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La Madonna e la “d” di Bonito

imagesLa Madonna e la “D” di Bonito                                                    di franca molinaro, Ottopagine

Sono nata a Calvi, a vent’anni mi sposai e mi trasferii a Bonito, adesso sono di nuovo nel paese natio ma ormai ho acquisito tutti i costumi di quello adottivo, compreso il dialetto. Le mie ricerche, inoltre, mi hanno portato in diversi luoghi dell’Appennino costringendomi, ma con immenso piacere, a dover decifrare la complessa costellazione di dialetti risuonanti lungo le dorsali rocciose. Avendo ricercato lungamente sui canti popolari e avendone trovati di bellissimi, quando sono di buonumore, a casa, per campi o in auto, naturalmente da sola, stono qualche stornello. Il linguaggio di altri siti è diventato così familiare e piacevole che ne godo il gorgheggio. Versi d’amore, di dispetto o canti sacri, mi appaiono indifferenziatamente bellissimi. A causa delle mie ricerche, frequento spesso monti e boschi, da sempre il regno delle divinità, così mi capita di soffermarmi a riflettere sui Misteri delle Grandi Madri arcaiche fino alle nostre Madonne, le sette sorelle di cui parla la tradizione. La Mamma Schiavona è una di queste ed è tra le vergini più vicine alle Grandi Madri mediterranee, bruna in viso come la Terra Madre, solitaria nell’eremo, un tempo tra lupi ammaestrati, dalla misteriosa e simbolica storia. C’è un canto a Lei dedicato, che amo cantare, comune a tutta l’Irpinia anche se ogni luogo ha una stanza che la identifica come originale del posto perché cita i nomi dei paesi e delle contrade. È questo uno dei più bei canti dedicati alla Grande Madre cristiana, racconta le speranze del pellegrino, i timori ed infine la grande fede che lo fortifica nell’animo e nello sforzo fisico di salire il “montagnone”. Il ritornello intonato in coro ripete: “Hamo jut’e hamo minuto e quanta ràzzie c’havim’avuto”. Oppure: “Woi Maronna quanto sì bella stai ‘n’coppa a ‘sta montagnella, e ce stai reggina e bergene woi Maronna re Montevergene”. La voce solista acuta canta le varie stanze che hanno una logica se riferite al viaggio ed ai paesi che man mano si attraversano, del tipo: “E nui mo’ ‘n‘ge abbiàmo e la Maronna ‘ddo la trovamo? La trovamo ‘n’copp’a lo ‘n’chiano e la Maronna ‘n’ge rai ‘na mano. (Rit) Arrivamo ‘n’cima Montella e la Maronna ‘n’ge pare ‘na stella. (Rit) Arrivamo a lo Spitaletto e la Maronna ‘n’ge stai rimpetto.(Rit) Arrivamo a lo scavezaturo e la Maronna ‘n’ge’aspetta sicuro. (Rit) Arrivam’a la scala santa e la Maronna’n’ge vene nn’anti.” Poi ci sono le stanze del desiderio, del tipo: “E avanno ce vengo zita l’anno chi bene ‘no bello marito”.  Oppure il saluto di arrivo: ”Tutte scavez’e scapillate ‘nn’ant’a ‘st’ardare addenocchiate”. E di partenza: “Statte bbona Maronna mia l’ann’che bbene tornam’a bbinì. E si non ce virimmo ‘n’viso l’ann’che bbene ‘m’paraviso”. Questo straordinario canto ricostruito spigolando un po’ ovunque, mi fa compagnia spesso mentre percorro, da sola, le strade del nostro entroterra. La “r” della Madonna mi è così familiare come se appartenesse alla mia parlata. Ma non solo, altre espressioni comuni ad altri paesi, presenti nelle strofe che canticchio, affiorano nel linguaggio quotidiano. La mia parlata ormai è contaminata tanto che, a volte, chiedo ai miei figli come si dice da noi la tal espressione o il tal vocabolo. Altre volte, per confrontarmi ricorro ai dizionari dialettali abbondanti nella mia libreria. C’è da dire che in quasi tutta l’Irpinia la lettera “d” si trasforma nella più aggressiva “r” tranne che a Bonito. Mi spiego meglio: la “Madonna” della lingua nazionale resta tale e quale nel dialetto bonitese mentre, in altri paesi, compreso Calvi, diventa “’a Maronna”, praticamente l’articolo perde la consonante e la “d” diventa “r”. Anche il plurale è uguale alla lingua madre: le Madonne in entrambi i casi. Il dialetto bonitese si differenzia inoltre per un particolare modo di declinare alcuni verbi in are, se in altri paesi si dice “faticare” a Bonito si dice “fatiare”, la “c” cade anche col sostantivo “fatica” che diventa “fatia”. Nel caso del verbo stare, andare e fare, la terza persona singolare diventa stace, vace e face. C’è da dire che i Bonitesi vanno molto fieri del loro linguaggio, secondo il loro parere, è più vicino all’italiano, tanto fieri che…ascoltate la mia esperienza.  Una sera eravamo a tavola io, mia figlia e mio marito. Si chiacchierava tranquillamente quanto, all’improvviso, vidi il braccio di mio marito atteggiarsi in una sventola  a “votamano”. Sbalordita da un gesto mai fatto in tanti anni di vita  coniugale, cercai di capire cosa non andasse nella minestra, nel vino o nel servizio. Lo guardai interrogativa ma lui si limitò a scuotere nervosamente la testa. Allora chiesi esplicitamente :”Ma cosa ho fatto?” per sentirmi rispondere da mia figlia: “Ma’, non -Che hai fatto?- ma -Che hai detto?-Continuò intessendo lodi al loro dialetto spiegandomi che il bonitese è così delicato mentre gli altri sono rudi, un po’ montanari per via della ”r” che abbrutisce e rende la parlata sdrucciolevole. L’ordine fu: “Non te fa sente mai cchiù de parlà accussì”. “Bella pretesa, e come fa a non confondersi uno come me che è poliglotta?” dissi provando a scherzare disperatamente e ripensando a quel canto calabrese che dice: “Aggiu giratu tutta la Calabbria e puru ‘nu pocu all’estero” definendo “estero” Pisticci e Rionero nella confinante Lucania. Ma non rise nessuno, capii che il mio trasgredire feriva il loro orgoglio di appartenenza, sentimento che si manifesta maggiormente nel dialetto e nel cercare di mantenere le tradizioni. Anche questa fu una lezione. Nella vita di coppia sicuramente avrò irritato il mio compagno per una qualsiasi sciocchezza ma, mai da suscitare i suoi istinti bestiali, stavolta era bastata una stupidissima “r” per rischiare un ceffone. Avevo osato tradire la sua terra, mi ero permessa di adottare espressioni che appartenevano ad altri consolidando con questi “altri” il legame simbolico del linguaggio.

Luciano Acunzo – Autunno d’autore all’Osteria Pica –

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Autunno d’Autore: Luciano Acunzo racconta un po’ della storia di Lioni di franca molinaro

Quarto appuntamento dell’Autunno d’Autore all’Osteria Pica a Lioni, accompagnati dalla musica di Daniela Vigliotta e Nunzio Lucarelli, con la partecipazione di Emilio De Roma. Il poeta che presentiamo stavolta è Luciano Acunzo, uomo versatile e tenace dall’ironia garbata, menestrello del popolo dal quale attinge per scrivere le sue emozioni e al quale le restituisce. Animo sensibile a mille situazioni, come la sua vita spesa tra cento cose e cento luoghi, con una convinzione predominante: “Un uomo invecchia prima di diventarlo se pensa solo / ai rimpianti facendo passare il presente in un istante!”. Ma chi è nella vita Luciano Acunzo e qual è il rapporto con il nostro entroterra? Acunzo è nato a Napoli nei quartieri Spagnoli, aveva nove anni quando, come tutti gli abitanti delle città, fu costretto a diventare uno sfollato, incalzato dalla guerra e dai bombardamenti. Da Napoli si spostò a Lioni insieme alla mamma e si rifugiarono presso la nonna materna. Abitavano in Via Iannaccone, insieme alle altre zie, zii e nonni. La nonna era una donnina smilza ma piena di coraggio e attivissima, forse questa sua iperattività le impediva di “metter carne addosso”. Ma era indispensabile trovare ogni espediente per sfamare tante bocche e la guerra era nel pieno, i tedeschi sequestravano tutto e non c’era nulla in commercio. Era il 1944, si sparse la voce che un carico di grano era fermo nella stazione di Lioni, probabilmente proveniente dalla Puglia sulla linea Avellino-Rocchetta. Il popolo lionese si smosse e tutti corsero al treno per accaparrarsi, non senza violenza, una manciata di frumento che garantisse un boccone per la famiglia. Luciano accompagnò la nonna alla stazione che tra risse e botte riuscì a trascinare, anche con l’aiuto del ragazzo, un sacco di grano fino a casa. L’autore ricorda la povera donna completamente coperta di lividi e graffi, ma il pane fu assicurato per i giorni seguenti. Intanto la guerra incalzava e Lioni era sulla traiettoria degli aerei che volavano alla volta di Napoli per bombardarla, erano in tanti, i bambini li contavano per passatempo fino a stancarsi. All’orizzonte, oltre i Picentini, soprattutto di notte si vedeva un rossore quasi di tramonto, erano le bombe che esplodevano ininterrottamente e illuminavano il cielo. Uno di questi aerei fu colpito e cadde sulle nostre montagne, era un aereo americano, i due piloti si lanciarono col paracadute ma furono presi dai carabinieri e portati in paese; uno era un soldato di colore, era la prima volta che Luciano vedeva un uomo dalla pelle nera e addizionò quell’impressione alle tante altre regalate dalla guerra. Venne il momento che neanche il paese fu più sicuro così i Lionesi si rifugiarono in una galleria della ferrovia nei pressi dell’Ofanto. Si sistemarono a gruppi dividendosi gli spazi e i compiti. A Luciano toccava ogni tanto di andare ad attingere l’acqua, non conoscendo la fonte la riempiva nel fiume ma non era un problema, a quell’epoca l’acqua dell’Ofanto era potabile, vi si attingeva comunemente per i fabbisogni domestici, soprattutto in campagna. Oggi Luciano ha ottant’anni ma non ha dimenticato nulla del suo soggiorno Lionese, ricorda la prima volta che giocò in piazza con altri ragazzi, il purè fatto con farina di fagioli e piselli, regalata dagli Americani, il tascapane di sale portato da Napoli, dal padre costretto a scappare, ricorda la miseria e la vendita della macchina da cucire per recuperare qualche spicciolo e sopravvivere. Chi dice che dopo una certa età le persone non sanno essere tecnologiche si sbaglia, grazie a facebook il poeta ha ritrovato, dopo sessantacinque anni, le cugine emigrate in Brasile. Bisogna ascoltarlo per comprendere quanto è importante l’amicizia di una persona di ottant’anni, io ne sono fiera e, quando penso a tutti quelli che si accapigliano per mettersi in mostra, che si inalberano se non sono riveriti, che si fanno chiamare dottori e dottoresse pur senza esserlo, apprezzo ancor più l’umiltà di quest’uomo laureato alla scuola della vita e della sopravvivenza, dell’ingegno e dell’intraprendenza ma soprattutto dell’umiltà. E’ l’umiltà il sentimento che ci ha spinto ad unire le forze e fondare un Centro di ricerca prima, un premio dialettale dopo e condividere, infine, con l’oste Pica le nostre iniziative. Per noi gli anziani sono tesori al pari dei giovani, i primi sono le radici, i secondi sono i germogli. Spiega Luciano: “Viviamo in un mondo dove l’invidia viene ammantata e camuffata dallo scetticismo in particolar modo quando ci si trova davanti ad una persona anziana. Non viene valutato ciò che gli occhi oramai velati, le tante rughe che solcano il volto unito a quel bel colore bianco dei capelli, possono contenere. La mia vita è costellata da tanti episodi belli e non ma che mi hanno aiutato a crescere interiormente. Ho conosciuto l’agiatezza, la povertà di nuovo il benessere il tutto fondato sull’umiltà, generosità e sulla stima quella vera che si conquista giorno dopo giorno principalmente all’interno del nucleo familiare con l’aiuto delicato e costante di una grande donna ovvero mia moglie Annamaria. Da ragazzo avevo la presunzione che al mondo non esistesse di meglio che Napoli, Capri , la costiera Sorrentina e tante città italiane con la loro storia e cultura, poi ho avuto la fortuna e la gioia di girare il mondo e mi sono ricreduto nell’ ammirarne tutte le meraviglie, dall’Est all’Ovest”. I numerosi riconoscimenti in campo sportivo, teatrale, letterario, non hanno modificato il carattere gioioso di Luciano né tanto meno lo hanno inorgoglito, l’unico suo orgoglio è quello di vivere bene tra le persone semplici e condividere le cose belle che la vita regala. Una serata magnifica, come sempre all’insegna dell’amicizia, dell’umiltà e allo stesso tempo della grandezza, caratteristica posseduta solo da chi ha vissuto tanto e intensamente senza sciupare nessun minuto della propria vita.
Emilio De Roma Le Persone sagge sostengono che le vie dell’arte e dell’amicizia consentono di conoscere realmente l’uomo nella sua vera essenza. Gli incontri che si stanno tenendo all’Osteria Pica esaltano questi concetti e li rendono condivisibili per tutti quelli che dell’ambizioso progetto fanno parte. L’Oste è il facilitatore, il fornitore degli strumenti logistici, ma anche il provocatore delle iniziative che “l’Autunno d’Autore”, attraverso l’associazione La Grande Madre, concorre ad attuare. Scrittori, saggisti, pittori, scultori e poeti sono i consapevoli strumenti adoperati per lanciare un messaggio forte sull’arricchimento culturale reciproco. Pur nella consapevolezza della brevità degli incontri, la recente presenza dei poeti dialettali partenopei sta contribuendo ad arricchire la già forte tradizione vernacolare italiana, irrobustendone l’alto profilo sociale e culturale. La ricchezza della dimensione del Sud emerge tra unità e molteplicità soffermandosi, con armoniosa musicalità, su esperienze di vita, tradizione, gioia, dolore, per proiettare passato e speranza del futuro in un presente che con coraggio bisogna costruire e svelare. Grazie poeti dialettali, artigiani dei valori sinceri! Ad Maiora a tutti voi, Emilio De Roma.

Franca Molinaro Cari poeti del Concorso Internazionale “Echi di poesia dialettale 2014/15, come vedete il concorso non si esaurisce con la premiazione, il vero premio non è quello che ricevete all’atto ma tutto quello che succede dopo, la premiazione non è la conclusione ma un punto di avvio per tante nuove attività all’insegna dell’amicizia e della condivisione, della promozione della cultura senza pretese elitarie ma di popolo, tra persone semplici, di ogni paese o regione. Grazie anche alla rete che, se usata con attenzione può dare soddisfazioni enorme, accorciare le distanze e accomunare persone con intenti simili. Ascoltare Luciano Acunzo che mi dice: “Ovunque mi chiami vengo” accompagnato dall’eterno sorriso e approvazione di Annamaria…bhè…ma cosa vuoi di più dalla vita? Posso dire di esser veramente soddisfatta, grazie a tutti, soprattutto a chi fa tantissimi chilometri per raggiungerci.
Ieri sera rientrando si considerava: l’idea del baratto nata con il concorso “Echi di poesia dialettale” prosegue in questi appuntamenti della Grande Madre con l’Osteria Antonio Pica, insomma, ognuno mette quello che ha, con tutto il cuore e senza nessuna pretesa. La famiglia Pica, particolarmente attenta alla cultura, bambini compresi, si adoperano per creare movimento culturale di buon livello ma nello stesso tempo fruibile e condivisibile. Mette a disposizione il locale bello e accogliente, il riscaldamento ora che arriva l’inverno, la cucina “d’autore” perchè molti piatti sono propri della casa, e infine l’amicizia disinteressata verso noialtri che desideriamo fare delle cose semplici ma significative. Il nostro contributo si concretizza nell’impegno costante, nello studio e nel coinvolgimento, ogni volta di un nuovo amico animato dai nostri stessi propositi, fin ora ci sono stati i poeti dell’Antologia “Echi di poesia dialettale 2014” per il primo appuntamento, si è continuato con gli stessi poeti del concorso, Emilio Mariani, Giovanni D’Amiano, Luciano Acunzo, Maria Rosaria Salito Giuliana Caputo, Nicola Guarino, con i giurati Giuseppe Vetromile, il presidente Emilio De Roma, i musicisti Gerardo Lardieri,Nunzio Lucarelli, Daniela Vigliotta, Filomena D’Andrea e Virginio Tenore il prossimo appuntamento è dedicato alla pittura di Emilio De Roma, all’Autore Piero Mastroberardino, di seguito Gianni Terminiello, Lucia Gaeta, poeti della Grande Madre, e infine concluderà Saggese Paolo con Giuseppe Iuliano del CDPS per ricapitolare il lavoro fatto in questi anni di impegno costante, ci saranno ancora i musicisti Andrea Palermo e Gianni Molinaro

Terzo appuntamento con l’Autunno d’Autore all’Osteria Pica: Giovanni D’Amiano

16 ottobre Giovanni D'AmianoLa lingua Napoletana e D’Amiano il poeta appassionato   di franca molinaro, Ottopagine 19 ottobre 2014
L’attenzione del Centro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre”, nel terzo appuntamento di “Autunno d’autore all’Osteria Pica”, si è posta sui poeti Napoletani e sulla “lingua napoletana”. Degno esponente di questo appuntamento è stato il dottor Giovanni D’Amiano, il “Poeta Appassionato” che ha fatto del dialetto la lingua dei suoi sentimenti e della vita privata. A introdurlo è stato Giuseppe Vetromile altro poeta napoletano ma con maggiore vocazione verso la lingua nazionale. Interventi di: Emilio De Roma, padre Antonio Garofano e Antonio Morgante dell’Università Popolare Irpina, musica di Daniela Vigliotta.  In “Echi di poesia dialettale 2014”, D’Amiano è presente con “A lengua mia”, un componimento che spiega appieno il valore sociale e affettivo della lingua dialettale:  “Papà e mmammà m’hanno mannato â scola / addó me so’ mparato ’o ttaliano. / Però, parlanno chesta lengua, lloro / me sentevano stranio e lluntano. / Pirciò, aggio parlato ’o ttaliano / sulo cu ’e furastiere, fora ’e casa, / cu lloro, sultanto ’o nnapulitano, / ’a lengua d’’e cafune e dd’’e vastase”. Stesso concetto è riproposto dal coratino Gerardo Giuseppe Strippoli con “Zurre”: “Tu mò, addà vù scì, t’ada vergugnà,/ ‘mèzze alla gènde aggarbàte nan pùote stà,/ alle tìembe de jòsce nàn te pùote / permètte / de sapàie assalùte parlà u dialètte”. Il dialetto, dunque, in ogni regione, è per le faccende private mentre per i contatti con le persone “perbene” occorre parlare l’italiano. Però, ribadisce D’Amiano,  i genitori sentendolo parlare in modo differente, lo sentono lontano, come una persona estranea. Lungimirante affermazione che sottolinea il valore comunicativo del suono al di là della capacità stessa del linguaggio. Mi vien naturale fare un salto indietro nel tempo di un secolo e mezzo. Un nuovo “capofamiglia”, con un linguaggio incomprensibile, arriva nel Regno delle due Sicilie e impone la sua parlata, le sue leggi, oltre a tutte le altre nefandezze che non sto qui ad elencare. I Napoletani lo avranno visto come i genitori di D’Amiano vedevano il figlio mentre pronunciava suoni non familiari, il nuovo “capofamiglia, dunque, era un estraneo che, considerando anche tutto il contorno, non avrebbero mai potuto accettare. La ragione immediata la spiegava Ignazio Buttitta: “Un populu,/ diventa poviru e servu / quannu ci arribbanu a lingua / addutata di patri: è persu pi sempri. // Diventa poviru e servu / quannu i paroli non figghianu paroli / e si manciunu tra d’iddi”. Il napoletano, poi, ha una storia ben più salda di altre parlate “minori” perché supportato, a differenza delle seconde, da politica e letteratura, due elementi indispensabili affinché  una lingua possa essere ritenuta tale. Un bell’articolo di Raffaele Bracale, comparso nel 2010 su “Brigantino, il Portale del Sud”, spiega passo passo la nascita del dialetto Napoletano, dal greco, parlato nella città partenopea, soppiantato dai commercianti e legionari romani, fino ai nostri giorni e alle differenti sfumature. “Oggi – spiega l’autore – si può tranquillamente affermare che il dialetto/idioma napoletano, così come unanimamente riconosciuto, è un idioma romanzo che, accanto all’italiano, è correntemente parlato (non solo in Italia meridionale, ma anche all’estero tra le migliaia di emigrati che vogliono ancora sentirsi vicini alla terra d’origine) nelle sue molteplici variazioni diatopiche; è parlato cioè nelle regioni della Campania, Basilicata, Calabria settentrionale, Abruzzo, Molise, Puglia e nel Lazio meridionale, al confine con la Campania, con le variabilità dovute alla provenienza o alla collocazione geografica dei parlanti”. La lingua ufficiale detta “napolitano”, secondo quanto scrive il Bracale, nacque dall’unificazione delle Due Sicilie, per decreto di Alfonso V d’Aragona  nel 1442, quando sostituì il latino  nei documenti ufficiali e nelle assemblee di corte a Napoli. Era parlata nel Reame al di qua dello Stretto di Messina mentre oltre si    parlava il siciliano. Le regioni interessate erano   Campania, Basilicata, Calabria settentrionale, Abruzzo,Molise, Puglia e Lazio meridionale. Nel XVI secolo re Ferdinando II d’Aragona, detto il Cattolico, impose il castigliano come lingua ufficiale ed il napoletano di stato sopravvisse solo nelle udienze regie, negli uffici della diplomazia e dei funzionari pubblici. Un grave offuscamento gli pervenne con i Francesi nel 1799 mentre il colpo di grazie ci pensò a darlo la nuova nazione nascente. L’Unità, come abbiamo detto inizialmente, tolse definitivamente al napoletano il titolo di lingua nazionale per respingerla nella categoria dei dialetti, linguaggi vergognosi parlati dagli analfabeti. Così il napoletano subì la stessa sorte della dignità del Sud e fu additato come linguaggio degli ignoranti. Insomma, ci vuol poco a finire in disgrazia ma nella fattispecie si impegnarono proprio in tanti. Ma cosa succedeva nella quotidianità? I popoli del Sud continuarono a parlare come sapevano però, con la vergogna di non esser capaci di usare la lingua “nazionale” che non era più la loro ma una nuova commistione di toscano letterario ed altre intrusioni. Intanto, ai pochi diritti si affiancavano i tanti doveri, soprattutto militari. Nella grande guerra, spaventoso massacro di uomini inconsapevoli, molti soldati del sud andarono a tinteggiare col proprio sangue la bianca roccia del Carso, fanti per lo più analfabeti che non comprendevano gli ordini dettati in una lingua sconosciuta e per questa mancanza venivano considerati nemici della patria e passati per le armi. Morirono senza nemmeno comprenderne la ragione.

 

Autunno d’Autore all’Osteria Pica: Emilio Mariani poeta di Morra

DSCN0672I poeti della Grande Madre: Emilio Mariani, il poeta di Morra   di franca molinaro, Ottopagine 12/10/2014
Continuano gli appuntamenti con l’Autunno d’Autore all’Osteria Pica a Lioni, Antonio Pica, nella sua semplicità e onestà è riuscito a catturare la stima e l’affetto dei membri del Centro di ricerca La Grande Madre e di quanti lo avvicinano disinteressatamente solo per amore della cultura e della condivisione. Non manca mai la musica, compagna indispensabile per migliorare l’afflato, stavolta è stato il nostro chitarrista Nunzio Lucarelli a donarci qualche nota inedita e delicata. Intanto son sempre i poeti della Grande Madre i protagonisti indiscussi delle serate, i poeti del dialetto, quel linguaggio che ognuno ha appreso osservando i movimenti delle labbra tanto care, da cui ha ricevuto baci, amore e insegnamenti. E’ la volta di Emilio Mariani di Morra De Sanctis scoperto da Donato Cassese, presentato da chi scrive e da Paolo Saggese, poeta più anziano del concorso “Echi di poesia dialettale”. Mariani comincia a diffondere il suo dialetto attraverso la Gazzetta dei Morresi Emigrati, fondata e diretta da Gerardo Di Pietro. Erano gli anni che seguirono il sisma dell’Ottanta e fu forse questo evento catastrofico a fortificare la convinzione che occorreva un meticoloso lavoro di recupero sia in termini culturali che morali. Sedici anni dopo il terremoto, Mariani pubblica “Fiori di campo”, la prima silloge dialettale, per la Casa Editrice Menna (AV). Qui troviamo un poeta legato vivamente alla sua civiltà agreste, innamorato della sua Morra De Sanctis, Tu vidi quand’è bèllu stu paésu, / li buulardi, lu corsu e Santantuonu; / la téglia, San Roccu e lu spetalu, / canciéddru, li chiani e re pagliare…; (Morra bèlla, Emilio Mariani, da “Fiori di campo”), versi che rimandano all’altro grande poeta irpino di Nusco che, tre decenni prima, scriveva così: Quanta culuri pu’ questu ccampagnu…/ che pinnillatu rosa e blu-marè…/ Parunu nastri queru vviu sulagnu, / quir’uorti variupinti… che buchè! (Nuscu, paesu miu, Agostino Astrominica). I fiori di campo di Mariani hanno il profumo della primavera, aromi intensi, mai dimenticati, provenienti da quel passato prossimo oramai cancellato. Già in questa raccolta però, serpeggia, oltre alla malinconia per la civiltà scomparsa, la coscienza di una umanità per lo più meschina, colorita di tutti i suoi difetti. Il poeta, che sa esprimersi bene e con melodico lirismo anche nella lingua nazionale, nel 2007 pubblica, con la stessa Casa Editrice Menna, Melodie vagabonde, una silloge che si differenzia per la scelta della lingua, ma conserva contenuti e valori morali. In questo caso, la scelta della lingua italiana permette raffinatezze stilistiche soprattutto nei numerosi temi d’amore. Passano gli anni e Mariani continua a scrivere poesie, a raccogliere storie e memorie, un lavoro meticoloso che lo consacra sull’altare della memoria. Prima che tutto svanisca nei ricordi della sua generazione, il poeta moltiplica i manoscritti e garantisce alla sua Morra un corredo culturale altrimenti scomparso. Nell’ultima raccolta, “Li tesori de mò” Edizioni Delta 3, ritroviamo un uomo spesso amareggiato dagli eventi, dal trasformarsi delle cose, un uomo a volte solo perché, nella società corrente non c’è posto per certo passato, per certe sensibilità o “romanticismi”, questa società ha un altro ritmo che mal sposa le menti riflessive, attente ai moti dell’anima, alla fede, alle piccole gioie quotidiane fatte di cose semplici, di fiori, di paesaggi, di amore. Così, il poeta, nel silenzio della sua anima rivede il passato con un briciolo di nostalgia, ma con crudo verismo. Riconosce gli errori politici che si sono susseguiti dall’epoca dei “signori” agli attuali personaggi che hanno portato la nazione sull’orlo del baratro. Qua e là, qualche pennellata racconta ancora di un amore, antico, abbandonato, o attuale e maturo, ma sempre con la freschezza giovanile che caratterizza da sempre le più belle poesie d’amore. La presenza della donna, nell’opera di Mariani, si avverte con amarezza per le perdute virtù dell’universo femminile, egli non riconosce nella donna moderna il modello di quella “antica”, saggia nelle sue privazioni e sofferenze; oggi mortifica l’arrivismo, i modi sfacciati di certe “poddastre sfaccennate”. Dal punto di vista etnografico, il lavoro di Mariani è di notevole interesse, vecchi usi, oggetti scomparsi e tradizioni, riaffiorano dai versi ridisegnando quella civiltà pre-sismica in cui sono stati sepolti. “La nvèrta” racconta di un costume che, fin ora, ho riscontrato solo in Morra. Il trentuno di dicembre, “Pe salutà / l’annu nuóvu ca trasìja / s’accumingiava / da lu jórnu prima … / Viérsu l’ndinni / sunava la campana / e dìja lu via / a sta caccia paisana …” ogni anno, quando la campana annuncia i vespri, il paese si anima stranamente, amici e innamorati sono protagonisti di questo strano rito che, sicuramente ha radici più antiche di quanto s’immagina. “Li nnammurati / stiénne a l’érta / già dà la matina / pe vvéngi la nvèrta. …” La tradizione del luogo vuole, ancora oggi, che chi per primo riesce a dare il messaggio augurale pronunciando il termine “La nvèrta” vince il pegno e chi riceve gli auguri lo paga volentieri. Mariani spiega che il termine è riferito proprio al regalo cioè alla strenna natalizia. Lo stesso vocabolo lo ritroviamo nel Nord Italia, sempre in occasione del capodanno. Spiega Carmen Fumagalli Guariglia, dialettologa bergamasca:  -‘Nvèrta “, significa rovescio, ovvero, quando la cose vanno al contrario di quello che ti aspetti. Proviene dal dialetto toscano “Vertere”, ” ‘nvèrta “,  invertire.  Per questo, a Capodanno, per scaramanzia, affinché tutto vada bene, si usa questo termine dialettale-.

Ogni momento dell’anno ha i suoi riti e i suoi simboli, arriva il Carnevale con gli eccessi e, a compensarlo segue la quaresima, ovvero, nella tradizione popolare, sua moglie. Il poeta spiega che “Cumm’ a totte / r’ femmene attenènde / quarandana ogni annu s’ lamenda …” e “… cu la lana e lu fusu / è custretta apparàne!” i debiti e i pasticci fatti dal consorte sciagurato “Carnualu” (La mbreia de Carnualu). Interessante anche la descrizione della “quarantana” in altri paesi “pupa re quaraesema”, la nota bambolina quaresimale realizzata con stracci, una patata, e sette penne d’oca. Questo è solo un anticipo di quanto il poeta racconta nel testo e di quanto ancora ha conservato per la gioia dei ricercatori e degli addetti ai lavori. A Mariani un augurio di proficuo e lungo lavoro di recupero.

Autunno d’Autore all’Osteria Pica

DSCN0683Calendario degli appuntamenti
2 ottobre: I poeti della Grande Madre “Echi di poesia dialettale 2014”
Un populu, / diventa poviru e servu / quannu ci arribbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri”. (Ignazio Buttitta)
Conduce Franca Molinaro
Musica e canto Gerardo Lardieri e Giuseppe Grieco
Mostra fotografica di Antonio Bergamino
Intervento di Nicola Guarino
9 ottobre : Il poeta di Morra: Emilio Mariani
E lassa stà ‘mbaci la grammatica
re regule e la sintassa…
E parla cumme t’è fattu mammeta
ca nisciuni t’appassa!
Conduce Paolo Saggese del Centro di Documentazione sulla Poesia del Sud
16 ottobre:Il poeta appassionato, Giovanni D’Amiano
Pe qquanto aggio sturiato / ll’anema mia è rrestata parulana”.
Conduce Giuseppe Vetromile del Circolo Letterario Anastasiano
Musica di Daniela Vigliotta
23 ottobreLuciano Acunzo, uomo versatile e tenace dall’ironia garbata
Un uomo invecchia prima di diventarlo se pensa solo / ai rimpianti facendo , passare il presente in un istante.!
Conduce Franca Molinaro
Musiche di Daniela Vigluotta
6 NovembrePiero Mastroberardino, “Poesia sensoriale” di anima, terra, eros e thanatos
“Notte.Come tu sola sai donare luce.”
Conduce Franca Molinaro
Mostra di pittura di Emilio De Roma
Intervento di Nicola Guarino
Fisarmonica di Gianni Molinaro
13 novembre: Il poeta ermetico di Sorrento, Gianni Terminiello
” La musica, come la poesia, quando ti colpisce non senti dolore”
Conduce Franca Molinaro del Centro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre”
Musica di Andrea Palermo
20 novembre: Lucia Gaeta, la poetessa ecclettica
“Schegge di vita hanno trafitto il mio cuore / lacerandolo in mille pezzi / ed ogni volta linfa nuova / ad incollare un puzzle senza fine”.
Conduce Cav. Peppe Barra editore, dir. Centro Culturale Studi Storici il Saggio, Eboli
Intermezzo canoro di Lidia Di Paola
27 novembre:Il documentapoesia, Paolo Saggese
Un intellettuale militante al servizio del Sud
Conduce Giuseppe Iuliano del Centro di Documentazione sulla Poesia del Sud

Quest’autunno anomalo ha lacrime d’inverno già prima che la natura consegni al sonno le ultime energie. Tra pioggia e sole, freddo e caldo, la Terra si confonde, rifiorisce il Pero communis nel mio orto e il Pirus spinosa nella siepe, non si coglie il passo delle gru e le tortore ritardano la partenza. Dalla tana, il tasso sconcertato non comprende se è il caso di assopirsi o continuare le notturne scorribande in cerca dell’ultimo mais da spannocchiare abilmente con le unghiette canine degli arti anteriori mentre assicura a terra le zampe e le rotondità posteriori. L’agricoltore, dal canto suo s’affretta tra vigna e cantina assicurandosi il nettare di Dioniso per tutto l’anno a venire. L’annata va richiudendo il cerchio con il rito della semina per garantire, insieme al vino, il pane alla famiglia e il becchime a tutti gli animali della masseria. Noi della Grande Madre, ultimi irrecuperabili passionari delle sacralità antiche e della Terra, abbandoniamo la poesia delle stoppie per trovare riparo sotto un tetto dove è garantito il pane e il vino secondo la legge antica dell’ospitalità. E’ nato così l’Autunno d’Autore, dal bisogno di condividere, insieme alla poesia, all’arte e alla buona cucina, il piacere dell’amicizia vera e disinteressata, il confronto tra diverse attitudini e tecniche, tra anziani e giovanissimi, musica di ogni genere, canto antico e moderno. Così, l’Osteria Pica, a Lioni, già salotto culturale interregionale, si è trasformata nel ritrovo di chi, con una gran carica di umiltà, ha bisogno di imparare, confrontarsi, ascoltare e farsi ascoltare, condividere. A dare il via al primo appuntamento è stata la chitarra di Gerardo Lardieri e la voce passionale di Giuseppe Grieco, sulle melodie del classico napoletano, la poesia rigorosamente dialettale ha dato il meglio di sé. A tema la mostra fotografica di Antonio Bergamino, dedicata all’approccio col cibo dell’uomo occidentale, ingordo, egoista, facile al peccato di gola e tutto quanto ne consegue, il tutto esasperato da una atmosfera caravaggesca dove la luce, col suo linguaggio universale, sottolinea i caratteri individuali sospendendoli tra il grottesco e il tragico. Una tecnica perfetta quella del Bergamino, capace di ricreare quell’umanità povera di anima e di mezzi, tanto cara a Caravaggio ma con chiari riferimenti ai bamboccianti, guidati dal fiammingo Pieter van Laer, e al Carracci che vi si ispirò. E forse quelle immagini appese alle pareti dell’Osteria Pica aiutano gli intellettuali ad operare la catarsi, forse abbassano le ultime roccaforti della presunzione in quanti ivi seggono, e aprono lo spirito al dialogo più sincero. Tra noi, il poeta più anziano: Emilio Mariani col suo dialetto Morrese, scoperto e valorizzato da Donato Cassese che, amorosamente gli ha dato il suo apporto tecnico per la pubblicazione dell’ultima silloge poetica: Na cosa sola / m’ dai sullievu / mmiezzu a sta malvagità, la fede in Diu: / è l’unica alleata / ca m’ pozzu ancora fidà. / Nu nze trova cchiù / na nzèca d’ paci” (Vulèsse chiangi d’ gioia!). Mariani è ironico ma ben saldo nei principi antichi che caratterizzavano l’uomo della Terra, rispettoso della natura e del prossimo, sicuro in quella fede in Dio che non tradisce. Anna Maria Renna ha ricordi d’infanzia: “Cresceva mpiett’ò lemmete / E quanno ce n’era assai / mamma preparava pè cena na bella frittata. / Com’era sapurita / c’ò ppane e casa frisco e a scorcia tosta. / Se mi metto c’ò pinziero / sendo addora ra frittata / rind’à ferzora ncoppa u fuoco” (L’ereva ‘e Santa Maria) ovvero Tanacetum balsamita. Velata di malinconia la poesia di Nicola Guarino, poeta segnalato al Concorso nazionale “Echi di poesia dialettale 2014”: : “Nun c’era ‘na porta chius’ / m’piett a r’ cas d’ ‘stu paes’ mij / e sapiv’ ca c’era gent’ int’ a tutt’ li p’rtus / v’denn’ maccatur’ scut’lat da matin’ a ser’. / Ogni fest’ nu fra’hamerij all’us’ / nuostr’, nun’ mittiv’ a cunt d’avè p’nsier / ‘na prucission’ partut’ da la chies’ / a vist’ d’uocch’ int’ r’ strett’l’ s’ p’rdija (Nu desert’assutt’). Scoraggiato nei versi ma non nella vita il combattivo Gerardo Lardieri chiede di restare in pace a superare il difficile momento di che si sta attraversando: Re sape sulo lu Padratern / che tengo int’a stu core / int’a stu fégato / int’ a sta mente” (Lassateme perde). E infine un’ospite speciale venuta da Campagna, Maria Rosaria Salito, ha portato i versi dialettali dell’ironia, dello scherno, dei tiri mancini che la vita riserva a ognuno di noi, dalla piccola mosca che infastidisce a tavola roteando sulla squisita pasta fatta a mano, alla condizione femminile di subalternità in cui la donna, la mamma in modo particolare, sacrifica tutta se stessa per i figli, il marito, la famiglia. Ma, Maria Rosaria trova il suo riscatto nella sua affermazione attraverso la scrittura che le ha già dato diversi consensi anche all’estero. Non nasconde, inoltre, l’amore per il suo paese, “paese dell’acqua e del fuoco” lo definisce, dove, d’estate è stata recuperata una tradizione antica, quella di riversare nel paese le acque del fiume. La serata si è conclusa con un dibattito su vari temi, a cui hanno preso parte i Makardia: Filomena D’Andrea e Virginio Tenore. Emilio De Roma ha raccolto i suggerimenti su come migliorare “Echi di poesia dialettale 2015”, ed ha spiegato la necessità di rendere il concorso internazionale: “Il dialetto è un mezzo per mantenere più saldo il legame con la madrepatria, inoltre, oltreconfine è incontaminato e cristallizzato all’epoca della partenza”.