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L’Energia dell’Arte per contrastare il male

DSCN1344Ottopagine 21 gennaio 2015     di franca molinaro
Fin ora la scienza occidentale, pur ponendovi una certa attenzione, non ha avuto modo di dimostrare con prove tangibili l’esistenza di una corrente magnetica che avvolge il pianeta, una corrente che può essere positiva o negativa, secondo la tipologia di persone che abitano un determinato luogo. Nella cultura orientale, invece, si ha un’attenzione particolare verso queste tematiche, esempio eclatante è quello di evitare costruzioni intorno ai mattatoi, luogo di violenza e di angoscia. Togliere la vita, seppur al più piccolo degli esseri viventi, è un atto violento che genera negatività in chi lo compie e la accumula nell’ambiente circostante. Immaginiamo il clima che si sta creando in questo momento in tutto il pianeta, la paura, l’ansia causata dal terrorismo internazionale, il panico ampliato anche dai mass che trasmettono continuamente immagini di terrore. Tutto questo genera una nube tossica che avvolge la terra e mette in serio rischio la sopravvivenza dell’umanità. Siamo sull’orlo del collasso e non c’è bisogno della Sibilla o dei messaggi di Fatima, è evidente l’indescrivibile caos sia a livello climatico che sociale. Mentre le ultime esigue comunità etniche, seppur coi loro riti cruenti, sopravvivono immerse nella natura in qualche luogo inesplorato nel mondo, mentre l’uomo ancora non ha compreso il mistero della vita sul pianeta e ignora parte delle specie presenti, un’altra umanità firma irrevocabilmente la fine della dominazione umana sulla Terra. Siamo all’apocalisse, i mari sommergono le spiagge, uccidono la barriera corallina col loro alto grado di inquinamento, l’atmosfera è infetta da gas che la lacerano e l’assottigliano, la terra è avvelenata da ogni sorta di schifezza e per finire, l’uomo ha perduto il lume della ragione. Noi predicatori di pace siamo canne al vento, rauchi del troppo parlare ma mai asciutti d’inchiostro, mai spezzati dalla bufera. Arrenderci? Mai! Finché c’è un solo spiraglio dobbiamo crederci e contrastare la nube nera, dobbiamo usare le nostre forze per aggregare pensieri positivi, pace, solidarietà, ognuno come può, con la penna, con le opere, col pensiero, si perché lo stesso pensiero è un’arma straordinaria in qualsiasi circostanza, bisogna solo crederci. Bisogna aver fede, diceva un Uomo un paio di millenni addietro, fede nel proprio pensiero “positivo” ispirato al rispetto e all’amore. Non bisogna necessariamente esser cristiani per condividere il pensiero di Cristo; riconoscendo il valore dell’amore da lui predicato e ripreso poi, soprattutto, dal grande Francesco, si può sperare in un futuro, diversamente per l’umanità non c’è più speranza, solo il pianeta resterà riadattando i suoi sistemi e, tra millenni, ospitando nuove forme di vita. Ma intanto noi siamo qui e siamo chiamati a proteggerlo, figli della Grande Madre dobbiamo riconoscere i suoi doni e salvaguardarli così come siamo chiamati ad attivarci per mantenere la pace in ogni dove. Sono questi i capisaldi che permisero la nascita del Centro di ricerca “La Grande Madre” e per queste ragioni accettammo anche la proposta del piccolo Victor Pica, di trasformare l’osteria del papà Antonio, in un luogo dove circolasse arte e cultura. Fu proprio di Victor, alunno delle scuole medie, tre anni fa, a battezzare gli appuntamenti come “L’Energia dell’Arte”. L’innocenza ha voce pura e in questa denominazione si celava proprio il valore delle attività che, con la collaborazione di Arteuropa, si stanno susseguendo mese dopo mese. Gli artisti, i poeti, hanno la straordinaria capacità di guardare dentro le cose e spesso anche oltre, la loro sensibilità e attenzione verso il mondo immateriale è un’arma potente contro ogni violenza. Occorre però che questi spiriti straordinari si spoglino di presunzione ed egocentrismo per permettere a quell’onda positiva di coinvolgere e contrastare il male galoppante che attanaglia da ogni versante. Con gli appuntamenti ideati da Victor siamo al primo del terzo anno e, con un crescendo di consensi. Dalla Puglia, dal Sannio, dal Salernitano, pittori e scrittori, scultori, poeti, musicisti e cantanti, si susseguono portando il loro alto contributo umano e artistico. Lo scorso appuntamento ha visto la presenza di una stella nascente della lirica italiana, Daniela Salvo, voce straordinaria ormai avvezza a tutti i palcoscenici, apprezzata ovunque come musicista e voce solista, per noi ha interpretato il napoletano classico accompagnata dalla chitarra innamorata di Gerardo Lardieri. Insieme hanno incantato il numeroso pubblico, già psicologicamente predisposto grazie alle poesie di Vera Mocella. Non da meno la modestia e bravura del pittore Giacomo Di Troia, artista di fama internazionale; poche parole le sue, compite e sintetiche, di chi ha il piacere di lasciare allo spettatore l’interpretazione della propria opera. Così Nicola Guarino ed Emilio De Roma hanno insistito nel sottolineare la necessità di fare cultura con semplicità e purezza, senza orpelli e mistificazione. Cosa difficile che ci costringe ogni giorno all’autocritica scrupolosa evitando le impennate di egocentrismo proprie dell’animo umano, non so quanto ci riusciamo però ci impegniamo in questa direzione. Prossimo appuntamento, sabato 28 marzo con la salernitana Maria Rosaria Salito e il suo romanzo “Brigante per amore”, con intermezzi musicali dalla tradizione musicale bonitese, di Daniela Vigliotta.

L’Ofanto dai “Flutti ruggenti” dall’Encyclopedie di Didert e D’Alambert

di        franca molinaro Ottopagine 15 febbraio

brassica nigra (2)L’Ofanto, citato per i “flutti ruggenti” nella nota “Encyclopedie” di Diderot e D’Alambert, per Cosimo De Giorgi nel 1880, era “… una delle terre promesse nell’Italia Meridionale. Oh, se fosse conosciuta da tutti gli Italiani!”. Un paio di decenni prima la Francia aveva conosciuto le valli dell’Ofanto senile attraverso la pittura impressionista dell’artista barlettano Giuseppe De Nittis; intanto l’illustre conterraneo botanico Achille Bruni, declassato poi nelle sue competenze dalla riforma postunitaria di De Sanctis, raccoglieva notizie botaniche per il mondo scientifico sulla vegetazione del Regno con un interesse particolare per quella ofantina. Ma già i classici, Polibio, Orazio e poi Virgilio nell’Eneide, parlarono del fiume Aufido, raccontando di un corso d’acqua dalla portata “taurina” facendo riferimento al suo regime torrentizio e al fragore della corrente soprattutto nella fase giovanile. Il fiume Aufido raccolse il sangue dei popoli antichi, Oschi, Irpini, Sanniti, Romani, belligeranti, sempre pronti alla pugna pur di difendere la terra e la libertà. I Romani conquistatori, poi, lo domarono cavalcandolo con diversi ponti a schiena d’asino, meraviglie dell’ingegneria del tempo. Ponti che, come tutti i ruderi antichi, conservano custodite tra le campate novelle di briganti e diavoli. Oggi, le sue acque hanno subito le sorti della sua gente e, come per il fiume Calore, così per l’Ofanto, è restata solo la gloria stampata nei cuori nostalgici di chi ama e studia questa terra. Le sorgenti del fiume sono poste a notevole altitudine in quel di Torella dei Lombardi (AV), ad Ovest di Lioni, cittadella che il fiume lambisce in veste ancora di fanciullo bizzoso, tendenzialmente rigagnolo nella stagione estiva. Costeggiando la statale omonima inizia il suo cammino impantanandosi, progressivamente, in diversi invasi artificiali, oasi faunistiche dove ancora nidifica la cicogna. Per un buon tratto segna il confine tra la Campania e la Basilicata, poi si inoltra in Puglia dove, ormai maturo e su letto pianeggiante ospita, sulle rive popolate di Phragmites, la lontra. Dal punto di vista floristico, nella fase giovanile, il fiume attraversa un territorio in cui prevalgono le specie submediterranee e mediterranee, latifoglie decidue, maggiormente querce (Quercus cerris, Q. petraea, Q. robur) e latifoglie sclerofille, alberi e arbusti che presentano lamine fogliari indurite, adatte a superare periodi lunghi di siccità. Il leccio (Quercus ilex) è una di queste, presente in Irpinia in piccole colonie, rappresenta l’ultimo retaggio delle foreste originali, non perde il bel fogliame lucente quando in autunno ogni pianta decidua si dispone al riposo, ma gradualmente nel corso degli anni abbandona le foglie logore sostituendole con nuove. Lungo le sponde irpine, nella parte medio alta del corso, partendo da Torella, si incontrano boschi folti di pioppi (Populus nigra, P. alba e P. canadensis), salici (Salix alba,  S. fragilis, S. purpurea), frassini (Fraxinus ornus) ontani (Alnus cordata e A. glutinosa). Nella media valle dell’Ofanto, valicato l’Appennino, in territorio di Candela, il fiume, ormai maturo, si rasserena, il dislivello iniziale diminuisce sensibilmente e i flutti scorrono lenti verso l’Adriatico. La vegetazione diventa meno folta e si concentra sulle sponde ampie che s’inondano in inverno per prosciugarsi quasi completamente nella stagione calda. Si tratta di una vegetazione tipica ripariale con abbondanza di salici e pioppi, qualche olmo, canneti fitti di Phragmites australis e Arundo donax. Si può ammirare una vegetazione tipica delle acque a scorrimento moderato come Equiseti (Equisetum telmateia, E. Fluviatile) il primo molto apprezzato per le proprietà rimineralizzanti, Tifa (Typha angustifolia, T. latifolia) le cui foglie erano usate per intessere la seduta delle sedie, Menta acquatica (Mentha aquatica), Lingua di cane (Alisma lanceolatum, A. plantago-aquatica), Rovo (Rubus fruticans), Rosa canina, Liquirizia (Glycyrrhiza glabra). Lungo le sponde, in territorio pugliese ho avuto il piacere di incontrare la più statuaria delle Brassicaceae, Brassica nigra, i cui corimbi sono consumati come le cime di rapa. Nello stesso luogo una specie commensale costituiva una notevole colonia invasiva, il  Falso indaco (Amorpha fruticosa), una neofita spontaneizzata, importata in Europa come ornamentale ed impiegata come tintoria, poi sfuggita al controllo e reperibile lungo i corsi d’acqua. E’ una pianta officinale tossica, dalla spiga fiorale apicale, perianzio violetto, visitata spesso dalle api per la buona quantità di nettare. Per quanto riguarda la vegetazione della foce e prossima ad essa è valido ogni discorso relativo alle aree con alta salinità come delta di fiumi e coste basse con ristagni di acqua salata ed elevati livelli di salinità, dove, le steppe salate mediterranee, formano pascoli aridi di alofile abitati da una ricca fauna. La bellezza del fiume e del territorio che attraversa merita attenzione da parte degli enti e consapevolezza della popolazione umana che la abita. L’Ofanto, il secondo fiume del Mezzogiorno dopo il Volturno, il più lungo che sfocia nell’Adriatico a sud del Reno, con i suoi 170 chilometri di sponde, vegetazione, fauna e cultura, andrebbe valorizzato ulteriormente riconoscendo tutto il suo corso come parco naturale protetto.

Innamorati tra storie e leggende

imagesInnamorati tra storie e leggende                            di franca molinaro Ottopagine 7 febbraio 2015

Nelle notti di plenilunio, se guardi la luna puoi scorgere, sul faccione luminoso, delle macchie scure, se guardi con più attenzione vedrai materializzare una novella antica. Me la raccontava sempre zia, da bambina e io, con una curiosità  morbosa mi incantavo a scrutare i particolari di quella figura celeste. Era Marcoffio, un giovane garzone che viveva raccogliendo legna, il suo aspetto non era proprio gradevole ma questo non gli impediva di provare sentimenti. Un  giorno, passando sotto la finestra del palazzo reale vide affacciata la bellissima principessa e se ne invaghì. Con l’ardimento di un giovane innamorato, incurante della propria bruttezza, Marcoffio riuscì a farsi notare dall’amata e ad avere anche uno scambio di parole. La notizia, però, arrivò al re che, desideroso della sua testa, subito sguinzagliò dietro al poveretto, le sue guardie più affidate. Resosi conto del pericolo, Marcoffio, così come si trovava, col fascio di spine sulle spalle, scappò sulla luna che lo accolse e gli offrì ospitalità per sempre. Da allora, condannato all’immortalità, il povero innamorato disperato, osserva la terra dal cielo e piange il suo amore irrealizzato. E’ una leggenda presente un po’ ovunque, a Banzi (PZ), i bambini recitavano questa filastrocca: “ Marcofio ‘nd’a la luna, / chi li pidi strascinune, / chi li mani ‘nd’e sacchitti, / vai sunanno li friSchitti. / Tiruli tirulà!”. Marcoffio è colui che, eternamente, ci ricorda il dramma dell’amore irrealizzabile, dramma che si rinnova in numerose opere letterarie, leggende, racconti popolari. Le favole belle, però, sono quelle che finiscono bene, quelle in cui l’amore trionfa e “tutti vissero felici e contenti”, risollevati dall’iniziale condizione disagiata. Una bella favola vera è quella di Raymond Peynet, vignettista francese dal gusto garbato e dal tratto pulito. Un vignettista che, in un periodo niente affatto felice per la Francia e l’Europa, cercava di mandare al mondo, attraverso la rivista per cui lavorava, con le sue vignette popolate da omini e donnine semplici e filiformi, un messaggio di pace e d’amore. Amico di grandi nomi come Prevert, Marcel Aymé e Brassens, quest’ultimo per lui compose “Les banc public”, una canzone che richiamava la sua creazione più importante. Ma vediamo come nasce la favola. Una sera del 1942, Raymond si trovava nella stazione di Valence, insieme alla sua famiglia aspettava il treno per Clermont Ferrand. Era vuoto di idee e preoccupato per la cattiva piega che la situazione politica andava prendendo. Nelle sue vignette il bene risultava sempre trionfante ma, quella sera non sapeva proprio cosa disegnare per regalare alla nazione un messaggio di speranza. D’improvviso fu attratto dal suono melodioso di un’orchestrina che suonava Vivaldi, sotto un gazebo nei pressi della stazione. Volle curiosare e vide, tra i musicisti, un giovane dai capelli lunghi che suonava il violino mentre, rapita e incurante di tutto, una ragazza lo osservava. L’artista subito mise in moto la sua fantasia fervida e immaginò che i due di lì a qualche istante sarebbero restati soli e il violinista avrebbe continuato a suonare per la sua misteriosa e innamorata spettatrice, trasportandola con le note in una dimensione oltre che solo chi ama sa riconoscere. Quella scena, partorita dalla fantasia del fumettista, presto si trasformò in disegno, anzi, in una serie di disegni che presero il nome di “Valentina e Valentino” ovvero “I fidanzatini di Peynet”. Il giornale li pubblicò senza indugio, cosciente della necessità di un messaggio di serenità da inviare alla moltitudine. Finita la guerra, i fidanzatini fecero il giro del mondo per la gioia e la fama del suo creatore. Peynet morì nel 1982 dopo aver goduto numerose soddisfazioni, tra le tante, vide promuovere a monumento nazionale francese, il chiostro di Valence, lo stesso che aveva acceso la sua fantasia anni addietro e che il comune voleva demolire ma non gli fu possibile a causa di una vera rivolta popolare. Oggi, in tutto il mondo ci sono quattro musei dedicati a Peynet e, in Giappone, a Hiroshima, dopo l’orrore dello scoppio nucleare, la città ha eretto un monumento ai due romantici fidanzatini. La fede in un mondo migliore ricco di amore e di pace, ha reso immortale Peynet, egli è ricordato ovunque grazie ai fidanzatini che non sono semplicemente una creazione grafica bensì l’emanazione del suo spirito pacifico, romantico, innamorato perennemente della sua adorata Denise, compagna di tutta la vita. Peynet era preoccupato della crescita della volgarità e del cinismo nel mondo, in particolare nella stampa, affermava convinto che si parlava troppo poco di amore. Già allora lo spauracchio del cattivo gusto minacciava la decenza, premunizione del definitivo assassinio del decoro e del rispetto di ogni dignità. Poi l’amore, passando per le ultime smielate telenovelas è diventato principalmente sesso, scene osé e donne statuarie intente ad attirare l’attenzione del maschio dimenticando la bellezza dell’innamoramento nato nell’innocenza e nel rispetto del compagno. San Valentino, poi, dai primi timidi bigliettini scritti in Inghilterra verso la fine del XV secolo, è diventato un business così come Natale e le altre feste contemplate. Restano gli uccelli a continuare la naturale tradizione del corteggiamento con i loro canti e il perfezionamento cromatico del piumaggio. In questo periodo infatti, la natura si risveglia lentamente e i pennuti accentuano le tinte del loro vestito per attrarre la compagna unitamente a danze e canti intessuti appositamente per l’occasione. Il ciclo si reitera, la Grande Madre provvede a sostentare le sue creature e queste si industriano per garantire la sopravvivenza dei loro geni.