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Zampognari: figure d’altri tempi

10696370_833009146762474_3173242240817156483_nOttopagine 28 dic. ’14,      di franca molinaro
Domenica mattina, aria di feste e nella testa svariati pensieri, freddo polare, poche persone davanti al bar, la solita pattuglia ferma per un caffè, qualcuno parla di sport. La piazza sembra desolata quando improvvisamente si anima con due insoliti personaggi, Antonio Dello Iacovo e il suo compagno, agghindati di tutto punto, con cappello, mantello, cioce a zampa di mucca; il primo con la zampogna dall’otre bianchissima, il secondo con la pipita; sembrano appena usciti dal presepe. Sono una coppia di zampognari di tutto rispetto che mi accendono il cuore e la curiosità, così approfitto per fare due chiacchiere. Si presentano come gli “Zampognari di Pietrelcina” ed hanno un loro band ma, in questo periodo, girano per i paesi suonando gli antichissimi strumenti. L’incontro inatteso mette in moto i miei pensieri. Torna in mente un vecchio e triste canto del napoletano Michele Testa Piccolomini in arte Armando Gill, “’O zampognaro ‘nnammurato”.  Il canto inizia così: “Nu bellu figliulillo zampugnaro, che a Napule nun c’era stato ancora, comme chiagneva, ‘nnante a lu pagliaro, quanno lassaje la ‘nnammurata fora… E a mezanotte, ‘ncopp’a nu traíno, pe’ Napule partette da Avellino”. Per i Napoletani, dunque, gli zampognari arrivavano da Avellino, stabilendo col nome della città tutto il territorio interno fino alla Daunia. Pascoli, dal canto suo descriveva gli zampognari provenienti dai monti abruzzesi: “Sono venute dai monti oscuri / le ciaramelle senza dir niente; // hanno destato nei suoi tuguri / tutta la povera gente …/”. E il suono melodico, un po’ triste, immediatamente ci riporta aria di festa, di Natale, ci riporta indietro nel tempo quando per i paesi si udivano le melodie e la notte della vigilia si riascoltavano in chiesa. Erano contadini o pastori che avevano imparato l’arte e la sfruttavano per compensare la magra economia domestica. Da tutto il Sud si muovevano in coppia ma anche in gruppo e si spostavano fin fuori i confini nazionali, percorrendo spesso a piedi lunghi tragitti. Rallegravano il Natale altrui trascorrendo in strada, al freddo come Gesù Bambino, la notte santa. Per loro era un Natale di lavoro, di sacrificio lontano dai propri cari, ma rientravano con la gioia di aver assicurato il pane alla famiglia. Dopo un periodo di decadenza, gli zampognari, incoraggiati anche dalla riscoperta delle tradizioni, hanno ridato aria agli otri e stanno ricomparendo per la gioia degli appassionati. E’ facile trovarli in gruppi organizzati e pubblicizzati, si incontrano annualmente per un raduno internazionale e finalmente, la loro figura ha avuto il giusto riscatto. Così la zampogna, tipica del periodo natalizio, suonata da pochi pastori esperti, conquista le piazze tutto l’anno e diventa occasione di economia e specificità territoriale. Il Sud può asserire con fierezza che possiede il primato mondiale di costruzione e riparazione della zampogna, Scapoli, un paesino collinare in provincia di Isernia è il più rappresentativo. Il Molise, insieme al Lazio e la Campania, è la regione che conta ancora zampognari vagabondi delle feste natalizie, gli strumenti lucani, calabresi e siciliani, non si prestano alle novene perché di tipo solista. In Irpinia un esemplare è conservato presso il Museo Etnomusicale di Montemarano, era suonata in occasione del Natale da “Turill’e Moccia, ovvero Salvatore Morsa.  Secondo quanto scrivono Febo Guizzi e Robero Leydi in “Le zampogne in Italia”, lo strumento, con grande probabilità ha origine in  Siria, antica Licia, dalla quale e giunto a noi attraverso il Mediterraneo. Altre ipotesi la fanno provenire dall’antichità classica, dal primordiale strumento musicali di Pan, la siringa a cui i Romani avrebbero aggiunto un otre divenendo così tibia utricularius suonata dallo stesso Nerone. Dal punto di vista musicale, la zampogna rientra nella famiglia degli aerofoni con un insufflatore che immette aria nell’otre, due canne che terminano con delle ance, una canna per la melodia e una per l’accompagnamento, un numero vario di bordoni, secondo il luogo di provenienza. Intorno allo strumento sono nate storie e leggende che ne legittimano l’origine sacra, tra tutte, significativa è l’attribuzione della fabbricazione alla dea Minerva, la quale l’abbandonò dopo essere stata derisa da Giove per l’aspetto buffo che il suo viso assumeva nel soffiare nell’otre.

 

 

 

 

 

 

 

 

Quel volto come un’ombra d’amore

??????????La riproduzione della Sacra Sindone esposta a Trevico Ottopagine 21 dicembre 2014   di franca molinaro
Osservo il bosco dipinto con ocre luminose mentre lo attraverso e risalgo la ripida stradina che dalla valle sale a Trevico. Il paese, là in alto, non ha la nera cappa di nubi ma splende nell’azzurro del cielo. Ritorno sempre volentieri sul tetto d’Irpinia e quando il tempo è bello il piacere è ancora più grande, l’occhio spazia fino al Vulture possente e azzurro sull’orizzonte orientale, per le valli e i paesini sotto i miei piedi. Il clima è secco, la bora che giunge dal Tavoliere s’insinua per Porta Alba attraversando l’asse centrale del paese, si disperde nella larga piazza antistante la cattedrale dalle antiche pietre annerite dal tempo. La campana, magnifica invenzione di San Paolino, suona e il suo eco si diffonde come un richiamo, una voce sacra che invita a salire il monte e percorrere il cammino della salvezza. Anch’io, attratta dall’arcano desiderio di conoscenza e dalla più comune curiosità, accompagnata dalla mia mamma, mi son spinta fin sul monte ed ho sostato, col fiato mozzato, davanti all’acheropita dispiegata.  E’ questo un momento speciale per la piccola cittadina di montagna, antico capoluogo della Baronia e sede vescovile: per ben dieci giorni, nell’abside della vetusta cattedrale è stata esposta la riproduzione fedele della Sacra Sindone. L’evento è stato patrocinato dal Comune di Trevico col sindaco Nicolino Russo, dall’Associazione Amici di Padre Pio diretta da Gianni Mozzillo e Padre Marciano Morra, dal santuario di Sant’Euplio in Trevico nella persona del sacerdote don Michele Cogliani.  Giorni intensi per il parroco che ha custodito gelosamente il prezioso telo per tutto il tempo permettendo le visite in ogni ora della giornata. Nonostante il freddo, son saliti a Trevico, fedeli dalla Baronia, dalla vicina Puglia, dalla Basilicata e da tutto il territorio irpino. Personaggi di spessore sono stati in visita portando il loro contributo di fede e la loro parola di approvazione: Cristina di Gesù Crocefisso da Lagopesole, l’Arcivescovo Pasquale Cascio da Sant’Angelo dei Lombardi, Francesco Marino Vescovo di Avellino,  don Luca Guariglia Abate di Montevergine, Antonio Blundo Amministratore diocesano di Ariano-Lacedonia, Nicola Gagliarde Vicario Foraneo di Benevento, Cosimo Sibilia Pres. Regionale del CONI. A presentare l’opera è stato Raffaele Mazzarella del Centro Culturale San Paolo Onlus, questo centro religioso custodisce la sacra riproduzione e ne cura l’ostensione lì dove le condizioni lo permettono. Il telo è una copia fedelissima della Sindone di Torino, il sudario custodito nel duomo della città piemontese dal 1353, anno in cui se ne ha la prima testimonianza storica. Intorno a questo telo si è mosso il mondo religioso e scientifico, il primo a concordare che, senza ombra di dubbio, il telo è l’originale lenzuolo che avvolse Gesù dopo la deposizione, il secondo a tentare di dimostrarne scientificamente l’autenticità. Fin ora la scienza non ha potuto né confermare né screditare, resta il fatto che di fronte ad un acheropita, cioè un’immagine non da uomo dipinta, non c’è altro da ipotizzare, considerato il soggetto raffigurato, che quel telo possa realmente avere avvolto il corpo del Salvatore. Nella piccola cittadina irpina il dubbio non si pone, la fede è ancora viva e le persone osservano le sfumature che disegnano la figura in negativo del corpo martoriato di Cristo. E’ evidente il viso, che ha caratterizzato tutta l’iconografia del Cristo, il casco di spine posto sul capo e non la corona come si è soliti immaginare, le mani incrociate sul ventre in cui si nota l’assenza dei pollici retroflessi per via dei carpi trapassati dai chiodi, i piedi appaiati e non sovrapposti. Tutto testimonia la Passione subita da nostro Signore e tocca il cuore nel suo atrio più intimo. Leggo la commozione negli occhi di mia madre che, animata solo dalla fede, ha permesso al dolore di toccare il suo cuore di donna e di contadina del Sud. Non so se saprò farle un regalo più bello di questo, nel resto della mia vita, penso osservando il suo viso illuminato mentre si attarda a parlare con don Michele. Rivedo le mie posizioni in queste circostanze e mi convinco che il valore non è nel pezzo di stoffa ma in ciò che rappresenta, nella capacità di comunicazione con le persone semplici, in coloro che sanno avvertire il dolore e la sofferenza dell’umanità e lo fanno cercando di risanarlo attraverso la preghiera. Ho sempre pensato che Gesù, nella Resurrezione avesse innescato una reazione nucleare modificando la sua struttura atomica, la luce avrebbe poi intriso il lino lasciandovi segni indelebili; questa ipotesi corrispondeva alla necessità di una spiegazione che la mia mente razionale pretendeva. Di fronte alla commozione di questi anziani però, ho capito che non bisogna rincorrere necessariamente i perché piuttosto è necessario osservare col cuore e occhi innocenti per poter comprendere meglio.

A Castelfranci con Eugenio Bennato

 

10857849_1391514221141380_6402313459386250966_nL’Immacolata, i fuochi, la tarantella: a Castelfranci con Eugenio Bennato   di Franca Molinaro Ottopagine, dom.14 dic. 2014
“Immacolata Concetta giorni diciassette, ma si troppo le contamo sidici ne trovamo”. E così, col rito del fuoco osservato in tutti i paesi, si entra nel periodo natalizio, tempo pervaso dalla magia del solstizio d’inverno. Il sole si abbassa sull’orizzonte al livello minimo, la sua luce fioca ha bisogno di essere sostenuta dalla fede dell’uomo che in lui confida come padre e sposo della Grande Madre. Non è un caso se questa festa cade in questo periodo seguita poi dal Natale, altra sovrapposizione di antichi culti. Ma il problema non è nel nome delle cose, piuttosto nella sostanza. Ciò che conta è la fede in un qualcosa di buono che insegna amore e rispetto; tali le Grandi Madri preistoriche immagine della vita e della fertilità, tale, oggi, la Vergine sotto il titolo di Immacolata o di tanti altri, dai più naturali ai più strani, come ad esempio Santa Maria della Madia a Monopoli (BA). Allo stesso modo il Sole Invicto, Natale pagano, sostituito poi dalla nuova luce di Cristo. Il concetto è lo stesso e l’uomo moderno deve riscoprirlo e cogliere argutamente il messaggio, l’importanza del senso e non della forma. L’uomo preistorico riconosceva nella Grande Madre la fonte della vita e, poi, nel suo sposo il compagno indispensabile alla procreazione; l’uomo moderno, impettito nel suo orgoglio sconsiderato, si è sostituito alle divinità antiche ed è diventato dio di se stesso, attuando, in questo processo di trasformazione, un matricidio giustificato da un nuovo idolo: il denaro. La società, soprattutto quella occidentale, ha stravolto completamente i credo cancellando i valori antichi di cui l’ultima progenie contadina era tesoriera. Riscoprire questi credo alla radice significa, non fare spettacolo, ma indagare sul senso originario delle cose e scoprirne il valore. E’ questo concetto che ho cercato di trasmettere al pubblico attento,  a Castelfranci, per la festa dell’Immacolata e  della focalenzia, in un convegno organizzato  dall’Amministrazione Comunale con la partecipazione straordinaria di Eugenio Bennato. L’incontro, che ha preceduto il concerto del noto cantante partenopeo, si è svolto nella sala consiliare con gli interventi del sindaco Generoso Cresta, l’Assessore alla Cultura Vincenzo Gambale, Vincenzo Di Lalla storico del luogo, i musicisti Daniela Vigliotta all’organetto, Michele Storti alla fisarmonica e tamburo, Alessio Romano al tamburo. La discussione, incentrata sul tarantismo e sulla tarantella, è stata ottimo mezzo per retrocedere nel tempo e condurre gli ascoltatori lungo i sentieri del tempo, nell’antica Magna Grecia o tra gli Oschi dell’Appennino, immaginandoli baccanti, in vesti discinte, i Tarantinidion, in corteo a seguito della loro divinità, sia essa Dioniso, Cibele, Mephyte ecc., al suono della tarantella montemaranese suonata da Michele e ritmata da Alessio al Tamburello. Tale tarantella, unica nel suo genere perché eseguita in levare, è la colonna sonora ottimale per una processione di invasati, il ritmo, sempre in crescendo favorisce la trans coreutica che realizza la catarsi finale. E’ questa considerazione che mi induce a immaginare una matrice unica ma diversificatasi in tempi molto lontani dalla cugina taranta. Il valore terapeutico è lo stesso, entrambe sono volte a liberare lo spirito dai pesi che l’opprimono, siano essi materiali o psichici, il morso della Lycosa tarentula, il mal di luna o fobie interne irrisolte. La cugina irpina però, lascia intuire una connessione più diretta con i “misteri” precristiani. Naturalmente si suppone e ogni supposizione non è una verità ma un’idea da prendere in considerazione per studi più appropriati e in altri ambiti supportati da esperti nel settore. Castelfranci, è stata magnifica opportunità per avvicinare il pubblico ad un argomento tanto popolare quanto sconosciuto e la competenza dei musicisti si è dimostrata un aiuto indispensabile per poter far comprendere le lievi sfumature delle varie tarantelle suonate sull’organetto da Daniela e accompagnate dal tamburo di Michele. Si è passato dalle tarantelle locali quali Bonito, Gesualdo, Montecalvo, apprese direttamente da maestri popolari, a quelle più note delle altre regioni del Sud, la Viddanedda reggina, , ‘u ballettu siciliano, la Ballarella abruzzese ecc. L’attenzione del pubblico mi ha permesso anche un lungo excursus sui testi raccolti nella mia ricerca “Frammenti canori della civiltà irpina”, inducendo all’ilarità con le strofe licenziose dei contrasti presenti in tutta l’area meridionale, reminiscenze degli antichi fescennini e delle torcacane laziali. Non sono mancate le serenate dagli accenti romantici, tutte volte alla contemplazione della bellezza dell’amata ma sempre pervase di un sottile erotismo nell’intento di suscitare desiderio e aspettativa. In questo clima di distensione è stato facile dimostrare, soprattutto grazie all’aiuto dei validi musicisti, come la musica popolare e in particolare la tarantella, svolga oggi come ieri la sua funzione terapeutica. Questo suono antichissimo e sacro nato forse con la primordiale capacità dell’uomo di fare musica con un semplice piffero di canna, attraverso i secoli, continua la sua funzione terapeutica sebbene l’uomo del duemila non lo comprende più o lo coglie, grazie a pochi cultori, sotto il nome di musicoterapia. Le battute finali di Eugenio Bennato sono state indirizzate proprio ai giovani musicisti, sia ai ragazzi del convegno che a quelli esibiti lungo le strade, la sua ammirazione si leggeva negli occhi mentre parlava con Daniela e Michele. Il cantautore, spigolando negli antichi seminativi, ha il plauso di essere stato ottimo veicolo per la diffusione della nostra tradizione musicale nel mondo, ai cultori locali tocca l’impegno di mantenerne il decoro e la purezza.

 https://www.youtube.com/watch?v=TvjkIgVHO90

La Grande Madre a Monteleone con Medieval

10336704_830696100321850_1131352382027963887_nAutunno a Monteleone                            franca molinaro, Ottopagine 7 dic.2014
Il cielo è incredibilmente azzurro oltre il confine irpino, quel colore che annuncia il territorio apulo mantiene lo smalto come se fosse ancora settembre. Anche i campi, seminati di fresco, non denunciano l’inverno imminente ma, con le loro terre bruciate, tra l’ombra e il senese, indicano un prolungamento della stagione autunnale di oltre un mese. Autunno anomalo, quello di quest’anno, disorienta i mammiferi ibernanti, la fauna migratoria e la flora. Rifiorisce ancora una volta il piccolo pero nel mio frutteto, ultimo tentativo di accordare le sue note a un concerto ormai disarmonico. Le buganvillee e gli hibiscus, amanti del clima mediterraneo, per la prima volta nel nostro entroterra, si ammantano di fiori scarlatti. Il giardino è tutto una fioritura, garofani e begonie lo illuminano gareggiando con la Crassula ovata coperta di minuscole stelle bianche. Questa crassulacea molto comune, sverna nei nostri appartamenti e per Natale, come per incanto, l’alberello si ricopre di fiori bianchi riuniti in piccoli corimbi, ma quest’anno è ancora in terrazzo. Proseguendo, lungo la strada che da Zungoli porta verso la Puglia, osserviamo la fioritura della Pulicaria dissenterica, una Asteracea un tempo impiegata per combattere i pidocchi e le cimici, la sua antesi massima coincide con la fine dell’estate ma, se falciata, rifiorisce. La cugina Asteriscus spinosus, in più colonie, richiama il sole con le corolle dorate e spinulose. Poche masserie sono sparse sul vasto altopiano dove indisturbati pascolano paffuti esemplari di bovini Simmental, così docili da farsi fotografare, addirittura curiosi da avvicinarsi all’obiettivo. Le mucche sono spunto di riflessione per il mio compagno di viaggio, lo psicologo Nunzio Lucarelli, “Dobbiamo incuriosire, -mi spiega-, dobbiamo attrarre gli altri in modo che si avvicinino per capire il nostro operato”. E non ha torto, questa passeggiata in Puglia è nata proprio dalla curiosità che abbiamo suscitato con le nostre attività sui generis, cultura a costi  azzerati, non rapporti di lavoro in primis ma di amicizia, rispetto e non arrivismo, consigli e non escamotage per primeggiare, l’uomo e la natura insieme al centro di tutte le nostre attenzioni. E così, col pretesto di parlare del mio ultimo testo fresco di stampa, “Le piante magiche: piante apotropaiche e del diavolo”, Edizioni il Papavero, La Grande Madre va ad incontrare l’Associazione Medieval di Lea Colapietro, a Monteleone di Puglia e l’Associazione Etica di Cerignola. Un incontro conviviale per parlare delle nostre attività, di come ci poniamo e di cosa può nascere dal nostro sodalizio. L’appuntamento è nella sede dell’associazione Medieval, palazzo gentilizio ristrutturato ad arte nel cuore del centro storico di Monteleone. Il paese sorge su una altura del Subappennino Dauno, a 850 metri, il secondo per altitudine dopo Faeto. La sua origine è databile intorno al Mille, con un aumento demografico massimo registrato negli anni Cinquanta del secolo scorso. Oggi il paese sta seguendo le sorti di tutti quelli dell’entroterra per questo, animi più attenti stanno tentando di riunire le forze propositive per  rianimare l’antico borgo già vittima della politica di confine. Lea Colapietro, come una mamma dolcissima ha radunato i pulcini per incoraggiarli e aiutarli nel difficile momento. Così Lina Colangelo, dopo una laura conseguita a Firenze decide di imparare l’antica arte del caciocavallo. Con soggezione mostra le mani e io la incoraggio mostrando le mie, non sono i french a farle belle, c’è una bellezza che va molto oltre, è quella che risiede nelle screpolature, nei calli, nella pelle arrossata dagli agenti atmosferici e dall’acqua bollente della cagliata. E’ una bellezza che non tramonta, come l’anziana signora Annamaria Brando, musicista compositore, e una vita dedicata al prossimo interagendo costantemente con le dimensioni oltre che la illuminano e la proteggono. E poi Giuseppe Palladino, giovane innamorato della sua Rocchetta Sant’Antonio, Michele Grasso, Margherita Palma, Gabriella Apruzzese, Giuseppe Cornacchia, Antonio Volpe, Giuliana e Anna Petti, tutte persone dai grandi sorrisi,  animate dal desiderio di risvegliare la cultura e l’economia di queste terre. Rientriamo osservando a Ponente la Dormienta del Sannio, una sagoma azzurra contro il cielo che s’infiamma  nei bagliori della sera. Se dovessi smarrire la strada saprei che quella è la direzione da seguire per tornare a casa. La montagna sonnecchia da secoli nel suo torpore di pietra e, oggi più che mai, sembra voler eludere i continui attentati alla Grande Madre. Questo altopiano magnifico asciugato dalla bora, vedovo di nebbie e peronospora, ha un male che non nasce dal suo seno, un cancro causato dall’uomo. L’aria che respiriamo, col posarsi del vento, diventa pungente, subito le papille olfattive ne avvertono il lezzo, non è il sulfureo respiro di Aletto che infetta la valle dell’Ansanto, morbo ben più mefitico imputridisce l’aria e l’avvelena. Questa terra, forse povera ma ben difesa dai suoi abitanti, non ha avuto ragione ed ha dovuto accogliere una grossa discarica che ha raccolto i rifiuti di ogni dove. Ci chiediamo perché i popoli stabiliscono di avvelenare le aree solitarie attentandole con ogni sorta di violazione, è forse l’uomo padrone della Terra, è forse lo Stato? E che Stato è se non tutela il suo territorio e non lo valorizza per quelle che sono le sue attitudini? Perché lassù, nei palazzi del potere non riprendono a studiare i classici e a trarne insegnamento come  l’uomo del passato ha sempre fatto? Dovrebbero imparare che esiste una divinità chiamata Genius loci, quella divinità che protegge i popoli e le sue terre.