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Poeti della Grande Madre: Libero Frascione di franca molinaro

imgres.jpgOgni paese ha il proprio cantastorie, il poeta che fa della sua terra la propria amante e la canta con tutti i risvolti dell’anima, con tutti i sentimenti che il suo cuore è capace di provare. Se ne ritrovano in ogni borgo antico, sono spiriti luminosi che rischiarano i cieli a volte lividi di questa terra martoriata e dannata che pochi comprendono e molti sfruttano. I più fanno grandi progetti, soprattutto in campagna elettorale, non perché hanno a cuore il territorio piuttosto  la loro sorte e un eventuale vitalizio sostanzioso dopo pochi anni di politica. Quando si vota se le inventano tutte, rivalutazione e riscoperta a destra e a sinistra, poi tutto finisce in una tornata elettorale. I pochi invece, lavorano tutto l’anno, in silenzio e senza vantarsene, senza incentivi, rimettendoci sovente di tasca, eppure lo fanno con tanto amore, senza lagnarsene. Sono i tanti innamorati non corrisposti, poeti e ricercatori, uomini che si adoperano nel sociale per il bene comune, pubblica assistenza o volontari della cultura. Non ve ne son molti, qualcuno per borgo; impiegano il loro tempo per il proprio paese e per la propria gente, non chiedono nulla in cambio, non inseguono la gloria e spesso sono schivi, uomini di poche parole e molti fatti. Il più delle volte non sono neanche amati in loco perché sono scomodi, rivelano le verità nude e crude senza mezzi termini, senza ipocrisie, proseguendo sempre austeri per la loro strada coscienti che è l’unica pulita, la sola più confacente al buono e al giusto. Persone così danno lustro al paese e sono apprezzate, ma fuori, nessuno è profeta in patria e chi opera il giusto meno che mai. Noi della Grande Madre abbiamo la fortuna di incontrarli attraverso il nostro lavoro e siamo lieti di ritrovarli tra le schiere a noi care o tra le pagine annuali di “Echi di poesia dialettale”. Tra i “Poeti della Grande Madre” molti sono ricercatori, ma hanno anche fatto del verso un apostolato come il siciliano Biagio Fichera. Altri sono prima di tutto dei ricercatori, qualcuno di orizzonte internazionale come l’antropologa lombarda Antonia Bertocchi, oppure sono pilastri della ricerca locale come il pugliese Gerardo Giuseppe Strippoli,  il calabrese Angelo Canino, i campani Agostina Spagnuolo, Carmelo Arcaro, Silvio Falato, Giuseppe Iacoviello, Antonio Cona, Irene Girolama, Alfonso Nannariello, Aniello Russo, Libero Frascione, il pugliese Attilio Littera, il siciliano Salvatore Agueci, il lucano Gerardo Nardozza, il marchigiano Roberto Ricci, la camusina Marina Moscardi, il molisano Tiberio La Rocca. In questi giorni sto completando la lettura dei testi di Libero Frascione di Bisaccia. Negli anni di impegno a favore del dialetto, abbiamo avuto l’onore di incontrare tre poeti dialettali di Bisaccia: Gianfranco Imperiale il poeta dal verso amareggiato, il giovanissimo Antonio Frascione, personaggio intrepido che sa fare della sua vita un cocktail ben equilibrato di tradizione, ricerca, modernità e successo, e Libero Frascione, il professore in pensione che sta dedicando il suo tempo al recupero della tradizione bisaccese. Libero ha pubblicato diverse raccolte dialettali dividendosi tra dizionario, racconti, poesia. Alcuni sono cunti antichi, altri più recenti sono racconti di paese, storie ironiche di semplicità schietta, sono raccolti nel testo “Cunde e ccande vesazzare”. Il libro è corredato da una bella raccolta di canti bisaccesi, antica poesia popolare tramandata vocalmente e riadattata alla circostanza. “A labona re Dio – fede e speranza da contadini” è una raccolta in cui è analizzato tutto il territorio bisaccese, i suoi usi e costumi, i cibi con numerose ricette, i locali e gli utensili, i giochi e le malattie. È un vero testo di antropologia così come lo desiderano i maestri, lineare e preciso, una narrazione corretta con esatta descrizione di ogni particolare, evince però una gran sensibilità verso il mondo contadino, un universo di povertà e valori che pochi hanno la capacità di esplorare a fondo. Il professore Libero, in verità, viene da una famiglia patriarcale contadina nella quale ha imparato ad apprendere il bello e il brutto di questa società arcaica. Di grande impegno è il “Dizionario del dialetto di Bisaccia con proverbi e modi di dire” correlato in coda da un’appendice dove sono riportati i “strangenome”, ovvero i soprannomi di Bisaccia. Tutti i testi di Libero sono arricchiti da belle illustrazioni a china o matita a firma dell’autore che si diletta anche di scultura. Un artista, dunque, il nostro Frascione, che ha avuto modo di distinguersi nell’annuale Raduno dei poeti dialettali di Montemarano per la sua simpatia, allegria, autoironia. La sua capacità di declamazione valorizza la sua poesia fatta di rime serrate dove il dialetto bisaccese rafforza le sue assonanze. L’esperienza editoriale del professore va oltre le pubblicazioni, infatti, in passato è stato uno degli autori della rivista “La Torre”, organo del Circolo cittadino distribuito gratuitamente anche ai Bisaccesi emigrati e sostenuto con l’aiuto dei lettori. In tale rivista il professore si occupava, naturalmente, di dialetto e tradizioni bisaccesi. Il nome di Libero Frascione non compare in Wikipedia con altri personaggi famosi, ma la gloria non è per lui un cruccio, egli sa di aver operato con amore e diligenza per la sua gente, saranno i posteri a rendergli giustizia, noi iniziamo già da ora.

 

Maggio Salesiano: La Grande Madre a Firenze per la VII “Mostra d’Arte, Forma e Colore”

DSC_0019.JPGLa “Mostra d’Arte, Forma e Colore ,  organizzata da Adriana D’Argenio  e  Rino Radassao, è giunta quest’anno alla settima edizione. Quest’anno il titolo è  “Il nome di Dio è Misericordia”. L’inaugurazione si è tenuta mercoledì 18 maggio nel Salone Don Bosco (FI) con la partecipazione di Mons. Timothy  Verdon Direttore dell’Ufficio di Arte Sacra dell’Arcidiocesi di Firenze, Don Adriano Bregolin Direttore dell’Opera Salesiana di Firenze, Don Adriano Moro Parroco della Parrocchia  Sacra Famiglia, Eugenio Giani Presidente del Consiglio Regionale della Toscana, Michele Pierguidi  Presidente del Consiglio di Quartiere 2, Federico Napoli Critico d’Arte. Il coordinamento è stato affidato a Rino Radassao che ha condotto la serata in modo impeccabile lasciando scorrere il tutto in un piacevole clima di amicizia.  Ben trenta gli artisti che han partecipato con le loro opere di pittura, scultura, ceramica, fotografia.
Mons. Timothy ha detto “Come società abbiamo imparato a diffidare della bellezza perché associata al lucro. Abbiamo desiderio di una bellezza più profonda, diversa dal bello estetico e vuoto proposto dalla televisione. Ci occorre il bello che si genera quando, nella profondità della nostra condizione umana, incontriamo Dio”. Parole profonde e vere, perché questo gruppo di artisti che ogni anno si ritrova, grazie al coordinamento di  Rino Radassao, sente forte il senso del divino e del sacro; lo si percepiva dall’atmosfera distesa e affettuosa che regnava nella sala, nessuna arroganza o ipocrisia, solo un piacevole stare insieme scambiandosi esperienze e considerazioni, atteggiamento insolito per gli artisti quasi sempre gonfi del proprio amor proprio.
Michele Pierguidi ha sottolineato l’importanza della presenza Salesiana nel quartiere fiorentino, punto di riferimento per tutti, luogo dei valori morali e spirituali, giardino fertile dove si possono allevare senza tema le nuove generazioni. Federico Napoli ha spiegato che la mostra rientra, nel complesso, nell’arte figurativa oggettiva, linguaggio indispensabile per comunicare facilmente il tema della misericordia. Straordinario, come sempre, Eugenio Giani che ha evidenziato la necessità di ritrovare il senso del sacro nell’arte moderna. Il suo dotto intervento, ricco di storia dell’arte, filosofia, e aneddoti, è stato un bagno a ritroso nella tradizione fiorentina. Egli ha voluto sottolineare l’importanza di “Tabula Picta”, l’Associazione di artiste che hanno riproposto , ormai da  venti anni , il recupero dell’arte sacra attraverso lo studio iconografico, presenti  a tutte le edizioni della Mostra con numerose opere. L’espressione artistica attuale non può prescindere dall’antica tecnica pittorica della tempera ad uovo indissolubilmente legata all’arte fiorentina e soprattutto al mondo del sacro che da sempre ha ispirato ogni forma artistica. La presenza di Tabula Picta è un valore aggiunto alla mostra per la bellezza delle opere e per l’istituzione che ormai l’associazione rappresenta a Firenze.
La Grande Madre ha partecipato con gli artisti: Emilio De Roma, Alessandro Battaglino e chi scrive, con opere di pittura e scultura ben apprezzate dal pubblico.  L’esperienza è stata positiva come sempre, abbiamo ritrovato le amicizie lasciate, l’affetto e la stima degli organizzatori, un’ospitalità impeccabile e una guida magnifica per visitare i monumenti più belli. Occorre una vita per visitare la capitale dell’arte ma noi abbiamo fatto il pieno e in pochi giorni siamo passati per vicoli e musei, chiese e palazzi;  grazie all’entusiasmo di Adriana abbiamo toccato con mano il Rinascimento italiano, ne abbiamo colto l’essenza e la storia non scritta. Emozioni uniche ci hanno travolto: ammirando  la ricchezza del Museo dell’opera del  Duomo, sognando davanti alla porta del Paradiso  del  Ghiberti , piangendo davanti alla Pieta’ Bandini di Michelangelo,  facendoci travolgere dalle  tensioni nervine di Santa Maria del Fiore che ti  elevano senza fatica verso dimensioni celesti;  stupendoci  per lo  scintillio d’oro di Ponte Vecchio  e per la raffinatezza del negozio-Museo di porcellane  Richard Ginori con i suoi pezzi risalenti al 1735.   Abbiamo volato sui tetti della città ammirando il suo magnifico panorama  dal terrazzo dei Grandi Magazzini  della  Rinascente, scoprendo che, in  una bella vetrina, prende posto il vino di un nostro stimato amico: Mastroberardino.  Siamo tornati con gli occhi pieni di immagini, il cuore accelerato per le emozioni. Ogni volta che torni a Firenze è sempre come la prima volta. Gli occhi bevono le immagini e la mente ripete le parole studiate avidamente sul libro di testo di storia dell’arte del prof.  Argan al tempo del liceo e a questo si addizionano ricordi ancora più cari, le parole di mio padre che ne narrava le bellezze tra il Giardino dei Semplici e Santa Maria Novella. Un sussulto e si torna alle necessità,  si fanno i conti, si studiano i particolari per i prossimi eventi,  la premiazione di “Echi di poesia dialettale” è nei  nostri programmi imminenti.  Per il concorso,  da Firenze abbiamo portato il patrocinio della Associazione Tabula Picta,  un grande onore per noi. Abbiamo anche trovato nuovi collaboratori della Grande Madre e questo è il più gran successo, la rete si allarga, si distende e coinvolge quegli animi nobili di cui la nostra associazione necessita.

franca molinaro

Poeti vincitori di “Echi di poesia dialettale 2016”

11813518_976201279109926_4032215024097984515_nCentro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre”, “Echi di poesia dialettale 2016”, elenco premiati  in ordine alfabetico e giurati.
Dopo l’accurata lettura dei componimenti da parte della qualificata giuria, sono stati selezionati i primi tre per ogni sezione, le menzioni d’onore e le segnalazioni. E’ stato assegnato il premio “Poesia d’amore” musicata da Gerardo Lardieri da presentare nel corso del Festival delle Serenate di Teora il giorno 8 agosto 2016. E’ stato assegnato il premio “Città di Leivi” disposto dal comune di Leivi (Genova). Assegnato il premio “Emozioni d’Irpinia” offerto da Irpinia Turismo con un soggiorno per due persone con visite guidate in Irpinia, al poeta che meglio ha espresso l’amore per il suo territorio. La giornata di premiazione si terrà a Bonito (AV) il 24 luglio 2016. In seguito il programma dell’evento.

Il premio alla Memoria quest’anno sarà consegnato a Vito Acocella, sacerdote calitrano che diede il via agli studi di antropologia in Irpinia, la premiazione avverrà il 31 luglio 201 6 a Calitri.

Giuria:
Presidente Emilio De Roma (AV) Pittore, scultore, scrittore, coordinatore Grande Madre.
giurati: Adriana D’Argenio (FI) – Docente di Lingue, iconografa. Giuseppe Gangemi (RC) – Giornalista, scrittore. Andreina Solari (GE) – Poetessa e scrittrice, Assessore Scuola e Cultura al Comune di Leivi. Giuseppe Vetromile (NA) – Poeta, Presidente del Circolo Letterario Anastasiano. Ana D’Alonzo (Buenos Aires, Argentina) –  Traduttrice e Interprete. Giosuè Gilberto Da Molfetta (Canosa di Puglia – BA) – Presidente Associazione Comunità Italiana Nel Mondo per la difesa e promozione dei prodotti agricoli. Yvonne Scherken (Wppertal, Germania) – Fachoberschule Fuer Gestaltung – Cultrice del naturale in tutte le sue forme. Giuseppe Grieco (BN) – Architetto, Docente di materie scientifiche. Paolo Saggese (AV) – Docente di materie classiche, scrittore, saggista, direttore artistico Centro di Documentazione sulla Poesia del Sud. Daniela Vigliotta (AV) – Studentessa, musicista. Carmen Fumagalli Guariglia (BG) – Poetessa dialettale e ricercatrice storica. Aldo Grieco (GR) –Medico, studioso delle tradizioni e della storia del Sud.
Gerardo Lardieri – Ricercatore di musica etnica.

Poeti vincitori in ordine alfabetico. Al seguente elenco mancano i poeti che hanno ottenuto un buon punteggio e che quindi rientrano in antologia “Echi di poesia dialettale 2016”
Fernando Antoniello (Avellino)
Carmelo Arcaro (Salerno)
Suor Maria Giuseppina Bistort (Caserta)
Rina Bontempi (Ancona)
Vincenzo Bolia (Savona)
Giovanna Cannata (Siracusa)
Caterina Caputo (Avellino)
Cosima Cardona (Reggio Calabria)
Marco Castellano (Foggia)
Gaetano Catalani (Reggio Calabria)
Chinaglia Nicola (Verona)
Giovanni D’Amiano (Napoli)
Emilia De Vecchis (Aquila)
Gustavo di Domenico (Roma)
Silvio Falato (Benevento)
Giuseppe Antonio Fava (Reggio Calabria)
Biagio Fichera (Catania)
Salvatore Gazzara (Messina)
Nicola Guarino (Avellino)
Tiberio La Rocca (Isernia)
Cesare Mercuri (Catania)
Michele La Montagna (Napoli)
Leotta Maria (Catania)
Francesco Locorotondo (Brindisi)
Fausto Marseglia (Napoli)
Saro Marretta (Svizzera)
Mariarosa Massara (Novara)
Grazia Mazzeo (Foggia)
Francesco Mazzitelli (Reggio Calabria)
Carmelo Morena (Reggio Calabria)
Carmela Marino (Svizzera)
Francesco Antonio Marino (Foggia)
Libera Mastropaolo (Campobasso)
Maria Elena Adele Musto (Avellino)
Rocco Nassi (RC)Matteo Nigro (Brasile)
Alberto Pattini (Trento)
Anthea Petrillo ( Avellino)
Ida Petrillo (Avellino)
Michela Ramella (Imperia)
Giovanni Riva (Milano)
Pia Rossella Santoli ( Avellino)
Filippo Scalzi (Crotone)
Irene Silvestri (Salerno)
Pino Sollazzo (Australia)
Agostina Spagnuolo (Avellino)
Vito Domenico Carbotti (Taranto)
Maria Teresa Di Marco (Palermo),
Nunzia Zingale (Enna)

 

 

 

 

 

Il cibo nella letteratura popolare di Franca Molinaro

DSCN0698Nella quotidianità del volgo, come nelle sue espressioni letterarie, i primi bisogni elementari sono sempre presenti, il cibo ed il sesso sono argomenti reiterati ed abusati. In quest’occasione prenderò in esame alcuni elementi della tradizione popolare in cui compaiono gli alimenti. Vito Acocella da Calitri così scrive: V’larria ca chi’vess’r’ maccarun’,    la m’ndagna r’ Somma, cas’ ‘hrattat’,  e 1’ acqua r’ lu mar’, vin’ ann’vat’”. Il desiderio di un buon pasto era tanto forte da coinvolgere tutta la natura. A Monteverde, Idea Corbo e Vincenzo Continiello riportano la seguente filastrocca: Ru furmagg’ raj curagg’, la cucozza nu’ me ‘ncozza, la pulenda quera allenda, la ciambotta quera abbotta, la patana scazza e mbana, lu p.parul’ lassel’ ra sul’, lu fnocch’ a cocch’ a cocch’, l’acc’ o che bell’ vin’ chi sacc’, lu rafanieggh’ n’aut’ bcchjrieggh’, lu prsutt’ fott’ a tutt’, ngimm’mitt’ lu vin’, jangh’ russ’ e sopraffin’ ». A Teora, Emiddio De Rogadis, aggiunge: « Disse l’acc’ che bell’ vin’ chi’ sacc’, rispunnivo lo rafaniello facimoce no’ bello bicchiriello, respunnivo lo fenocchie jamucinn’a cocchia a cocchia, disse la patana jammongenne chiano chiano, rispunnivo la pastinaca  ma ‘ndò s’abbiano ‘sti pacci ‘mbriachi ? »  a Sant’Andrea di Conza, Fedele Giorgio scriveva : « A lo juorne dalle e dalle, a la sera cucozze e talle, a la notte dorme cu Tolle: tu te cride ca so’ de metalle?” è chiaro che per tanto lavoro, più l’attività sessuale, il corpo ha bisogno di una alimentazione sostanziosa e non verdura e zucchine. Sesso e cibo vanno a braccetto anche negli indovinelli a doppio senso: “Lu ficche tiso e èsse muscio”. Naturalmente è lo spaghetto nell’acqua di cottura. Il problema della miseria è ricorrente, a Santo Stefano del Sole così sono incitati i giovani fidanzati: “‘’Nzuatevi ‘nzuratevi virrilli, ca vanno a buon mercatu le cipolle, ‘n’capo a n’anno faciti li figghi e l’infasciati cu li curi e l’agghi.” Giuseppe Buonfiglio da Lauro annota sempre sulla miseria: “Vino vinello a famma è brutta a carastia è bella. I mo’ m’aggarbo ‘n’facci’a ‘sta cipolla.” Il canto dei mietitori di Lauro è attento a non urtare la suscettibilità dei padroni: “Mo’ ch’avimo fenuto a magnà facimo ‘no stornello pe’ l’amore. A sta tavola s’hadda ringrazià primma a Dio e roppo a lu patrone. Nun c’è mancato né pane e né vino a lui ranne a lu figlio re Maria. Si ‘nge fosse mancata cacche cosa ‘nge la pigliassemo co lo servo nuosto. Patrone mio te voglio arricchì cum’a no cane voglio faticà cum’a nu lupo voglio mangià”. A Lapio, Cesare Carbone riporta l’atteggiamento di chi, per propria volontà, è andato a letto senza cena: “Chi ngagna ‘n’terra rescagna, tutta notte rasca e sputa, cena mia addò sì gghiuta?”. A Greci, Lucia Gliata racconta la preoccupazione di un massaro che non vuol dividere il vino con gli amici: “Vino mio quanto sì doce, viato quera terra che ti fece. T’aggio stentato co tanto sudore mo’ te vuonno fotte tutti l’amici.” Qui, a Calvi c’è il canto di richiesta del pranzo: “Tutti li mizzijuorni hanno sonati sulo lo mio non’ha sonato ancora. Te preo sacrestano valo sona, fa mangià a chi non’ha mangiato ancora. Zia patrona conza la ‘nzalata, la parziona mia conzala a parte la voglio realà a l’amore mio. Te lo dico a te fronna e limone chi mangia mo’ se pozza strafocane.”  Beniamino Tartaglia da Aquilonia ricorda l’amarezza del mietitore che ha ricevuto poco cibo scadente e la vigoria che mette l’aglio da sempre ritenuto afrodisiaco per gli uomini:” Come pozz’ mete si mang’ cipodde, so’ senza forza int’a le brazze, ma si me mang’ l’aglie frusce rano mie se no te taglie.” I cibi compaiono nei canti di questua del carnevale o del capodanno: “E je che agge besuogne re nu poch’ re lard’, nu salut’ lo lass’ a Cerard. E je ca nun’agg’ ancor’ mangiat’ n’auto saluto lo lass’ a Runat’. Epur’ si no’ me rat’ manc’ ‘na pastett’ ‘no saluto lo lass’ a ‘Ntuniett’. A Vallata, Lorenzo Rocco di Meo riporta gli elogi alla donna amata intenta nelle faccende domestiche:” E l’aggio viste ste roie vrazze quanno ‘mbasti li maccarune e pi la forza ca tu ci mitti s’aliza l’anca e se sponda lo pietto. Bella figliola ca cierni farina co lo culo no’ zuculiò ca co lo fruscio ri re menne la farina la fai abbulò.” A Calvi, il cibo diventa invettiva: “Facci e ‘na cicoria verde e amara, Cristo te l’ha levato lo colore, te l’ha levato pe te fa dannà ca tutti se mmariteno e tu no”. Ma è anche  risposta pungente come riporta Vito Acocella: “O brutt’ baccalà mal’ spunzat’ m’hai fatto perde ndunn’ l’appetito, lu viern’rì e lu sapat’ si mangiat’ sulo lo viern’rì si preferito, ma vì che brutt’ nom’ vui tinit’. A lu sapet’ e la dumenec’ sit’ mangiat’ a lu lunnirì t’ scetten’ fetentut’”. Oppure rancore di amore tradito: “Lo frutto era roce e mo ea amaro ave pers’ quill’ roce sapor’, veness’ la mort’ e ce mettess’ repar’ già ca la bella mia ha cangiat’amor’”. Ma il verso più bello è quello che paragona la propria amata ad una ciliegia, comune ovunque: “Come sì fatta bella me pare ‘na cerasa te vurria dà ‘no vaso a do’ me piace a me!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cocullo e la festa dei serpari

DSCN4311La festa di San Domenico a Cocullo (AQ) di franca molinaro

Sabato 30 aprile, mia figlia mi propose di andare in Abruzzo, a Cocullo precisamente, per assistere alla festa di San Domenico, rito unico cui prendono parte centinaia di serpenti. Conoscevo questo evento dalla lettura  di “Scritti rari”, dell’antropologo Alfonso Maria di Nola, testo regalatomi anni fa dal suo allievo Claudio Corvino. Affascinata già dalla lettura del Maestro e commossa all’idea di raggiungere quei luoghi a lui tanto cari, non esitai ad acconsentire, ci ritrovammo così, in un mattino piovoso, in rotta verso la montagna. Circa 200 km tra vallate e monti magnifici, prima dell’alto Sannio, poi del Molise, infine ecco le piste di Roccaraso, l’Abruzzo, forse la più bella regione d’Italia. Cocullo è un paesino che non raggiunge i 300 abitanti, posto su un’altura a più di 800 m slm, riparato intorno da montagne verdi chiazzate di bianco, la roccia calcarea affiora ovunque tra alberi d’alto fusto nel piano montano  fino al piano alpino coperto di erbe di brughiera. Parcheggiamo a un paio di chilometri dal centro; il paesino appare come un unico edificio tra nubi e nebbia. Lungo la strada che immette nel centro storico c’è la fiera, molto artigianato e prodotti locali profumati, ad ogni stand è riproposto il simbolo della festa: il serpente. Appena inoltrati tra la folla ecco i primi serpari che si avvicinano facendo agghiacciare il sangue a chi non ama queste bestiole.
Nel Sannio è San Paolo a proteggere dai serpenti, qui è San Domenico Abate, l’iconografia è di un monaco in abito benedettino, un pastorale nella mano  destra e un ferro di mula nella sinistra. La sua venerazione è attestata nei paesi abruzzesi, laziali, molisani fino a spingersi a Morcone (BN), la stazione più meridionale. E’ invocato contro ogni sorta di morso velenoso, serpenti, cani rabbiosi, fino al veleno metaforico insito nella specie umana. E’ anche dominatore delle tempeste e del mal tempo in genere, come capita a diversi santi montanari; San Leone di Cairano, ad esempio, ha la stessa qualifica tanto che, spesso nel gergo paesano, è identificato con il vento stesso: “Quanno ota Santo Lione”. In verità, il tempo piovoso da Nord a Sud della penisola, all’ora della processione, migliora visibilmente fino a mostrare il sole e il cielo limpido.
Il Santo esce dalla chiesa preceduto da fanciulle in abito tradizionale recanti sul capo due cesti con dei pani rotondi, i ciambellati, simili alle squarcelle ascolane ma di circonferenza maggiore, sono i pani sacri. La statua del Santo è coperta di serpenti, sono specie locali, catturati tra la fine di marzo e l’inizio di aprile quando inizia il loro risveglio. L’arte del serparo è tramandata da genitori a figli e si possono vedere tra la folla, indistintamente, bambini e bambine che portano i rettili sul collo o attorcigliati ai polsi. Le bestiole, che superano anche i due metri di lunghezza, hanno la pelle magnificamente variegata nelle sfumature dell’ocra e del bruno, i colori più belli della terra e del bosco in autunno, hanno occhietti vispi e una linguetta biforcuta che agitano per sondare l’ambiente circostante. La testa è triangolare, piccola rispetto al corpo e la coda leggermente strozzata. Passano mansueti di mano in mano per la curiosità dei turisti, per una foto, o solo per avvertire quello strano e insolito contatto. Solo a Cocullo puoi concederti il lusso di portare un serpente al posto della sciarpa o farti baciare dalla sua lingua mobilissima. Le bestiole sono in balia dei serpari che comprendono ogni loro movimento o intenzione, avvertono il loro nervosismo, qualcuno viene morso ma non se ne preoccupa, è solo un po’ di sangue da lavar via.
Ogni serparo mostra di amare enormemente le sue creature che gli scivolano addosso con una eleganza inimitabile o si fissano a spira intorno alle braccia, non si ribellano ai continui toccamenti dei mille curiosi, come se una volontà suprema li guidasse, “Loro lo sanno che devono stare buoni per questa ricorrenza” spiega un giovane che ne porta due e soddisfa le curiosità dei visitatori. “Sono microcippati” spiega una ragazza che porta due bellissimi esemplari neri e grigi, lo scorso anno uno dei due fu misurato e quest’anno è cresciuto di dieci centimetri.
In quell’ambiente anche il più restio vince la paura e si lascia convincere che non è pericoloso toccare il serpente e non è nemmeno spiacevole al tatto, mentre la creatura flessuosa non china il capo ma continua le sue movenze sinuose, incantata e austera allo stesso tempo.
L’origine del culto di San Domenico non è chiaro, la figura del santo, sebbene ampiamente studiata, presenta lacune che non ne permettono la corretta identificazione. Difficile stabilire anche la provenienza del rito, non è possibile definire se si tratta di un culto prettamente marsicano o indoeuropeo. Di Nola spiega che, nell’isola greca di Cefalonia, a Marcopulo, v’è un rito molto simile associato alla liturgia ortodossa della Vergine, il 15 agosto. Anche in questo caso le bestiole son tenute di gran conto altrimenti si è soggetti alla collera della Madonna. A Cocullo, secondo il ricordo degli anziani, dopo la processione i serpenti erano sacrificati, per fortuna oggi non v’è più traccia di questo ricordo, inevitabile evoluzione del rito che si adatta ai tempi. Spiega Di Nola: “In sostanza, si commemorano le vittorie eroiche sui serpenti e sui lupi per evocare in presente un mondo di potenza e di tutela efficace che salva dalle difficoltà economiche, dal male dell’emigrazione forzata, dagli incerti del sistema di produzione neocapitalistica, e, cioè, dalle molte evenienze di disgregazione della propria sicurezza storico-sociale”.  Oggi a Cucullo, in onore dello studioso è stato fondato un Centro studi per analizzare le mutazioni del rito; ogni anno, puntualmente gli allievi del maestro tornano per attendere agli impegni, allora studenti, oggi antropologi di fama, Claudio Corvino e Ireneo Bellotta, accompagnati dalla prof. Lia Giancristofaro, si mimetizzano tra la folla per osservare, comprendere, partecipare.
San Domenico è protettore dei denti, una sua reliquia è custodita a Cocullo, un dente, per ottenere la sua protezione occorre suonare con i denti la campanella della chiesa. L’associazione denti-morso riporta ai serpenti e ai cani da cui protegge.
L’identificazione del serpente col male è una trovata biblica, sebbene nella Genesi appare ancora come sapienza, massima conoscenza, reduce dalla gloria originaria di teogonia, uroboro, poi attributo delle Grandi Madri; la Chiesa lo ricicla non potendo eliminarlo, lo demonizza e lo riabilita sottomettendolo ai suoi esponenti: la Vergine, i Santi. Il rito di Cocullo è vincere il male o sconfiggere le paure, ma forse è anche un riappropriarsi del naturale, una riscoperta di quelle corrispondenze misteriose tra creature differenti dello stesso sistema. Chi può stabilire questo? E che importanza ha definirlo? Il rito di Cocullo va vissuto nella sua interezza senza domande, con animo puro, solo così si può avvertire la serenità di quei momenti avulsi dal tempo e scevri di fede spicciola e superficiale.