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25 aprile la “Resistenza” della memoria

    di franca molinaro Ottopagine 26 aprile 2015
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Settant’anni  fa, con un moto più o meno uniforme, l’Italia decideva che era tempo di smetterla, era tempo di dare una svolta a quel ventennio finito nel peggiore dei modi. Furono momenti cruenti, fu sangue a fiumi per creare le condizioni di libertà di cui si era perduta traccia. Oggi è quasi tutto dimenticato, morti, sacrifici, olocausti, tutto si sta sciupando e della libertà si è fatta altra faccenda. Gli uomini e le donne di allora son quasi tutti passati a miglior vita, si sono smarrite anche le cartoline militari conservate per tanti anni in soffitto. Il terremoto dell’80 demolì le vecchie case e tutti i tesori e i ricordi che custodivano. Oggi si festeggia con un po’ di retorica e un po’ di spensieratezza, si approfitta per una gita fuori porta ma di quei giorni terribili non c’è più traccia di memoria se non in qualche film storico ben fatto. In settant’anni abbiamo apprezzato la libertà, abbiamo goduto la pace e ricordato finchè c’era un genitore che raccontava, a volte fino alla nausea, la guerra. Per noi figli di militari reduci della seconda guerra mondiale, la guerra era un incubo ricorrente. Siamo stati cresciuti con i racconti delle azioni militari, delle bombe, dei feriti. Mio padre era nella Croce Rossa, era aiutante sanitario, ricuciva i feriti, sotterrava i morti quando era possibile, era sempre in prima linea per recuperare i feriti e poi negli ospedali da campo per medicare, accudire. Nell’album fotografico che ho ricostruito appare un uomo maturo che ha perduto buona parte dei capelli per via del casco sahariano, sempre in divisa, dieci anni tra militare, licenze, guerra di conquista in Africa e poi il difficile rientro dopo la liberazione. Disavventure nel deserto, fame, naufragio dopo l’affondamento della nave, piogge torrenziali che raggiungevano il livello della branda nella tenda, frutta esotica fino alla nausea per sfamarsi, malaria, dissenteria. Tutta l’infanzia l’ho trascorsa ad ascoltare i suoi racconti col terrore che la guerra un giorno sarebbe potuta ritornare, tutt’ora, prima di addormentarmi, ogni sera esprimo sempre lo stesso desiderio: Signore fa che l’umanità trovi la pace. E poi c’erano le zie vestite di nero che aspettavano il ritorno dei fratelli, nella masseria, a compiere lavori maschili, insieme agli anziani genitori. Si sposarono tardi perché i giovani erano in guerra, poi, al ritorno c’erano tante cosa da riordinare prima di pensare ai matrimoni. Intanto, nella grande stanza al piano superiore del vecchio casolare, una grande foto, in una cornice nera con vetro, proteggeva il ricordo di zio Pasquale. Un uomo molto alto, bello nella sua divisa di granatiere, morì al fronte, in Albania, il suo corpo non è mai tornato in patria, non se ne sa nulla. Qualche anno fa, da alcune ricerche fatte, abbiamo scoperto che prima di partire per l’Albania fu messo su un treno che passò per la stazione di Apice. Mancava a casa da mesi e doveva andare a combattere in terra straniera, passò a poca distanza dai suoi cari ma non potè fermarsi per salutarli. Dopo di questo una comunicazione dal fronte e il lutto scese sulle vesti delle donne di casa, sul povero vecchio padre che aspettava ben consapevole che anche all’altro figlio poteva capitare la stessa sorte. Ma la morte aveva scelto il più giovane finito con un colpo di baionetta, questo si seppe, morì nel peggiore dei modi. Mio padre, nonostante le disavventure rientrò a Firenze e vi restò per un bel po’ perché era complicato spostarsi, ci volle un po’ di tempo per rientrare in paese. Restò presso alcuni amici e imparò il mestiere di fioraio, Firenze non tardò a riprendersi ma la maggior parte dei fiori erano corone per funerali. La nonna e le zie continuarono a indossare gli abiti neri per lunghi anni. Lui tornò con un baule di racconti, esperienze, foto con bellissime crocerossine e signorine fiorentine, ma la guerra lo aveva segnato profondamente, non si cancellano quelle esperienze, forse si imprimono nelle carni come le ferite e la malattia che lo invalidò. E così, dopo la liberazione della nazione, restava quella liberazione difficile da operare, il suo spirito, la sua anima, il suo io massacrato dalla violenza assorbita, patita. Il suo era un corpo speciale, la Croce Rossa non era attaccata direttamente ma erano bersagli indiretti quando dovevano recuperare i feriti, vedevano tutte le sofferenze che la guerra può imprimere. I nostri paesini poco seppero della guerra vera tranne qualche bombardamento, l’arrivo dell’esercito tedesco e il sequestro dei beni, non seppero della Resistenza dei fratelli Cervi, non videro le atrocità della Linea Gotica. Le zie ricordavano con terrore i militari tedeschi; sotterrarono i corredi, nascosero i buoi e i maiali negli anfratti naturali lungo il ruscello perché l’esercito nazista requisiva tutto, erano loro i padroni. Degli Americani avevano un buon ricordo ma dicevano che i “Neri” erano pericolosi e si tenevano alla larga perché si raccontava di stupri. Un altro zio tornò dall’Inghilterra dove era stato prigioniero, non aveva sofferto con gli Inglesi. Peggiore fu la sorte di chi andò in Russia, tornò con i piedi congelati, lividi. Zio Vincenzo fu miracolato, silurarono la nave, lui era in Marina, un proiettile gli scoperchiò il cranio, ma guarì e della sua vita ne ebbe tante da raccontare. Quando la generazione che ha combattuto sarà definitivamente scomparsa allora si inneggerà di nuovo alla guerra perché l’uomo dimentica e non impara, non fa tesoro dell’esperienza e cade sempre negli stessi errori.

Dal pianto di Maria al tradimento di Giuda

DSC_0044Dal pianto di Maria al tradimento di Giuda   di franca molinaro, Ottopagine 11 aprile 2015

 

Nella nostra tradizione popolare, la quaresima è accompagnata, oltre che dal suono allucinante e legnoso delle traccole, dalla voce straziante delle lamentatrici popolari che cantano la passione di Cristo mentre svolgono il lavoro dei campi, sono nenie antiche che giungono a noi dal cuore del Medioevo. Il più antico brandello di canto della Passione lo troviamo intorno al 1150, si tratta di un testo meridionale, scoperto a Montecassino nel 1936 scritto su pergamena usata per rilegare un codice. Si tratta di un canto della Passione in lingua latina composto di 317 versi di cui tre in lingua volgare. Cristo parla ai ladroni e non alla madre che piange ai suoi piedi, poi lei, con un forte grido lo chiama, qui manca un pezzo perché la pergamena risultò rovinata, poi seguono i tre versi, doppi quinari, in volgare: …te portai nillu meo ventre / quando te beio- moro presente / nillu teu regnu- àgime a mmente.”. La pergamena risulta scritta da una sola mano per questo è immaginabile che si trattasse di un eco popolare inserito in una cerimonia sacra, come del resto si può ascoltare ancora oggi in alcune processioni religiose, il ritornello dialettale si interpone alle stanze in lingua. Il ricordo dei nove mesi di gestazione del canto cassinese, lamento ripetuto spesso nei pianti funebri popolari, ritorna in alcuni canti della Passione raccolti nel Sud: “…quiri nove misi ca non ce stisti / vergenella com’era la lassasti”.  A questa prima testimonianza scritta, ritrovata a Montecassino, seguono molti altri canti sullo stesso argomento, esempio altissimo è il “De planctu Dominae” di Iacopone da Todi, dove, piuttosto che nelle trenodie ecclesiastiche, il canto ha riscontro nei lamenti popolari che le donne umbre eseguivano al tempo di Iacopone. La Madonna appare nella sua affranta condizione umana distrutta dalla perdita del figlio unico e diletto mentre il Cristo è avvolto nella sua immobile sapienza. Nei nostri canti invece, scompare il baratro tra il divino e l’umano e la figura del Cristo stesso appare spaventata dai ferri del supplizio, infatti chiede alla madre di andare dai fabbri, e la madre va e implora: “…faciti li chiuovi curti e suttili c’hanna percià le carne soe gintili”. In un canto di Sant’Angelo all’Esca, la Madonna ascolta il supplizio del figlio davanti a una porta chiusa e si rivolge a Giuda: “Giuda Giuda no’ dalle forte ca’ so’ carne dellecate./  Cittu cittu tu Maria / lassammo a tuo figlio / e pigliammo a te. / Giuda Giuda tradetore / pe’ trentatrè denari / a lo mio figliuolo m’hai ‘ngannato / che bisuogno fussi avuto? / ‘N’casa mia fussi minuto / lo velo de lo mio petto / me lo ‘mpegnavo pe’ molti affetto / lo velo de lo mio core / me lo ‘mpegnavo pe’ lo mio figliuolo”. E così, nella tradizione popolare emerge la figura di Giuda il traditore come quella dello zingaro e dell’Ebreo, figure additate come peccatrici senza troppi ripensamenti, nella semplicità del pensiero degli umili. A digiuno di teologia, con quella fede semplice che rimanda più agli affetti immediati che alle speculazioni filosofiche, il popolo sente il dolore umano di Maria e le ingiustizie che perseguitano i giusti, solitamente i poveri, la gente che non ha difese e che subisce sempre, ieri e oggi, perché vittima di un sistema che stritola gli umili, i miti di spirito. Il traditore non è visto come l’uomo che adempie al progetto escatologico dell’Altissimo ma come quello che ha fatto del male arbitrariamente per la misera cifra di 30 denari. La sua figura è dannata per sempre senza speranza di riscatto, senza pietà di alcuno, chi mai potrà comprendere il gesto di colui che ha permesso la salvezza dell’umanità attraverso un tradimento quindi l’immolazione dell’Agnello sulla croce? Argomento spinoso che richiede una grande carica di umanità ma anche di fede per poter esser affrontato, lo ha fatto Gaetana Aufiero, figura rilevante nel Pantheon culturale irpino, con la sua Lauda di Giuda “Io Giuda, Io Pietro”, atto sacro messo in scena sabato 11 aprile  a Castel Baronia con il patrocinio del Comune, col sindaco Felice Martone, il presidente della Comunità Montana Valle dell’Ufita Carmine Famiglietti, l’Università popolare Irpina con Michele Ciasullo e Antonio Morgante. L’evento è stato proposto dal Centro di Ricerca Tradizioni popolari “La Grande Madre” con il coordinamento di chi scrive e l’intervento del prof. Emilio De Roma studioso in Scienze Religiose. La compagnia teatrale, diretta da Antonio De Padova, è composta da Nello De Padova, Marianna Rossi, Manola Mallardo, Saveria Settembrino, Adriana Giordano, Alessia Giordano, Luca Aquino. Antonio De Padova; regia: Costanza Fiore; musiche composte dalla M-Carmina Rinaldi. Violino: M—Rita Volpe. Organo:  M—Carmina Rinaldi. L’Aufiero con la sua straordinaria sensibilità riesce a penetrare il cuore della Vergine e qui trova il perdono, quello di una madre che comprende un’altra madre con la sua stessa sorte, madre scura, nera di lutto e dolore. Anche Pietro che rinnegò tre volte, è chiamato in causa, lui divenne Pietra di fondamenta perché si pentì e credette nel perdono del Padre, Giuda invece finì dannato, come i tanti suicidi che in questo momento in particolare si susseguono, perché non ebbe fiducia. Una lauda, quella dell’Aufiero, che si presta alla speculazione teologica, ma soprattutto un messaggio positivo, di speranza, che l’uomo deve cogliere e volgere alla luce il proprio cuore e la propria mente.

 

Sabato santo

In alcuni paesi dell’Irpinia, la notte del sabato santo ci si riunisce in una casa e si cena mentre si provano le serenate da portare ad amici. Verso la mezzanotte si esce in gruppo con vari strumenti e poca preparazione musicale ma con tanta voglia di divertirsi. Si arriva in silenzio davanti alla porta di una abitazione, avendo prima contattato almeno un membro della famiglia. Nel buio si inizia a suonare finchè la padrona apre la porta, ma questo accade dopo almeno una decina di minuti trascorsi in ascolto e al buio. Una volta aperto la porta saluta tutti con gli auguri e prepara la tavola con tutti cibi pasquali, dolci e rustici, uova e salame, vino in abbondanza. Si continua a suonare, mangiare e ballare finchè ci si congeda rinnovando gli auguri. Si parte alla volta di una nuova abitazione dove si ripete lo stesso rituale.

I riti di primavera

SANYO DIGITAL CAMERAdi Franca Molinaro, ottopagine, 5 aprile 2015
La settimana santa ha visto il dolore per la morte di Cristo ma, contemporaneamente l’affaccendarsi della massaia tra la visita al sepolcro e i preparativi per i dolci pasquali. Molti paesi hanno celebrato la Passione in modo spettacolare, altri come Greci, conservano i riti propri importati da oltre il confine nazionale e cantano in chiesa, dopo la lunga processione tra i vicoli stretti e bui, la Kalimera, una nenia in arbereshe. Nella lunga ascesa verso la civiltà moderna, il binomio morte-resurrezione ha avuto sempre importanza primaria, ad esso è legata la speranza dell’uomo in ogni tempo, dalle prime embrionali forme di religiosità, alla complessa teologia del mondo cristiano. I primi riti che celebrano la passione, la morte e la resurrezione sono legati alle divinità Tammuz della Siria, Attis della Frigia, Osiride dell’Egitto e Adone della Grecia. Tammuz moriva ogni anno per discendere sotto terra ma, a primavera, Istar, sua sposa o sorella, lo resuscitava risvegliando le forze rigenerative della natura, per questo era definito dio dell’agricoltura. La versione frigia del mito di Attis riportata da Arnobio, racconta che questi nacque da Nana, dea della generazione, e morì per autoevirazione il giorno delle nozze, ma resuscitò a vita nuova il 25 marzo, inizio della letizia. In tale occasione i fedeli e i sacerdoti si flagellavano spargendo il loro sangue. La Catabasis celebrava la discesa del dio nel regno dei defunti ed era seguita da una veglia e da un digiuno che preparava gli adepti alla resurrezione.  Macrobio Teodosio, nella Saturnalia, descrive il ciclo stagionale regolato dai movimenti apparenti del sole e interpreta il mito di Attis, paragonandolo a quello greco di Adone. Secondo Ovidio, Adone era figlio incestuoso di re Ciniro e sua figlia Mirra, divenuto adulto s’innamorò di Afrodite ma Ares, trasformatosi in cinghiale, lo uccise. Sceso nell’Ade, fece innamorare Persefone; per intercessione della musa Calliope, gli fu concesso di trascorrere metà dell’anno nel regno dei morti e metà sulla terra con Afrodite. Anche Osiride, dio della vegetazione, subì una sua passione essendo stato ucciso e fatto a pezzi dal fratello Set, ma sua moglie, Iside, ricompose i pezzi e, con un grande atto d’amore, lo fece risorgere per avere da lui un erede. Anche la Pasqua ebraica ha il significato di “Passar oltre” come il termine “Pesah” indica. Originariamente si trattava di riti di filiazione arcaica, solo in un secondo momento fu abbinato all’episodio biblico. Il nostro Cristo sostituisce, con il suo arrivo, gli antichi miti occupando, a  pieno  titolo, il trono del sole. Così scrive Franco Cardini: “ L’identificazione Cristo=Sole è uno dei topoi teologici che sono presenti in  un arco di tempo amplissimo: dai riferimenti scritturali (“sol oriens ex alto” è Cristo stesso secondo Luca) fino alla tradizione letteraria    medievale.”.   Per quanto riguarda la rappresentazione dei “Misteri”, i primi commentabili con una certa esattezza, risalgono al periodo Attico nella Grecia antica, intorno al VI sec. a.C., erano riti incentrati sui valori religiosi e politici della polis. Le rappresentazioni erano messe in scena durante gli agoni tragici che s’indicevano in occasione delle celebrazioni più importanti della polis: le Grandi Dionisiache, connesse al culto del dio Dioniso, ricorrevano tra marzo ed aprile e duravano sette giorni; le Lenee duravano tre o quattro giorni e cadevano tra gennaio e febbraio. Il teatro greco trovò favore in Italia grazie alle innumerevoli colonie insediate nel Meridione della penisola. L’Italia meridionale costiera e insulare, prevalentemente greca di lingua ed origine, metteva in scena le rappresentazioni patrie come segno d’identificazione culturale, i rapporti con le popolazioni appenniniche ne favorirono la diffusione. La tragedia fu il filone più fortunato sicuramente perché legato a un processo mimetico in cui il pubblico si arrovellava e  sublimava lo spirito in una sorta di catarsi, un’espiazione e purificazione che riabilitavano l’individuo verso la giustizia ed il prossimo. Anche Roma aveva i suoi riti molto più legati alla politica che ai sentimenti umani. La fine dell’Impero Romano e la nascita di una nuova cultura religiosa ancora non proprio definita apportò, nell’ordine sociale, totali mutamenti. I primi secoli del cristianesimo navigarono in un mare d’assestamento che stentò a definire le precise direttive della specifica religione. Ma già nel IV secolo troviamo un corpus di riti atti alla storicizzazione e commemorazione annuale della Pasqua. In origine si metteva in scena tutta la vita di Gesù, poi, attraverso alterne vicende, si giunse alla estremizzazione e deterioramento del rito sacro. Pitrè spiega che, durante la rappresentazione del “Christus patiens” dramma dell’era volgare, i partecipanti trascendevano in scene degne dei baccanali. Tra il XVI e il XVII secolo, l’infierire delle lotte religiose causò un certo letargo a tali manifestazioni. Nella nostra tradizione irpina, eredità meravigliosa sono i “Misteri Sacri” di Mirabella Eclano, una ricca collezione di statue in cartapesta realizzate da Antonio Russo. Oggi i “Misteri” sono ospitati, tutto l’anno, nel museo comunale di Mirabella ma, negli anni Cinquanta del secolo scorso, il venerdì santo venivano esposti in piazza attirando, nella cittadina eclanese, genti da tutto il territorio. I fedeli li adoravano e piangevano la morte di Cristo, realizzando, ancora una volta come nel teatro greco, la catarsi. Con l’animo terso ora si può affrontare la Pasqua e la rinascita interiore e del nuovo ciclo vitale.