in aria e spiccare il volo, dopo aver pronunciato per tre volte la frase di rito “Sòtt’àqqwa e sòtta vjénte, sott’ a la nòce de Bbenevjénte!” : “Sott’acqua e sotto vento, sotto il noce di Benevento!”

Volava sicura, smaniosa di arrivare presto, per esprimere tutte le irrefrenabili stranezze, capricciose o malvagie, della sua diabolica natura.

In genere si dirigeva non lontano, in casa di vicini, a compiere azioni punitive, decise da lei, come ripicca a scortesie ricevute o concordate nelle riunioni periodiche ufficiali.

La perfida riusciva ad entrare nelle case attraverso un’insignificante fessura, addirittura attraverso il buco della serratura, e l’annunziava una folata impetuosa di vento. Puniva gli adulti della famiglia, sfogando la cattiveria sui bambini in culla o anche sui più grandicelli. Premeva sul loro stomaco in modo che i poveri innocenti non potessero invocare aiuto e li rendeva come paralizzati. Li spaventava, tutta brutta e scapigliata si calava addosso e, allungando le dita a mo’ di artigli, “storceva” loro le braccia e la testa e, sadica, ridacchiava. Alle femminucce tagliava le splendide trecce. Che scempio!

Quanti poveri padri si vedevano correre sul calesse con a fianco la moglie che teneva stretto un corpicino ben protetto! Il piccolo da alcuni giorni non mangiava e deperiva a vista d’occhio. “E’ stato toccato dalla janara!” si diceva. Per questo, in gran fretta, lo portavano da un anziano, uno stregone pure lui; questi premeva con competenza sulla pancia del piccolo, recitava arcane formule (la più nota è il “Nik-Nok” )e il bambino poco a poco dava segni di ripresa. Sulla via del ritorno la mamma appariva fiduciosa e anche il cavallo galoppava più veloce.

Sorridiamo benevoli, non dall’alto di una nostra presunta superiorità!

La vita di un tempo era davvero difficile, piena di stenti e di sacrifici. Fortemente inadeguate si presentavano le strutture sia familiari che sociali, scarsi i mezzi economici e limitati gli orizzonti culturali. Si era, pertanto, portati ad attribuire la responsabilità degli eventi negativi alle forze occulte del male, facendo leva su credenze poco aderenti agli schemi della razionalità. D’altronde anche oggi, epoca caratterizzata da notevole sviluppo economico e scientifico, sono davvero in molti a rivolgersi a maghi e fattucchiere, per liberarsi da presunte fatture o procurarne ad altri. Gli sventurati chiedono ai chiromanti di essere aiutati a ritrovare i fili della speranza, i più preziosi e delicati, nella complessa trama di cui è ordita l’esistenza di ognuno di noi.

Quanto fragile è la natura degli uomini!

Ma torniamo alla nostra janara:

Si racconta che qualche volta, molto di rado in verità, qualche componente della famiglia presa di mira riusciva, dopo uno studiato appostamento, ad acciuffarla e a bloccarla, tenendola stretta per i capelli. Quella, furba, gli chiedeva: ”Che tieni in mano?” Se l’altro rispondeva: “I capelli!” lei di rimando: “E io me ne scivolo come  un’anguilla!” lasciando l’antagonista nello sconcerto rabbioso.

Per fortuna i poteri malefici della malvagia non erano illimitati:

Il codice delle janare proibiva per esempio che si facesse del male a un bambino che portava al collo lo “scapolare”, una sorta di cuscinetto di dimensioni molto ridotte contenente piccoli oggetti metallici e l’immagine di un santino.

Le azioni della janara potevano attivarsi solo nell’arco di tempo tra le ventitré e le prime luci dell’alba. Così, quando dietro l’uscio di una casa il padrone sistemava una bella scopa, la scellerata non poteva entrare se non dopo aver contato uno ad uno tutti gli steli di saggina della scopa. Il compito richiedeva molto tempo, si avvicinava l’alba e la stregaccia si vedeva costretta a scappare e a desistere dall’impresa programmata. Ed ancora:

La janara aveva pure lei le sue paure irrazionali: Falci ed aste di mietitori la spaventavano a tal punto da apparire ai suoi occhi come spranghe di fuoco, che la terrorizzavano impedendole di fuggire.

E qualcuno, si racconta, con questo espediente riusciva a smascherarle.

Un altro punto del regolamento, pure condizionante, prevedeva che, qualora la perfida fosse stata colta sul fatto, se il padrone di casa avesse urlato: “Domani vieni per sale!” ella sarebbe stata costretta il mattino dopo a tornare in veste ordinaria per chiedere proprio un pugno di sale. In tal modo la si poteva individuare e punire a dovere.

In sostanza erano questi i poteri e i limiti del nostro fatidico personaggio.

A chi vuole saperne di più consiglio la lettura del mio libro “Ce stèva ‘na vòta”, nel quale tra i racconti del tempo che fu ne viene privilegiato un gruppo dedicato proprio alla vita delle janare.

Sono stati raccolti dalla viva voce degli anziani e credo siano un patrimonio prezioso che offre uno spaccato della vita di un tempo e delle difficoltà a volte insormontabili che i nostri nonni hanno dovuto affrontare.

Voglio approfondire comunque la conoscenza del nostro personaggio, proponendovi una vecchia canzone che mi è stata sempre particolarmente a cuore: “Felemèna la Janàra”.

Felemèna la Janara

 Filomena la Janara

È un canto in dialetto guardiese, raccolto alla fine degli anni sessanta.

Accompagnato dal bravo maestro Bartolino Sarracco, lo arrangiai e cantai sette anni fa a Cerreto Sannita  (BN) in occasione di un mio intervento sulla cultura popolare.

La canzone è una descrizione accurata delle azioni svolte da una janara in una classica notte di uscita:

Intorno alla mezzanotte la perversa si denuda completamente, si unge il corpo con l’olio stregato e, lanciatasi dalla finestra, prende il volo.

Simile a un pipistrello, effettua alcuni giri intorno a un torrente e poi, attraverso una stretta fessura dello spioncino della porta, penetra in una casa come folata di vento.

Ha preso di mira un bimbo che placidamente  dorme nella sua culla. Con crudeltà si lancia su di lui, comincia  a martoriare il suo corpicino con pizzicotti, pugni, calci e dolorose contorsioni, e la povera vittima rimane priva di conoscenza.

La diabolica, non soddisfatta ancora della vile impresa, riprende il volo e si dirige verso un’altra abitazione, intenzionata a completare la sua opera orrenda sul corpo questa volta di una bimbetta; ma inaspettatamente è bloccata da una scopa, a bella posta appoggiata dietro la porta.

Il nostro personaggio, trasportato da una inspiegabile ossessione, con frenesia, si mette a contare gli steli di saggina della scopa; ma essi sono tanti, e la vecchia con i numeri non ha molta dimestichezza.

Passa inesorabile il tempo, l’orologio  della torre scandisce la prima ora del nuovo giorno (le sei) e Filomena è ancora lì a contare.

L’alba è ormai arrivata e la demoniaca, obbedendo alle regole del codice delle janare, desiste dall’impresa e ritorna immediatamente a casa. Il rosso bagliore del sole che sorge all’orizzonte vede salva e illesa la bimbetta, che, ignara di tutto, dorme saporitamente.

CANTO

Felemèna la janàra

Filomena la janara

a  mezanòtte s’affaccjàva,

a mezzanotte si affacciava,

 ‘mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbà.

 

Se ugnèva ku l’ugljetjélle,

Si ungeva con l’olietto,

sémpe frìsqwe de re pegnatjélle,

sempre fresco della pignatta,

wòglje d’aurìva senza sàle,

olio d’oliva senza sale,

maledìtte da re strehàle.

maledetto dallo “stregale”.

Felemèna la janàra

Filomena la Janara

pe’ la fenéstra se menàva,

per la finestra si lanciava,

 ‘mbìmbolo…’’mbò…’mbò…’mbà.

 

E velàva sénz’affànne,

E volava senza affanni,

sénza skàrpe e sénza pànne,

senza scarpe e senza panni,

twòrne twòrne a re vallòne,

intorno intorno al torrente,

kòme fa re skurpegljòne.

come fa il pipistrello.

Felemèna la janàra

Filomena la janara

ént’a  ‘na kàsa se ‘nzeppàva,

dentro una casa si infilava,

 ‘mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbà.

Se ‘nzeppàva pe’ ‘na senketélla

S’infilava per una fessura

de ‘na pòrta ku la fenestrélla;

di una porta col finestrino;

kòm’a vjénte ke scjaurèglja,

come vento che soffia rumorosamente,

passàva dént’a la kurzèglja.

passava dentro il corridoio.

Felemèna la janàra

Filomena la janara

ént’a la kàmbra po’ arrevàva,

nella camera da letto poi arrivava,

 ‘mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbà.

 

Ku ddòje dèta ‘nkòpp’a la pànza

Con due dita sulla pancia

dèva r’abbwòbbeje sénza crjànza

dava l’anestetico senza creanza

prìm’a re pàtr’e ddòpp’a la mamma

prima al padre e poi alla mamma

ke dermèvane kòm’a Dìje kumànna.

che dormivano come Dio comanda.

Felemèna la jànara

Filomena la janara

a la kònnela s’azzekkàva,

alla culla si accostava.

 ‘mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbà.

 

S’azzekkàva a ‘ne wagljencjélle

Si avvicinava a un fanciullino

ke dermèva sénz’abbetjélle,

che dormiva senza scapolare,

kòm’a kìlle ke njénte sénte,

come colui che niente sente,

pòvera ànema innocénte!

povera anima innocente!

Felemèna la janàra

Filomena la janara

kìlle nìnne marterjàva,

quel bimbo martoriava.

 ‘mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbà.

 

Re dèva pìzzele, pònja e kàuce,

Gli dava pizzicotti, pugni e calci,

re tercèva kòm’a ‘ne sàuce,

lo torceva come un salice,

da la vòqqwa kaccjàva la bbàva,

dalla bocca cacciava la bava,

e mjéze mwòrte re lassàva.

e mezzo morto lo lasciava.

Felemèna la janàra

Filomena la janara

a n’àta kàsa po’ velàva

a un’altra casa poi volava

 ‘mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbà.

Arrevàwe dént’a njénte

Arrivò in un niente

e trasìwe kòm’a vjénte,

ed entrò come vento,

m’arrèt’a la pòrta se fermàwe,

ma dietro la porta si fermò,

ka ‘na skòpa llà trevàwe.

chè una scopa là trovò.

Felemèna la janàra

Filomena la janara

skòpa e nènna gjà lassava,

scopa e bimba già lasciava,

 ‘mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbà.

 

Da la fenèstra se ne velàva

Dalla finestra se ne volava

e a la kàsa se n’atternàva,

e a casa se ne tornava,

la krejatùra s’èva salvàta

la piccola s’era salvata

k’akkumencjàva n’àta jernàta.

perché incominciava un’altra giornata.

Felemèna la janàra

a mezanòtte s’affaccjàva,

pe la fenéstra se menàva,

ént’a ‘na kàsa se ‘nzeppàva,

a la kònnela s’azzekkàva,

kìlle nìnne marterjàva,

a n’àta kàsa po’ velàva,

 

skòpa e nènna gjà lassàva

e a la kàsa se n’atternàva.

‘Mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbò,

‘mbìmbolo…‘mbò…’mbò…’mbà.

‘’Mbìmbolo…’mbò…’mbò…mbò,

‘mbìmbolo…’mbò…’mbò…’mbà.

Settembre

??????????Settembre                      di franca molinaro Ottopagine, 7 settembre 2014
Settembre ha profumo di terra bagnata, prime piogge o temporali rovinosi, con una folata di vento va via l’estate, il sole, il caldo. Il giorno s’accorcia sempre più, il 23 settembre pareggia la notte, è l’equinozio d’autunno, il sole visibile attraversa di nuovo l’equatore celeste, stavolta compie la sua discesa verso il buio, verso il regno di Ade dove resterà per il lungo periodo di riposo della Grande Madre. I campi, ormai spogli, sono arati; dove il vomere ha potuto rompere il terreno indurito dalla siccità, già verdeggiano le rape. “Veata a quera rapa ca’ d’austo se trova nata”, seminata sulle zolle e germogliata alla prima pioggia d’agosto, la rapa sviluppa subito la piumetta e allarga i cotiledoni a livello del suolo. Tocca poi all’agricoltore attento evitare che afidi e ragnetti li divorino. Diverse varietà si distinguono per il periodo produttivo che gli conferisce anche il nome; ci sono le quarantine, il cui ciclo vegetativo si realizza in circa due mesi, a quaranta giorni mettono i corimbi, ovvero i broccoli che a Napoli chiamano “friarielli”, poi fioriscono e fruttificano. Spesso si disseminano autonomamente e germogliano quando le condizioni climatiche lo consentono. Altre sono sessantine, novantine, centoventine, marzatiche e aprilatiche.  Sono le verdure da cima e da foglia, le protagoniste dell’orto e della tavola con le prime minestre e zuppe. La massaia attenta ha già fatto provvista di pomodori sotto vetro, peperoni sotto aceto o secchi, ortaggi sott’olio, ha immagazzinato le leguminose. Ora nell’orto pianta finocchi, cipolle, sedani, scarola, lattuga e cavoli; semina spinaci e bietole. Intanto la vigna si colora di ocre calde e addolcisce gli acini, l’uva moscatella, varietà che anticipa la maturazione, è visitata da vespe e mosconi, api che fanno bottino di mosto. “De settembre prima la bianca che di pender la xe stanca” dicono in Veneto, e “Lassa in settembre, se si pol, l’ua nera a far l’amore col sol’”. E in Basilicata ricordano che per il quattro settembre: “A la fera r’ Atella va a la vigna cu la c’stel1a”, si può iniziare a vendemmiare.  Il vignaiolo attento sfoltisce le foglie e scopre i grappoli per permettere al sole di colpire gli acini coi suoi raggi ormai deboli e favorire una montata zuccherina ottimale. “Settembre seccafico” ricorda ancora il proverbio, tutte le varietà di fico maturano e si possono stendere al sole a seccare, su graticci intessuti con rami di salice o vitalba, o di qualsiasi altro pollone flessibile. “A la Santa Croce pane e noce”, il 14 settembre si festeggia la Croce di Gesù e le noci si abbattono, si seccano e, se la massaia ha pazienza, inserisce i gherigli nei fichi secchi e li conserva per preparare i dolci dei morti e per Natale. L’autunno ormai impazza con la sua ricca tavolozza, son ocre, ossidi e terre che si mescolano tra gli umori di ozono dei campi arati e le prime nebbie. Ma è uno sfoggio di bellezza effimera, l’ultima meraviglia, testamento dell’autunno all’inverno imminente. Il ciclo stagionale si chiude, l’Uroboro è prossimo ad inghiottire la coda, l’astro luminoso scende nell’Ade, la Grande Madre si prepara al sonno apparente delle sue creature.  Le foglie delle piante decidue, poco alla volta, si isolano dai dotti linfatici dei rami, fecondano il suolo e preparano il morbido humus dal quale spunteranno presto i frutti dei boschi: i fungi. Albero dell’equinozio autunnale è il pioppo bianco, Populus alba, che, con le foglie bicolore simboleggia la luce ed il buio. L’antico uomo dei campi è sereno, ha riempito i granai per affrontare la fame durante il riposo della terra, inoltre è tranquillo perché ha espresso la sua gratitudine, con i riti del grano, alla Grande Madre, o a chi, negli ultimi due millenni, l’ha sostituita. Osservando la vigna calcola il tempo della vendemmia e rassetta la cantina che deve essere perfettamente pulita per accogliere il vino novello. Settembre regala ancora scorci di sole e giorni piacevoli da trascorrere nella natura, in Emilia infatti si dice che: “Setembar e utobar cun dal bel giurnedi, temp ad fe dal scampagnedi”. Settembre e ottobre con delle belle giornate, tempo è di far delle scampagnate, scampagnate che, da noi, assumevano una connotazione sacra perché erano pellegrinaggi alla Madonna di Montevergine. Oggi è diventata una sorta di moda partecipare alla juta, un tempo era principalmente un momento sacro in cui il pellegrino s’immergeva dimenticando il quotidiano per raggiungere quella frazione astorica dove poter incontrare il divino. Alla Madonna si andava a piedi cantando canti religiosi, si arrivava al santuario ed era naturale la confessione, l’ascolto della messa, poi un pasto senza carne ed il ritorno in allegria cantando, reintegrandosi nella normalità e promettendo il ritorno per l’anno a venire. Si andava da ogni parte dell’Irpinia o del Sannio, si partiva con qualche giorno di anticipo, e strada facendo si cantavano le varie tappe della juta, secondo i luoghi di provenienza: “E arrivamo ‘n’cima Montella e la Maronna me pare ‘na stella (…) e arrivamo a lo scaozaturo e la Maronna ci’aspetta sicuro”. All’altare si arrivava a volte ginocchioni, secondo i voti, scalze o spettinate: “Tutte scaoze e scapillate ‘nnat’a ‘st’ardare addenocchiate”. Si tornava con novella energia acquisita a confronto con la Grande Madre cristiana che tutto perdona e sotto la sua protezione tutti pone, come quella della Libera che, a Trevico, accoglie sotto il mantello laici e cattolici, Trevicani e Bisaccesi.

Le vigne e il castello: Poesia tra le stoppie a Torella dei Lombardi

di franca molinaro, Ottopagine, domenica 31 agosto                    ??????????Pomeriggio d’agosto, il sole arroventa l’altopiano assolato di Candriano, una distesa di stoppie rigenerate dalla stagione piovosa. Appena scesi dal fuoristrada avvertiamo l’odore pungente del puliejo, Mentha pulegium, la mentuccia così famosa nella valle del Calore ma, pare che nella valle del Fredane non sia di notevole interesse culinario. Le corolle azzurrine formano magnifici pulvini che coprono in modo quasi omogeneo la superficie argillosa. Poche erbe hanno resistito ai raggi diretti del sole, si nota una presenza considerevole di Verbena officinalis con le spighette ormai sfiorite. La Verbena è una delle erbe del Battista ed è un miracolo ritrovarla ancora in fiore, era ritenuta una panace contro ogni tipo di male ma soprattutto era erba sacra dal grande potere apotropaico. Negli spazi vuoti c’è qualche esemplare di Plantago media e lanceolata, due specie di piantaggine che trovano ampia applicazione nella medicina popolare grazie alle loro proprietà antinfiammatorie, emollienti, rinfrescanti. Pochi esemplari di Daucus carota, la carota selvatica, sono germogliate dopo la mietitura e ora son di nuovo in fiore. La vegetazione è abbastanza monotona e poco variegata, non si scorgono altre erbe se non isolati esemplari di Echium vulgare, Picris echioides. E’ il genere di erbe che sopravvivono alla siccità, al vento e ai climi aridi, hanno radici fittonanti che cercano l’acqua nelle profondità del suolo argilloso sassoso da cui affiorano clasti di arenaria rossiccia e granulosa. Non un albero per dare frescura, né un rivolo d’acqua. E’ questa la terra avara cantata ampiamente da Fernando Antoniello, terra di un solo padrone, il principe, e di tanti mezzadri affamati che, con fatiche e stenti, cercavano di trarre pane in un luogo dove il grano stenta ad attecchire, dove lo batte la bora e il favonio e, a giugno, pieno o vuoto il chicco, i culmi ingialliscono e muoiono. Ma chissà quanti degli ospiti comprendono i versi di Fernando; ci sono agricoltori che annuiscono col capo, il potente cingolato da cento cavalli, con aratri mostruosi e dal ferro consumato, sa più di tutti quanto è dura questa terra, aspra da rivoltare, non scorre davanti ai vomeri ma si annoda facendo sbuffare il motore. Oggi la trattrice, ieri i buoi, l’altro ieri la zappa dei poveri coloni sotto il sole, senza un filo di ombra, è questa la storia millenaria che improvvisamente si è infranta, ha preso un altro corso con la speranza di migliorare ma, inevitabilmente altri padroni, occulti, spingono a fondo, nel baratro, le sorti della Terra. C’è un tentativo per recuperare le colture e la cultura delle cose vere, come il grano e il vino, il Gal CISLI sta facendo cose meritevoli grazie alla guida di Mario Salzarulo, qualcosa si muove, ma sembra ancora poco. Ed è proprio per la manifestazione “Le vigne e il castello” organizzata dal GAL CILSI e dall’Amministrazione comunale di Torella dei Lombardi, dal Parco Letterario De Sanctis , dalla Rete “I Parchi Letterari”, dall’Associazione Dante Alighieri, che mi ritrovo con l’amico Alessandro Di Napoli, sotto il sole, lo stesso che avevo lasciato un’ora prima nei miei campi. L’idea è quella di riproporre l’aperitivo desanctisiano in vigna con pane nero, formaggio piccante, e vino asciutto, “un pranzo da re” a detta dell’illustre antenato, il tutto arricchito dalla musica di  Verdiana Leone, dalle letture di Pasquale Bellofatto e dalla poesia proposta dai poeti del CDPS: Fernando Antoniello, Giuseppe Iuliano, Marciano Casale, Piero Mastroberardino, e da chi scrive. A moderare il tutto Alessandro Di Napoli e il sindaco di Torella Michele Mancuso, la direzione artistica è di Paolo Saggese. La manifestazione si è svolta in un anfiteatro allestito con balle di paglia ed attrezzi antichi utilizzati in vinicoltura: irroratrici, botti, fiaschi, damigiane ecc. Ad avere la meglio è stata la poesia dialettale, tre poeti per il dialetto, due per la poesia in lingua, un dato significativo e una gran soddisfazione per noi che operiamo nell’ottica della rivalutazione dell’idioma locale. I dialetti, quelli irpini, specificamente torellese per Antoniello che ha dedicato un poemetto alla storia del luogo, alle sofferenze della sua progenie, al vino e al suo possibile riscatto. Versi ironici quelli di Marciano Casale, degno figlio della sua Taurasi, amante del vino e delle poche gioie frivole e immediate che la bevanda offre ma, anche speranza di un “oltre” materico dove può avere ancora valore un bicchiere di aglianico per condividerlo festosamente col Padreterno. Iuliano, poeta in lingua, impegnato e innamorato della sua terra ha dedicato versi all’Irpinia da sempre plaga di dolore e di stenti. Sorprendente Piero Mastroberardino, erede meritevole del grande genitore che ha portato nel mondo il nettare irpino, con versi dotti, eleganti, essenziali, scarni e calligrafici ha raccontato di amore e di dolore incantando col suo porsi semplice e confidenziale, complimentandosi con noialtri dialettali. Personalmente ho voluto ricordare l’ennesima fiammata dai pozzi petroliferi in Val d’Agri, da cui il vento ci porta i residui venefici. Si accartocciano le foglie delle viti, appassiscono le pigne prima di maturare, seccano gli alberi, una ruggine rossa si posa su tutte le foglie coriacee mentre parassiti di ogni genere attentano alle colture. L’uomo cieco non vede e continua ad attentare al grembo della Grande Madre mentre noi poeti, in lingua o dialetto, ci sfiatiamo a denunciare, implorare, pregare, senza alcun risultato.