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Monthly Archives: September 2015

Carmine Tobia, l’uomo che a novant’anni cura con le erbe, di franca molinaro

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La Grande Madre ha raccolto la memoria fitoterapica dell’anziano di Caposele

Sabato scorso, insieme a Gerardo Lardieri ed altri collaboratori della Grande Madre, ci recammo in quel di Salerno, Oliveto Citra precisamente, per una ricorrenza importante: Carmine Tobia, nostro validissimo collaboratore, ha compiuto novant’ann
i. Un traguardo importante per ogni individuo e già per questo occorreva fare tanta strada, ma nel caso di Zi Carmine, come affettuosamente amiamo chiamarlo, garantire la presenza era un dovere oltre che un piacere.
Avemmo già occasione, in questa mia rubrica, per parlare di lui nel 2012, quando ci recammo a Castelnuovo di Conza per incontrarlo. Poi, in più appuntamenti, abbiamo raccolto tutta la memoria fitoterapica di questo simpaticissimo personaggio. In occasione del suo novantesimo compleanno ci è piaciuto offrire la nostra attestazione di stima. Carmine Tobia, nativo di Caposele, giovanissimo iniziò la sua avventura di emigrante oltre oceano passando da uno stato all’altro per lavoro senza trascurare di raccogliere la saggezza dei luoghi in cui soggiornava.
Lavorò in Venezuela, in Brasile, nel Nebraska, poi, tornato in Irpinia, si stabilì nella casa di sua proprietà a Caposele, sotto la chiesetta di San Vito. Dopo la morte della cara consorte siciliana, Carmine si trasferì in un piccolo chalet tra le braccia dell’Appennino, in località “Petrara” così chiamata, forse, per via del suolo che, a tratti discontinui, mostra la roccia nuda sgretolata agli agenti atmosferici. Carmine Tobia ha oggi novant’anni ma non li dimostra affatto, fisico asciutto, viso senza rughe, abbondante capigliatura, ancora agile e autonomo. Il suo carattere è mite, socievole, di una straordinaria immediatezza, tratta tutti con familiarità, come vecchi amici. E’ assistito amorevolmente da una giovane donna gentile e solare, Rosanna, e dal marito Antonio, ma ha la sua totale indipendenza, inoltre ha tanti bei cani che lo amano al pari degli amici. Alla festa del suo compleanno erano presenti un centinaio di persone, tutti amici anche quelli venuti dalle Americhe per l’occasione, tutti pronti a raccontare i bei sentimenti nutriti per lui. Ad allietare la serata c’era un complessino di musica popolare, un portento di organetti virtuosi che hanno fatto ballare grandi e piccoli, ad aprire le danze è stato proprio lui, Carmine. Valzer, tarantelle, polke, quadriglie, non ha rinunciato a nulla. Dobbiamo ammettere però, che in questo sito dell’Appennino è sopravvissuta la genuina capacità di divertirsi con poco, la musica frizzante, quattro salti in compagnia e un’antica usanza di scambiarsi vigorosi colpi di anca durante il ballo.

La chiamano “quadriglia batticulo” e ha il DOP proprio in queste contrade. Bisogna esser capaci, ed io non mi sono avventurata a ballarla, ma dall’espressione dei ballerini debbo dire che si son divertiti enormemente. Carmine ha voluto anche la musica alla sua festa perché ben sa il valore terapeutico dell’organetto nelle classi popolari. Questo strumento che da sempre ha accompagnato pastori e agricoltori lungo la dorsale appenninica, corre il gran rischio di essere soppresso dall’avvento di ritmi propri di altre località quali pizziche, tarante e tammurriate. Bellissime espressioni anche queste ma che poco hanno dei nostri luoghi. Quante cose ci son da recuperare e valorizzare nelle nostre terre, la nostra musica, le nostre erbe, il potere terapeutico di entrambe, quanto riusciremo a fare noi incurabili sostenitori della tradizione, figli della Terra e fratelli degli uccelli, del sole, dell’acqua? Carmine Tobia, nei suoi novant’anni ha tenuto fede in tutto questo, pur avendo girato il mondo. Vive a contatto con la Terra, la Natura, le Erbe di cui conosce i segreti, i poteri e i sapori. Son cose che ha imparato un po’ ovunque facendo tesoro di ogni particolare. Ovunque è andato ha carpito i metodi popolari dell’automedicazione, costume adottato dai popoli più vicini alla natura e meno facoltosi. E’ da lui che scoprimmo ulteriori applicazioni dell’Iperico, già noto per le sue infinite proprietà.

Da lui apprendemmo il potere guaritore, cicatrizzante del Vilucchione selvatico chiamato Erba fagiolara per via della sua capacità di scalare ogni ostacolo fissando i cirri come i fagioli rampicanti. Grazie a Carmine la sezione di etnobotanica in “Flora d’Italia”, del nostro blog si è arricchita di interessanti notizie sulla medicina popolare nel mondo. Oggi che si rifugge la modernità per via delle catastrofi che ha causato, che si cerca nei rimedi naturali una alternativa alle devastanti medicine occidentali, la sapienza di Tobia è un tesoro da custodire e studiare perché da queste elementari conoscenze, un giorno, gli addetti ai lavori potranno giungere alla dimostrazione scientifica delle teorie empiriche. Si sperimentano tutti i tipi di medicine, dall’oriente agli antipodi ma non v’è interesse per la nostra tradizione fitoterapica che ha radici antichissime affondanti sull’una e l’altra sponda del Mediterraneo. Noi che proponiamo il timo al posto dell’antibiotico siamo fuori di testa e se invece di strofinare Lasonil sulle articolazioni doloranti mettiamo un olio di ruta peggio, siamo proprio da manicomio. A nessuno viene in mente che gli Egizi usavano il Timo nell’imbalsamazione e che la Ruta è definita panacea per ogni male pur avendo proprietà abortive e rubefacenti. Carmine ci evita lunghe cure di Lasix con un bel decotto di Lepidium e per l’intestino pigro consiglia la dolce Bismalva, poco invasiva e non dannosa, per gargarismi disinfettanti sale sciolto nell’aceto e per i giovani spesso affetti da acne nessuna costosissima cura, basta la linfa di Vitis vinifera raccolta a primavera e posta sul viso come impacco.

E non dimentichiamo le virtù curative dell’aglio, una soluzione per mille problemi; assunto al naturale o come tintura madre ha lo stesso potere, lo sapevano bene gli Egiziani e gli antichi Romani che lo elessero insieme alla cipolla alla gloria degli altari della dea Latona sul monte Cipollario. Carmine spiega che per prevenire l’alitosi da aglio basta mangiare del prezzemolo crudo naturalmente non tanto perché è velenoso. Insomma, la Natura ha pochi segreti per lui e il suo viso roseo e senza rughe, a novant’anni, è la dimostrazione che i suoi rimedi sono efficaci. Auguri ancora al nostro collaboratore e tanti giorni di salute e serenità all’insegna delle francescane abitudini.

Alla ricerca delle “mediatrici di guarigione” del Sannio di Ramona Viglione

imagesLa ricerca antropologica, sin dall’inizio del secolo scorso, si è interessata delle rappresentazioni del corpo e della malattia; da questi studi, la parola “medicina” non è più intesa come una realtà definita, unica e specifica ma, anzi una realtà plurima, grazie alla quale i gruppi umani organizzano le difese della salute e dell’equilibrio psichico. Le medicine al mondo sono molteplici, quindi anche la medicina occidentale, la c.d. biomedicina, è in realtà anch’essa una etno-medicina, in quanto appartenente a un contesto storico-culturale ben preciso, nonostante sia presente a livello mondiale.

 La medicina “moderna” ha costruito il proprio sapere tecnico-scientifico nei sistemi occidentali, contrapponendosi, e in un certo senso creando, le medicine “non ufficiali”; ha avuto ed ha una storia intrecciata ai processi egemonici e al controllo sociale e tutt’oggi, si scontra e si incontra, con le medicine “indigene”. Queste ultime comunque hanno saperi, eziologie, funzioni, pratiche e rappresentazioni del corpo e della malattia completamente differenti dai saperi biomedici, ma non per questo devono essere ridotte, da uno sguardo biologico, a semplici classificazioni o superstizioni. Dalla seconda metà del secolo scorso sino agli anni ottanta, gli studi scientifici hanno ribaltato il senso che aveva acquisito la medicina popolare: non più superstizione frutto di errori, ma come un insieme di rappresentazioni, saperi e pratiche sul corpo, la salute e la malattia, usate dalle “classi popolari”.

Ogni cultura sa come trasformare il disordine, in questo caso la malattia, in ordine: sono svariate le tecniche per far fronte alle sofferenze e ai malesseri, cosi come sono tanti gli operatori che si occupano della guarigione dei pazienti o dell’intero gruppo sociale. Allora perché non mettersi alla ricerca di queste voci custodi di mondi locali che danno senso e trovano conferma nell’immaginario folklorico in cui sono immerse? Proprio il lavoro antropologico permette di rispondere a tale domanda: indagando il significato delle credenze nelle specifiche culture, dei comportanti e le pratiche che permettono di dare senso alla malattia e di controllarla.

Ad esempio, durante il mio primo viaggio in Indonesia, ho potuto costatare proprio questo: m’interessai alle cure tradizionali sciamaniche, scoprendo di conseguenza la cosmovisone giavanese. Gli sciamani, nonostante le singole specificità dell’operare sui corpi malati o bisognosi d’aiuto, erano custodi di credenze locali giavanesi cui si legavano le rappresentazioni e le pratiche di guarigione. Ovviamente sono molte le società in cui le interpretazioni delle malattie fanno ricorso all’intervento dell’invisibile, degli spiriti o degli antenati.

Ciò di cui vorrò parlare, articolo dopo articolo, saranno le procedure terapeutiche delle guaritrici nell’aria del Sannio, le quali sono portatrici di un sapere incorporato e di discorsi specialistici che si radicano nella cultura locale e contemporaneamente nelle esperienze del vissuto individuale.  Affronterò quindi lo studio delle attuali figure di guaritori tradizionali nel Sannio anche per  sottolineare l’importanza della conoscenza di altri sistemi di cura che permettono di conoscere non solo altre “farmacologie”, ma anche di addentrarsi in cosmovisioni, ideali di salute e di malattia, completamente altri. Partendo dalle biografie delle guaritrici tradizionali, si arriveranno a conoscere i modi usati dalle stesse per far fronte all’evento della malattia e le reti di significato, con riferimenti storicamente profondi, cui si rifà l’immaginario sannita.

Poeti liguri della Grande Madre di franca molinaro

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Tra i versi e le storie per scoprire similitudini a molti chilometri di distanza

Con l’edizione 2015 del Concorso internazionale “Echi di poesia dialettale” il rapporto con la regione Liguria si è intensificato, tutte quattro le province son presenti in antologia, rappresentate da tre poeti e una giurata. Allargare gli orizzonti significa nuove esperienze ma, soprattutto, nuove opportunità di crescita, di maturazione interiore alla luce dei nuovi contatti. Si è sempre pensato ai Liguri come un popolo di navigatori, gente vagabonda capace di trovar porto in ogni insenatura. Anche nella storia della piana del Cubante a Calvi si ha notizia di una colonia di Liguri, definiti Corneliani (a causa del console Cornelio che supervisionò la loro deportazione) in questo caso però, vagabondi per imposizione. E così il Sud correla i Liguri al mare, a Cristofaro Colombo, al festival di San Remo e purtroppo, ultimamente, alle catastrofi naturali.

Non si pensa mai a un Ligure simile a un uomo del Sud, con radici profonde seppur in una striscia di terra tra Alpi e mare, a un contadino innamorato della sua terra ammantata di ulivi secolari.Inoltre, un dialetto incomprensibile, segna più a fondo il solco che ci separa. Grazie agli autori genovesi della Grande Madre abbiamo avuto modo di conoscere meglio questo magnifico territorio ed anche il carattere della sua gente. Prima fra tutti è la nostra giurata Andreina Solari da Leivi, la collina scivolata a valle coi suoi magnifici ulivi, a causa delle piogge torrenziali. La Solari è fine poetessa e scrittrice, amministratore presso il suo comune, è vincitrice di numerosi concorsi letterari, è stata vincitrice di “Echi di poesia dilalettale 2015” e, quest’anno, abbiamo trovato in lei un’ottima collaboratrice e giurata leale, precisa, infaticabile, attenta a valutare la poesia sotto ogni aspetto. Attraverso gli scritti di cui ci ha fatto dono, due memorie di guerra ed emigrazione, testi di poesia in genovese e in lingua, abbiamo scoperto che le radici dei Genovesi son più profonde di quelle dei loro ulivi, possono girare il mondo solcando mari e deserti ma, alla fine, il pensiero costante è uno, quella terra a forma di boomerang che racchiude mille meraviglie.
Lo stesso amore incondizionato ritroviamo in Vincenzo Bolia (Albenga), poeta segnalato con la sua “Fassce”. “ Prie campèi a üna a üna / e pussèi lì / da man d’artista, / quaxi pè in zeugu / che però u sà de pan. / Tèra scciancà / a-a colla, / tèra di mei veggi, / rubà a-a natüra, / cumme ti poi nu capîne ti?”. Vincenzo Bolia è giornalista sportivo. Collabora con Il Secolo XIX (dal 2002) ed è direttore del quotidiano online di informazione Liguria 2000 News (dal 2007). Ha pubblicato diversi libri di poesia in lingua e dialetto. La sua poesia epigrafica e incisiva, con pochi soffi di fiato racconta tutta la storia del suo popolo.

E poi c’è l’amore passionale e delicato di Paola Belloni (La Spezia), che intreccia versi come sospiri per il suo uomo e per la sua terra con “Ameme amure”. “Ameme amure au spuntà du su / quande i gabbiani i sgoan en tu ma / quande u so cantu u me razunza u cò / quande a rugiada a brilleà en tu su / e me sentiò a to vusce dentru / u scuri du sciume tra rufuli de ventu /
ameme quande a luna a rideà en tu cielu / quande a tera a invecceà en tu rumure di to passiè quande a sulitudine a inisieà a spaventame / quande u scuu u feà durmi a notte / ameme cusci cume sun anca en tu tempu cu và via / quande i me lerfi incruscean i tò / ameme amure en te ogni stagiun du me tempu / quande u me cò u sfuggeà e me memorie / ameme amure ameme turna”.

 

Paola Belloni è nata a Borghetto di Vara (SP), ama scrivere poesie, narrativa e tutto quello che le detta il cuore. Partecipa con successo a concorsi letterari ed è presente in diverse antologie.
Ma Liguria è anche ricerca antropologica e linguistica, così come la nostra giurata Solari fa col dialetto e le storie della povera gente, Michela Ramella ( Oneglia – Imperia) con la sua “Filastrocca pe impaâ u dialettu a prununsiâ” raccoglie una miriade di termini dismessi all’uso e ne fa una filastrocca da raccontare ai piccini ormai ignoranti di ogni termine “sorpassato”. “In te l’ortu de me mâi / tante béstie ti viâi / e ciù préstu ti impaeai: / u gh’è l’Agnéllu che a u se crédde d’ésse bèllu, / i-na Biscia ch’ in tu mézzu a l’èrba a striscia, / i-na Cagna ch’ a cure lèsta pa campagna ; / fina in Dragu! Ti ghe l’hai scurdau l’annu passau / in c’u Elefante ch’ u l’è delongu ciù pesante, / i mìa i-na Farfalla uduâ i-na sciua gialla; / zöga a Gatta in cu i mignén e a se caccia dréntu au fèn, / in cu l’Acca de agnimai u nu ghe né / e in cu a I? I te ne vèn in mènte, a ti?/ A Lévre tutta giânca de sautâ a nu se stânca / mentre a Musca a va in giandézzu / e a se pusa in s’in Nasellu; / l’Oca, ch’a se mangia a so laitüga, / a va a scure in Picéttu c’u l’ha füga / e u ariva àutu finu au sé. / Aiscì i-na Quàiua a se fa vé / e a fa in müggiu de casén / pe scâpa da stu Ratén / – Brütta Scìmia! – / u ghe sia aragiau u Turlu / – ti ti a cianti de criâ pe tüttu u giurnu? / A vureeva ésse in Unbrigu / e vive suttetèra / ciütosto che stâ insemme in cu ti / che ti sei pézzu d’i-na Vìpea, pe mi!- / Ti sérchi a Zebbra? A l’è l’ùrtima, au so, / ma in te l’ortu, a nu ghe l’ho!” – Michela Ramella è Laureata in Lettere con una gran passione per la lettura, comincia a dedicarsi alla scrittura in tutte le sue forme partecipando a numerosi concorsi letterari in cui si classifica tra i vincitori. Il suo è un lavoro pregevole che permette, attraverso la filastrocca, di rispolverare un idioma sconosciuto alle nuove generazioni avvezze al linguaggio multimediale, imbastardito da lingue straniere e termini monchi. La filastrocca è una forma letteraria legata al mondo dell’infanzia e della cultura popolare. Il suo ritmo è rapido e cadenzato, la rima è un ottimo espediente per ricordare agevolmente nomi ed elenchi di nomi.
Così, grazie ai poeti liguri e al nostro concorso, abbiamo imparato a conoscere una regione bellissima che nulla ha da invidiare a nessun’altra né dal punto di vista storico-culturale né paesaggistico, con un patrimonio dialettale tra i più insoliti d’Italia. I Liguri infatti, parlano un linguaggio che li contraddistingue da tutti, formando un enclave linguistico curiosamente “serrato” tra le Alpi e il mare ma, proprio quest’ultimo, barriera naturale, paradossalmente è stato il maggior responsabile delle continue contaminazioni che hanno originato ciò che oggi conosciamo come dialetto ligure.

 

Cerco il mi nome, Francesco Memoli di franca molinaro

http://www.ottopagine.it/av/cultura/35524/inseguire-un-identita-cerco-il-mio-nome-il-lavoro-di-memoli.shtml

Qualche tempo fa ho avuto il piacere di leggere un racconto propostomi da uno dei poeti dialettali della Grande Madre, Liberatore Francesco Memoli di copVicenza, per gli amici Tiruccio, Tiro, Toruccio e via dicendo. L’autore, data la sua grande passione per il teatro, ne voleva fare una commedia semiseria. Giocando sempre sul filo dell’ironia gli suggerii di scrivere un racconto lungo in cui narrasse la sua strana avventura di uomo in cerca di una identità in un paese natio dall’identità equivoca. In verità, in questo testo, cui ebbi poi l’onore di fare la presentazione, lessi uno spaccato di storia della nostra povera terra e dell’ancor più povera gente che l’ha abitata. Inseguendo la sua identità, Tiruccio, come affettuosamente mi piace chiamarlo, rappresenta il figlio non paco di un territorio spopolato da continui flussi migratori dettati dall’assenza di pane e soddisfazioni. Fanciullo dell’immediato dopoguerra, risentì del nervosismo che il padre aveva riportato a casa alla fine della seconda guerra mondiale.

 

Anni duri di ricostruzione e spopolamento, di terra avara e matrigna, anni in cui i signori dominavano ancora la scena politica nei paesini dell’entroterra, ma anche anni di speranza, di nuovi orizzonti mai immaginati, di nuove opportunità oltre le anguste cime di Ariano e di Trevico. Era questo lo scenario storico in cui il giovanetto cresceva e comprendeva che non era la zappa il suo futuro, troppo pesante per il suo gracile fisico, troppo riduttiva per la sua mente sognatrice e creatrice. Così, mosso dal desiderio di migliorarsi, seguì gli studi possibili mentre cercava di mettere in tasca qualche spicciolo per il sostentamento. Anche lui inseguì il sogno americano di Hollywood e gli fu pure concessa una opportunità ma il padre, ovvero la povertà, spezzò sul nascere ogni sogno di successo. Anzi, fu l’occasione per infierire su di lui con una punizione esemplare, decise di domarlo attraverso la disciplina militare: fece richiesta per lui di entrare nell’arma dei carabinieri.

 

Per Tiruccio fu una punizione perché aveva sempre il suo sogno in tasca e le tentava tutte per poterlo realizzare. Svolse ogni genere di mestiere, in ogni dove, migliorandosi sempre ma mai era soddisfatto. Intanto, parallelo al sogno, inseguiva la sua identità che si dissolveva ogni qualvolta avvertiva la variazione delle note che componevano il suo nome. Il suo nome, diverso per ogni persona, in ogni situazione, quasi come la sua Pulcherino, più volte storpiata per lo scherno dei paesi limitrofi, quel “Villanova” non è stato mai accettato più di tanto, ancora oggi qualcuno si diverte a chiamarla “Porcaria”. Questa condizione di squilibrio riscontrata nella sua terra e nella propria onomastica hanno condotto l’autore in mille luoghi, per lavoro ma anche per irrequietezza, sempre in cerca di qualcosa in più da sperimentare, da raggiungere, da realizzare.

 

Il racconto di Tiruccio riporta ai tanti vissuti di giovani partiti contro voglia, ma per necessità di sfuggire alla miseria di una terra che non aveva pane per troppi figli. Riporta alla mente un altro grande conterraneo, Fedele Giorgio, lo stesso malumore nel descrivere “Le stellette che sopportammo”, la stessa fuga forzata dalla sua sant’Andrea, da una terra che non dimenticherà mai sebbene amato e benvoluto in quel di Teramo. Così Tiruccio sopportò le angherie dei superiori ma abbraccio fraternamente le nuove amicizie, colleghi, ragazze conosciute nei nuovi paesi toccati e infine una compagna con cui dividere i suoi giorni. Oggi la storia di Tiruccio è diventata un bel testo in una elegante veste tipografica, è stato acquistato dalla Regione Veneto  ed è entrato nelle case dei fratelli del Nord. Grazie alla narrazione di Tiruccio, anche gli Italiani d’oltre Po’ potranno conoscere i sacrifici e insieme la tenacia della gente irpina.

“Echi di poesia dialettale 2015” di Biagio Fichera

11709941_964389246957796_5586787274767273503_oPochi giorni fa ho ricevuto la raccolta di poesie di quasi tutti i dialetti  d’Italia,” Echi di poesia dialettale 2015” curata da Franca Molinaro; all’interno vi figurano 112 autori con opere scritte nelle diverse espressioni (veramente interessante). Mi pregio di avere  all’interno una mia opera in siciliano. Il dialetto e le tradizioni popolari sono la linfa del nostro passato, la “storia” che tutti noi non dobbiamo dimenticare  e che i giovani di oggi, debbono conoscere, “conoscere” le radici e l’evoluzione.  I dialetti sono quelli che uniscono la gente, ed è per questo che dobbiamo cercare di recuperarli il più possibile. E Franca Molinaro, attraverso la sua pubblicazione, ha reso possibile una operazione meritevole, quella di proporci la lettura e la conoscenza delle nostre radici locali, come dire: che dalla terra, dove i nostri avi hanno sparso il seme, spuntano le radici e dalle “radici” si forma l’albero, quell’ “albero” che, se coltivato, ci dà dei bei frutti; ma bisogna curarlo, con amore e dedizione. Ecco cosa sono i  nostri dialetti, sono alberi che crescono da un terreno fertile, quel “terreno” che non dobbiamo  mai abbandonare in modo da produrre e regalare i germogli alle nuove generazioni che dovranno, a suo tempo, spargerli e non farli bruciare dal tempo dell’evoluzione. Questa pubblicazione mi sarebbe servita negli anni ’70, quando su Rai 1 per oltre cinque anni ho collaborato ad una trasmissione sulle tradizioni popolari, oggi, anche quella  è stata cancellata, ma noi, attraverso il nostro sapere, dobbiamo trasferire quelle pagine che ci hanno insegnato a vivere  e che la nuova generazione  dovrà conoscere, anche attraverso i banchi della scuola.

Biagio Fichera

Giornate P’Artigianali e Libri a Palazzo, franca molinaro

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DSCN1579Un giorno e due occasioni speciali tra natura, cultura, arte e sociale

Capita poche volte di esser totalmente soddisfatti della giornata trascorsa, capita pochissime volte di ritrovarsi tra persone vicinissime alla natura e capaci di comprendere quella dell’uomo e le sue miserie. A me è successo domenica sei settembre, a partire dalla mattina con gli amici che ruotano intorno alle attività della libreria Masone, fino a sera a Trevico con don Aniello Manganiello, il sacerdote oltre le righe.
Ma andiamo per ordine, Giornate P’artigianali le chiamano in cui hanno inventato il soldo corto così definito da una delle partecipanti alla manifestazione, Marianeve Grieco, dottoressa in Biotecnologia, studentessa di fisioterapia ma, a tempo libero, creatrice di gioielli di pietra e legno: “Ne avevo sentito parlare…mi erano passati per mano..li avevo addirittura usati, ma come segnalibro… però non li avevo ancora usati coscientemente tenendo conto del valore che hanno…in una “giornata P’ artigianale” , oggi, oltre a conoscere una di quelle realtà che ti tengono ancora viva la speranza di resistere all’ omologazione e allo spietato gioco delle multinazionali, ho scoperto un nuovo modo di fare economia… dal sapore più solidale…così ora, con questo premio che porto a casa, inizio a scorrere la lista degli esercenti che aderiscono…e chissà….forse in queste sere andremo a comprare il prossimo libro, a festeggiare il prossimo compleanno, a bere un aperitivo, a scegliere la tisana bio o la crema mani per l’ inverno che si avvicina…insomma..ci sono modi e modi per far girare l’ economia e questo mi sembra un bel modo…”.

 

In queste considerazioni rubate a fecebook c’è il riassunto di tutte le attività che mettono in contatto diretto, grazie al potere catalizzatore di Alessio, la società dei consumatori con quella dei produttori. Accorciare i chilometri significa abbattere i prezzi e garantire la qualità. Il territorio produce per il territorio, il consumatore sa cosa mangia o cosa utilizza e se non soddisfatto può reclamare al responsabile o congratularsi e condividere il piacere. Non è solo l’agricoltura ad esser chiamata in causa, sono le attività manuali che finalmente hanno riscatto e sono valorizzate quanto quelle intellettuali. Saper usare le mani, oggi che tutto è pronto, usa e getta, recuperare, riutilizzare, risparmiare, adattarsi, è cosa fuori dal comune, riscoprire queste qualità significa dare un taglio alla globalizzazione, alla serie, cibo compreso, e sentire le differenze, il gusto, la bellezza. Così in tali giornate puoi scoprire le erbe selvatiche che la natura offre all’occorrenza ma puoi incontrare anche tanti piccoli artigiani-artisti dall’animo sensibilissimo e dalle creazioni originalissime, dai gioielli con pietre naturali agli strumenti musicali mai visti, realizzati in terracotta da un giovane inventore. “E’ proprio vero che chi sceglie di essere artigiano creativo è portatore di cambiamento nel mondo, agevolando un’economia relazionale, quella capace di felicità diffusa che si coltiva presso le Giornate P’Artigianali”, commenta Alessio Masone.

 

Puoi trovare prodotti di nicchia degli ultimi contadini della storia o di brave massaie scrupolose, ma anche pittori che stanno seguendo studi sperimentali, fumettisti, marionette e giocolieri, giochi antichi, ortaggi coreograficamente esposti, pubblicazioni, musicisti e ballerine, canti popolari o musiche ricercate e ascoltate da pochi esperti. Puoi anche semplicemente sdraiarti sull’erba e lasciare che il sole ceda il passo all’ombra nel suo naturale trascorrere, riequilibrando i meridiani energetici e ristabilendo quelle connessioni ingorgate in punti dolenti. Benevento non è una metropoli eppure fa sentire il suo male agli abitanti, il male della città è subdolo e incomprensibile, i cittadini non sanno perché sono di malumore e quando trascorrono un giorno a contatto con la terra ne avvertono inconsapevolmente i benefici. Si vede sui visi distesi, sorridenti, compiaciuti, se poi a deliziare la giornata subentra la buona cucina di un amico che si presta all’ospitalità con i prodotti della sua azienda, la goduria è completa.

E dopo il piacere della campagna, di corsa a Trevico per continuare a parlare di contadini e loro abitudini, proverbi, modi di dire. La serie di manifestazioni organizzate a palazzo Scola è stata ideata e curata da Antonio Bianco, ha ospitato diversi autori locali e nazionali riscuotendo notevole successo. Io ho avuto l’onore di condividere la scrivania con don Aniello Manganiello il prete di Scambia che porta la buona novella per riscattare la sua gente. La sua energia contagiosa, il suo pensiero pienamente condivisibile ha suscitato attenzione e dibattito col pubblico.

Il bene è contagioso dice don Aniello, così come il male, allora bisogna far in modo che sia il bene a prevalere onde evitare una epidemia di male che già infesta abbastanza il pianeta. Con lui si è discusso di omologazione culturale a proposito del nostro concorso dialettale, si è parlato di giornalismo pervertito asservito alla richiesta della società avida di violenza e di malumore. E la cosa peggiore è che fa audience tutto ciò che è brutto, violento, triste, e su questo ci marciano i produttori cinematografici, le case editrici di grido, ci speculano, fanno denaro a discapito della serenità del pubblico. I mezzi di comunicazione sono cosa micidiale, son capaci di distorcere l’angolo di veduta, di trasformare i sentimenti delle persone e guidare le loro azioni. Inoltre, son convinta, chi opera il male è soddisfatto proporzionalmente alla sua notorietà quindi, più gli si dà spago più si alimenta il suo potenziale negativo. Sembra un fumetto giapponese eppure è così, il male si nutre di male e cresce in modo esponenziale perché contagia e distrugge. Lo stesso fa il bene ma di solito soccombe perché è più difficile da attuare. Ricordando le parole di Gesù, il prete di Scambia ha sottolineato che la carità non si fa col centesimo e la coscienza pulita, bisogna indagare e risanare le cose dall’origine, impegno molto più serio e complesso. Ci ha lasciati con sorrisi e abbracci, con una simpatia straripante e la promessa di tornare, noi faremo in modo che accada perché abbiamo bisogno di pensiero positivo espresso con vigore e carisma.

 

Genista anxantica Ten di franca molinaro

http://www.ottopagine.it/av/cultura/33923/la-ginestrella-del-gussone-botanico-di-villamaina.shtml

DSCN2170Sullo strapiombo che si affaccia sul lago di fango della Mefite di Rocca San Felice, oltre la fascia costituita da una graminacea tipica dei termosuoli (Agrostis monteluccii), cresce con molta sofferenza Genista anxantica Ten..
Ma cos’è la Mefite? Virgilio aveva ragione: è una via che conduce negli inferi, una frattura della crosta terrestre attraverso la quale si giunge nel cuore della Terra. Da questa faglia risalgono con violenza i gas sotterranei realizzando nel laghetto una sorta di effetto idromassaggio. Quando la terra si dissecca completamente e l’acqua del ruscello scompare, dal cratere si ode il rumore infernale di un potente soffione e l’ambiente diventa ancor più inquietante. Respirare i gas è pericoloso perché l’individuo non comprende quando è il momento di mettersi in salvo. Tutta l’area è pericolosa in quanto le emissioni non provengono solo dal cratere principale, io stessa mi son trovata chinata a fotografare un “fosso” brullo, accorgendomi solo in un secondo momento che si trattava di un cratere attivo.

In verità, una cagnetta del luogo che mi accompagna ad ogni ritorno, mentre scendevo nel letto del torrente, mi abbandonò e tornò sui suoi passi lungo lo strapiombo, aveva avvertito il pericolo perché i gas venefici tendono a depositarsi in prossimità del suolo. L’amore per questo luogo è cresciuto ulteriormente in me quando, studiando la flora del territorio, ho fatto una scoperta molto importante dal punto di vista botanico: la ginestra che oggi è definita sinonimo di Genista tinctoria, (e di questo è convinto gran parte del mondo accademico) è erroneamente giacente in sinonimia con questa specie con cui non condivide né habitus né caratteri sessuali o esigenze.
La Ginestra dell’Ansanto prese il nome dall’illustre botanico Michele Tenore, egli la descrisse nel suo trattato “Flora napolitana” nel 1821come Genista amsanctica spiegando che “Da una ceppaia legnosa nascono molti fusti che compongono un bel cespuglio alto circa due piedi; i rami sono angolati, si spandono in giro, e sono per la maggior parte diffusi e divaricati (…)”.

Nello stesso trattato il botanico parla di un’altra entità, Genista tinctoria L., ginestra comune in Alta Irpinia soprattutto nei boschi prossimi di Torella e dei Monti Picentini. Ma a scoprire la presenza della ginestra pare sia stato Giovanni Gussone di Villamaina che comunicò al Tenore le informazioni sulle caratteristiche morfologiche e consegnò dei campioni conservati presso l’Erbario di Napoli. Il maestro poi, le utilizzò nella sua “Flora napoletana” in cui compare per la prima volta col nome completo di Genista anxantica Ten.
Una piantina venne più tardi inviata al Royal botanic garden di Kew (GB) e in coltivazione si dimostrò adatta, secondo quanto riportato in seguito dagli autori Bean e Taylor nelle varie edizioni di “Trees e schrubs hardy in G.B.” alle condizioni spesso estreme tipiche del giardino roccioso.
Passarono degli anni, un secolo, e Genista anxantica Ten. fu citata ancora da Adriano Fiori, botanico modenese a cavallo dell’Ottocento e del Novecento, nella sua “Flora italiana”, come sottospecie di Genista tinctoria.
In anni più recenti, in seguito ad una revisione del genere Genista, si arrivò ad una semplificazione (riportata sia da Zangheri che da Pignatti), sinonimizzandola a Genista tinctoria ssp. Tinctoria.
Si optò per questa soluzione altamente pericolosa per la sopravvivenza della nostra ginestra ma, questo forse perché, dopo il Gussone, mai nessun esperto ha più osservato da vicino la pianta.
La nostra ginestrella, dunque, si ritrovò senza certificato anagrafico, improvvisamente definita sinonimo della comunissima Genista tinctoria. Scomparsa dai database come specie, oggi esiste solo fisicamente con gran rischio di estinzione.
Anni fa, scienziati irlandesi si occuparono della flora del luogo, in quel caso la loro attenzione era volta verso una graminacea che identificarono come Agrostis canina. Questa rara graminacea è l’unica presente in queste condizioni, è la stessa che vive nel sito della Malvizza a Montecalvo Irpino e in altre stazioni dell’Emilia. Ma perché non osservarono la ginestra? Dall’articolo comparso sul giornale “New Phytologist” si evince che gli Irlandesi erano interessati alla reazione delle piante alla salinità del suolo ma non viene citata affatto la ginestra. Perché non si interessarono a questa pianta legnosa che vive dove nemmeno la monteluccii arriva, così prossima al cratere, l’ultima vita vegetale e poi il nulla della terra grigia, salata, e i miasmi pestiferi del bulicame?
Attualmente, in un articolo scientifico “Phytologist, An inventory of the names of vascular plants endemic to Italy, their loci classici and types”, pubblicato nel 2015 da Magnolia Press, e redatto dai migliori nomi delle facoltà di botanica in Italia, manca il nome di Genista anxantica Ten pur trattando 1400 piante endemiche di tutta la penisola e delle isole.
Personalmente convinta dell’unicità della ginestrella ho iniziato a studiarla in ogni momento vegetativo unitamente alla flora circostante, tornando periodicamente in loco. Son sempre più convinta che le due ginestre sono assolutamente diverse nell’habitus, nelle esigenze e soprattutto nella capacità di resistenza all’acidità dell’aria e alla salinità del suolo. L’una è frutice l’altra suffrutice, l’una glabra l’altra tomentosa, l’una prostrata l’altra eretta, ecc. Gran fortuna ho avuto nel suscitare l’attenzione di alcuni dei migliori botanici nazionali e di due associazioni  varesotto, “Amici del Bosco”, ed “ECO ’90”, che con una sorta di museo-giardino botanico, cercano di salvare le piante in via di estinzione. Consultandoli, ho capito che l’impresa è ardua, occorre denaro per gli esami di laboratorio e competenze internazionali che possano attestare l’unicità della pianta quindi riabilitarla al rango di “Specie”.
Queste difficoltà mortificano e potrebbero non condurre ai risultati sperati, se non è riabilitata non si può difendere, non si può parlare di una entità che non esiste, che non ha carta di identità, si può però sensibilizzare l’opinione pubblica locale diffondendo conoscenza. Se Genista anxantica sarà riconosciuta almeno localmente avrà più possibilità di esser protetta. Le amministrazioni, il popolo, gli Irpini devono essere messi al corrente che hanno un pugno di arbusti,  presenti solo in Irpinia, e solo nella valle dell’Ansanto, un fenomeno di endemismo unico in Italia, ristrettissimo al cratere della Mefite. Una carta vincente per le piccole comunità che ormai si aggrappano agli specchi per sopravvivere, un’attrattiva di carattere internazionale.
Per noi della Grande Madre, invece, sarebbe un successo differente, avremo salvato dall’estinzione  una creatura magnifica che ha il coraggio di vivere dove nessun altro è capace e questo aprirebbe un altro capitolo di studio.

Mariano Bocchino “Calvi – Storia – Persone – Leggende” di franca molinaro

DSCN1576Nei nostri paesini dove la cultura ha valore solo per gli addetti  e non fa audience né spettacolo, dove c’è folla ma solo per la sagra dello spezzatino, investire nel settore significa aver fatto una scelta di percorso amministrativo. Significa anche aver coraggio perché, nelle piccole realtà, c’è sempre una nota discordante che rivendica  una strada da completare, la rete idrica da rivedere, un lampione che non funziona, a pochissimi interessa da dove viene e cosa c’è stato prima della sua insignificante presenza. Queste considerazioni mi sorgevano spontanee stasera, alla presentazione del nuovo testo di Mariano Bocchino: “Calvi, Storia – Persone – Leggende”, Perversi Editore, 2015. Calvi, sala consiliare, col sindaco Armando Rocco e l’assessore Vincenzo Argenio, pochi Calvesi, forse i soliti habitué. L’amministrazione ha commissionato la ricerca storica al dottor Bocchini, il caro “don Mariano”, l’amico di sempre, non un novellino in fatto storico ma uno studioso con alle spalle altri significativi lavori. Don Mariano ha messo a disposizione il suo tempo e la sua competenza per realizzare gratuitamente quest’opera di fondamentale importanza per il paese. I presenti hanno ricevuto in dono questo tesoro, 144 pagine di storia dall’inizio del secondo millennio ai giorni nostri con una moltitudine di personaggi nati, passati o vissuti sul territorio, personaggi al confronto dei quali noi, oggi, siamo insignificanti e inutili. Date e citazioni, note, una ricchissima bibliografia, sottolineano la mole di studio che si nasconde dietro una pubblicazione storica come questa. In verità un primo testo sulla storia di Calvi fu già stampato nel 1983 per interessamento del Comune e della Cassa Rurale ed Artigiana del Sannio Calvi, anche allora con l’impegno del dottor Bocchini in collaborazione con autori vari: “Calvi nella sua storia e nelle sue leggende”. In quel caso, sebbene il testo fosse ben corredato della sezione storica, prevalse, per dovizia di notizie e particolari, la sezione antropologica curata anche con testimonianze di primo grado. Questo secondo libro sulla storia di Calvi è un lavoro più scientifico con riferimenti a documenti d’archivio e ampia consultazione degli storici, dal Meomartini agli studiosi del circondario come i grandi Montefuscani Palmerino Savoia e l’attuale padre Salvatore. Non manca l’analisi gli edifici storici di carattere civile o religioso. Un lungo capitolo è dedicato alla Via Appia e Ponte Appiano, indubbiamente la più antica struttura civile intorno alla quale si possono ricostruire circa duemila anni di storia. Indispensabili i riferimenti al Johannowsky che ha trascorso molto tempo sul nostro territorio a studiare la civiltà sannitica e romana. Indubbiamente il Cubante con la sua Regina Viarum è luogo di notevolissimo interesse; grazie al fiume Calore un tempo navigabile per chiatte fino a Ponte Appiano, questo lembo di territorio calvese si è visto calpestato da genti di ogni dove in rotta verso Roma o verso Brindisi, insieme a carichi di mercanzie che arrivavano nell’entroterra dalla costa Adriatica. Quando si parla di Calvi, dunque, è opportuno pensare a tutto il territorio comunale e ricordare che le radici più profonde, probabilmente, si trovano lungo la valle del Calore, naturale sito di insediamenti preistorici.
Uno studio particolareggiato è dedicato alla straordinaria figura di Federico II; definito pietra di scandalo da Innocenzo IV e soggetto a continue scomuniche, è arrivato alla conoscenza dei Calvesi miseramente abbinato a figure religiose. La breve ma precisa biografia del Bocchini rende onore al vero e riabilita la figura di un uomo unico al mondo.
Questo secondo libro su Calvi, tesoro da tenere sulla mensola del caminetto per essere consultato in ogni occasione, potrebbe essere lo spunto o, se volete, il punto di partenza per un nuovo cammino a ritroso verso le origini percorrendo i valloni o i sentieri che portano al fiume, elemento fondamentale nelle antiche comunità. Ma bisogna immaginare un lavoro corale e, piuttosto che piangere le assenze e rammaricarsi della poca sensibilità culturale dei nostri paesini, suggerirei di guardare oltre i confini comunali; a Ponte Rotto confluiscono lembi di diversi comuni: Calvi, Venticano, Mirabella, Apice. Sarebbe opportuno pensare comunitariamente, con i nostri vicini, e capire cosa si può fare realmente per i nostri monumenti storici. E’ vergognoso che un ponte, con un sistema di molitura unico nei paraggi, con una gettata smisurata e luci altissime, con la sua schiena d’asino ormai indecifrabile, debba esser lasciato abbandonato a se stesso, senza una legenda, senza un viale d’accesso percorribile, incorniciato da colture di tabacco, sconosciuto ai più. Altrove avrebbero sfruttato una sola pietra per creare turismo, qui siamo in pochi ad accompagnare visitatori interessati col rischio di esser scambiati per clandestini.  Che questo nuovo testo dunque, seppur non riesca a svegliare il torpore della maggioranza, possa essere opportunità di crescita, curriculum di un piccolo centro che nulla ha da invidiare ai vicini ma che con quest’ultimi deve far rete per poter sopravvivere.