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Pietradefusi 18 giugno, Padre Lodovico Acernese e la sua gente

DSC_0014A Pietradefusi un nuovo incontro per parlare del padre fondatore delle suore Francescane Immacolatine. Serata sobria ma amichevole dove ancora una volta è stata la poesia a rivelare la difficile figura di padre Lodovico, forse perchè questa musa parla dritto al cuore e non tergiversa in speculazioni filosofiche o teologiche, con la sua immediatezza non teme la forma e denuda la verità mostrandola nella sua interezza.
A dare il saluto di benvenuto, il sindaco
Giulio Belmonte che ha fortemente voluto questo appuntamento. Emilio De Roma ha illustrato in grandi tratti il personaggio e il tempo difficile in cui si muoveva, le avversità storiche ma anche le spicciole ipocrisie paesane.  Paolo Saggese, con la semplicità e linearità che lo caratterizza, ha delineato i tratti salienti del frate francescano, ha parlato del poeta e dei suoi contemporanei riagganciandosi alla ben nota “Storia della poesia irpina” pubblicata per Sellino nel 2009, dove padre Lodovico è inserito nella sezione “Poeti dalla tradizione”. Saggese ha mostrato interesse per gli scritti inediti che le suore stanno vagliando ed ha offerto la sua qualificata collaborazione. Indubbiamente, unitamente al lavoro di studiosi del calibro di Virgilio Iandiorio e Fausto Baldassarre, il professore Saggese saprà dare un importante contributo per meglio definire la figura del letterato, poeta, giornalista, frate pietrafusano.
Ottavio Di Grazia, docente di Storia delle Religioni del Mediterraneo, ha definito il frate “Uomo del suo tempo” a cavallo di un momento cruciale della storia nazionale ma anche di cambiamenti culturali di grande portata, “Figura di confine collocabile in uno spazio ampio che va ben oltre i confini provinciali”.
Caldo l’intervento di Monsignor Pasquale Maria Mainolfi, infervorato dalla fede e dalla passione verso il personaggio attentamente studiato. Docente di Teologia Morale e Dogmatica, Monsignor Mainolfi ha dato alla stampa un bel testo sulla vita di Padre Lodovico Acernese e il suo apostolato.
Interessante l’interpretazione che Mainolfi ha dato al simbolo della Grande Madre “il serpente avvolto intorno alla spiga di grano” che abbiamo realizzato in bassorilievo proprio per la serata, come dono agli illustri relatori. -Il serpente di bronzo raffigurato nel nostro stemma-, ha spiegato il monsignore -è stato ispirato dalla provvidenza, esso infatti ricorda il serpente di bronzo della Cappella Sistina dipinto da Michelangelo in memoria del serpente biblico di Mosè. Quel serpente che Mosè innalzò per proteggere il suo popolo dai serpenti giustizieri, rappresenta Cristo innalzato sulla croce per la salvezza dell’umanità credente. Questa ulteriore interpretazione ci rende felici e ci aiuta a riabilitare la piccola creatura strisciante troppo spesso additata come il male.
Ha concluso gli interventi la Madre Superiora, con i ringraziamente e l’invito ad assaggiare gli ottimi dolci caserecci apparecchiati in una sala del museo. La  visita al museo è stata occasione per conoscere più da vicino Padre Lodovico e la sua pupilla, Teresa Manganiello. Sbalorditi abbiamo osservato il cilicio e i flagelli della penitenza, inorriditi ci siamo chiesti il senso pur nel rispetto di quel tempo e di quelle convinioni. Ma resta comunque incomprensibile, agli occhi dell’uomo del 2000, la mortificazione della carne, il dolore cercato e offerto come espiazione dei peccati dell’umanità; non riusciamo a spiegarci come una giovane fanciulla potesse indosare un cilicio con punte acuminate per ubbidire al suo padre spirituale. Ci sembra un gesto masochista, e sadico dall’altra parte; eppure tutti i santi si sono sottoposti a queste sofferenze offrendosi come capri espiatori per questa umanità che non ha mai avuto buon senso.
Ieri come oggi violenza d’ogni fattura insudicia le mani dell’uomo; passano le ere, cambiano le civiltà e non scompare il male, non si sconfigge quella nube nera che circonda la Grande Madre, quell’energia scura, negativa che permea il cuore delle persone e le rende sorde e insensibili, addirittura violente e assassine. Il mondo è in balia del male e l’umanità ne è l’artefice, solo la quiete di queste mura e i sorrisi delle buone suore sembra essere scoglio sicuro. Passeggiare per queste stanze che respirano la storia, l’operosità dei conventi, è una lezione di vita, una testimonianza concreta di quello che gli ordini religiosi da sempre hanno rappresentato. Padre Lodovico poi, nella sua lungimiranza, fu particolarmente vicino al mondo femminile, ai suoi bisogni, sapeva che l’istruzione e la preparazione culturale delle ragazze permetteva la loro emancipazione allineandole verso i giusti principi di madri, detentrici della vita e del destino dell’uomo.

Antologia “Echi di poesia dialettale 2016”

copertina_antologia2016 (2)Il dialetto costituisce la specificità immateriale di un’etnia, la sua perdita porta all’omologazione culturale, il recupero è un atto di salvataggio.”

L’antologia del concorso “Echi di poesia dialettale” è il risultato di un lungo periodo in cui tutto il Team del Centro di ricerca lavora per il perfezionamento di un progetto iniziale nato nel 2008, anno in cui, chi scrive sottoponeva all’attenzione del Centro di Documentazione sulla Poesia del Sud, la nascita e l’evoluzione della poesia dialettale irpina. Dopo queste prime esperienze provinciali si delineò il cammino del Centro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre” prendendo respiro nazionale in seno a una autonomia acquisita nel 2013, pur sempre operando in comunione con le realtà del territorio attente all’interazione. Dal 2008 siamo cresciuti significativamente: siamo alla quinta esperienza con il concorso di poesia dialettale, due anni in collaborazione con un editore e tre autonomi.  Siamo giunti al VII Raduno annuale dei Poeti Dialettali in collaborazione con l’Associazione Onlus Amomontemarano e il Comune di Montemarano. Da due anni, con l’Amministrazione Comunale di Bonito, abbiamo istituito, secondo indicazioni UNESCO, la Giornata Mondiale della Poesia. Abbiamo portato nelle scuole irpine la poesia dialettale proveniente da altre regioni d’Italia, quest’anno è stato ospite Gustavo di Domenico da Albano Laziale (RM).
Ma non solo poesia, la nostra attenzione si estende a tutte le situazioni di emergenza che richiedono sostegno per la sopravvivenza. Dopo l’accurato studio su Genista anxantica, (caduta in sinonimia con un’altra comunissima ginestra) insieme al naturalista Giovanni Riva, in collaborazione con Gli Amici del Bosco di Origgio (MI) e il Giardino Botanico di Uboldo (MI), ci stiamo adoperando per la protezione dell’entità e la sua rielezione a specie. Unitamente alla protezione della ginestra ci stiamo occupando della valorizzazione di tutta l’area Mefite con progetto presso il Comune di Rocca San Felice (AV). In virtù di questo, la copertina dell’antologia riporta un’immagine del bulicame, di Genista anxantica in fiore e, in lontananza del paese di Villamaina (AV), luogo natale di Giovanni Gussone, il botanico che scoprì l’esistenza della ginestra.                                                                                                              In occasione del centenario della morte di Padre Lodovico Acernese, stiamo sostenendo la proposta di beatificazione avanzata dalle Suore Francescane Immacolatine a favore del loro superiore.
Procediamo con gli studi di etnobotanica, lo studio delle erbe e la diffusione della conoscenza dei loro poteri eduli e officinali, in merito è venuta alla luce l’Ebook sulla flora irpina, 1225 piante della Campania interna. Sempre per parlare di erbe, siamo stati ospiti all’istituto  alberghiero di Vallesaccarda.                                                                                             Dunque, “Echi di poesia dialettale” non è la principale attività del nostro Centro, piuttosto è quella che impegna tutti i soci e i collaboratori nel corso dell’intero anno, è un’attività frenetica, si lavora in continuo contatto con i collaboratori e con i potenziali poeti, si instaurano rapporti di amicizia là dove è possibile, si ricercano sostenitori materiali e morali capaci di incoraggiare e incentivare le attività; si ascoltano i consigli, si avvicinano nuovi validi collaboratori, si trae energia dai consensi e dagli alti patrocini. Questo impegno costante ci permette di attendere alla nostra opera di salvaguardia del dialetto e delle tradizioni, del territorio e delle sue etnie. Così si arriva all’antologia, risultato tangibile della mole di lavoro svolto. É una silloge composta da tante voci diverse, provenienti da autori dalla differente cultura; spazia dagli specialisti della parola come il giornalista ligure Vincenzo Bolia, al metalmeccanico veronese Nicola Chinaglia, il barista napoletano Gaetano Napolitano, il commerciante irpino Fernando Antoniello, il postino pugliese Pasquale Patruno.
Si passa dalla poesia scoperta nella maturità, che si affaccia semplice e timida come nella friulana Paola Picech, ai maestri del settore come il siciliano Biagio Fichera che hanno fatto del verso un apostolato. Molti poeti sono soprattutto dei ricercatori, di orizzonte internazionale come l’antropologa lombarda Antonia Bertocchi, oppure sono pilastri della ricerca locale come il pugliese Gerardo Giuseppe Strippoli, il calabrese Angelo Canino, i campani Agostina Spagnuolo, Carmelo Arcaro, Silvio Falato, Giuseppe Iacoviello, Antonio Cona, Irene Girolama, il pugliese Attilio Littera, il siciliano Salvatore Agueci, il lucano Gerardo Nardozza, il marchigiano Roberto Ricci, la camusina Marina Moscardi, il molisano Tiberio La Rocca                                                                                                                                  Qualche autore vive di dialetto e di tradizioni come i calabresi Maria Teresa Di Marco Filippo Scalzi, Carmelo Morena, il napoletano Giuseppe Silvestri.                                        Alcuni si sono distinti per il lavoro di recupero fatto con la scuola come l’abruzzese Emilia De Vecchis.                                                                                                                                        Altri amano il loro territorio e cercano, attraverso i versi di non farne perdere le tracce come la calabrese Cosima Cardona, i campani Antonio Covino, Vincenzo Panella, Carmela Marino, i siciliani Giovanna Cannata, Giuseppe Re, il pugliese Gabriele Patruno, l’emiliana Nerina Ardizzoni, il trentino Alberto Pattini. Poi ci sono gli autori che si son dedicati alla poesia in modo quasi esclusivo, i napoletani Gianni Terminiello, Fausto Marseglia, Beniamino Gatto, Giovanni D’Amiano, il bergamasco Gianni Pisoni, i calabresi Rocco Nassi, Gaetano Catalani, Francesco Mazzilli, i siciliani Nunzia Zingale.                                Voci intimiste salgono dal cuore per mettere a nudo teneri sentimenti, è il caso della ligure Michela Ramella, il marchigiano Andrea Lodovichetti, i piemontesi Massimo Allario, Renzo Comello, Giacomo  Musetta, i pugliesi Grazia Mazzeo, Francesco Antonio Marini, i campani Ida Petrillo, Caterina Caputo, Pia Rossella Santoli, Maria Elena Adele Musto (AV)
Michele La Montagna, Bruno Preziosi, Vito Donniacuo, Mirella Merino, Alfonso Impronta, Anna Collini, Mario Vitale, Gianna Capozzi, il romano Gustavo di Domenico, la molisana Libera Mastropaolo, i calabresi Pino Sollazzo, Franco Restuccia, Esposito Romolo, Maria Leotta, i siciliani Cesare Mercuri, Rosa Maria Chiarello, le venete Mariarosa Massara, Valentina Olivi, la croata Loredana Bogliun, la molisana Antonietta Di Benedetto.                   Altre sono voci di denuncia sociale come i pugliesi Savino Morelli, Francesco Locorotondo, i campani Carmela D’Antonio, Nicola Guarino, il romano Marco Nica, i siciliani Saro Marretta, Salvatore Gazzara, i calabresi Gaetano Catalani, Paolo Landrelli.
Alcune voci sono ancora rauche di dolore storico, è il caso del pugliese Vito Domenico Carbotti, l’emiliano Franco Ponseggi.                                                                                                        Poi c’è la poesia ironica come quella del lombardo Gianni Riva e del romagnolo Maurizio Maraldi.
Superlativa, la poesia preghiera sia essa di lode, come nel caso dei poeti pugliesi Raffaella Angelino e Marco Castellano, la campana Suor Maria Giuseppina Bistort, o rito magico di antica sacerdotessa, caso unico e inconfondibile della calabrese Carmen Tassone, l’inno al sole da moderno Akhenaton del campano Eugenio Gambardella.
Poesia epico-descrittiva potrevve essere quella del pugliese Matteo Nigro, quotidiana del marchigiano Giustino Caringi, riflessiva dei campani Petrillo Anthea, Fortunato Vesce, del calabrese Giuseppe Antonio Fava.                                                                                                                     Infine conclude l’antologia l’inno alla pace del tunisino Qais Alnjlawi, nella sezione “Poeti dal Mondo” fuori concorso.                                                                                                                La nostra ambizione di riunire i dialetti d’Italia in una grande famiglia, quella della Grande Madre, si concretizza sempre più, fino a raggiungere le voci disperse per il mondo. L’internazionalizzazione del Concorso è stata possibile grazie ai numerosi contatti tra gli emigrati di prima e seconda generazione, ai giurati, alla rete, capace di raggiungere i poeti in ogni angolo del pianeta. Dopo l’Europa e le Americhe dello scorso anno, siamo sbarcati agli antipodi, nel continente australiano, catturando l’attenzione di uno dei più bravi poeti emigrati calabresi.                                                                                                                               L’edizione di quest’anno ha trovato il baricentro coinvolgendo i dialetti del Nord-Est e la lingua friulana. Ci è giunto anche il dialetto della vicina Croazia con un componimento di  Loredana Bogliun  in dialetto di Dignano d’Istria, abbiamo così scoperto le corrispondenze con i fratelli d’oltrefrontiera.                                                                                       Sempre più presente il Nord della penisola, il Veneto, il Piemonte, la Lombardia, la Liguria e l’Emilia, questa presenza arricchisce con le sue sonorità magnifiche e testimonia una unità nazionale possibile attraverso la sensibilità poetica, scevra da ogni pregiudizio e rancore storico. Non sono mancati richiami al passato che rivelano ancora una memoria ferita, ingiustizie commesse che non vanno dimenticate per far tesoro dell’esperienza. Occorre ricordare che se la pace difetta non è per volontà del popolo ma di pochi detentori del potere, quell’entità infernale che attanaglia nelle sue spire e moltiplica distanza tra cuore e cervello. Il popolo, quello che parla attraverso la nostra antologia, è portatore di pace perché conosce la sofferenza, non è guerrafondaio, difende solo i suoi diritti. Allo stato attuale non è possibile addossar colpe ai Piemontesi se l’Unità d’Italia prese una cattiva piega, o ai soldati del Sud mandati a massacrare fratelli sul Carso. Il male nasce da menti contorte, dove la sete di potere alimenta l’odio e la guerra, l’incomprensione raziale e religiosa, è compito del poeta impugnare l’arma della pace al cospetto delle iniquità correnti. Ecco l’unità nazionale che noi proponiamo, meglio ancora internazionale, chiamando all’appello i “Poeti dal mondo”, di altre professioni religiose, ma ben coscienti dell’unicità della Somma Sapienza che regna oltre la pochezza umana sulle sorti del cosmo.

franca molinaro


 

Domenico delle api di franca molinaro

 

DSCN4799Le Api da tempo immemore sono associate alle anime, in particolare vi era credenza che le anime nobili si reincarnassero in esse. Anche l’anima di un congiunto è in stretto rapporto con le api tant’è vero che la sciamatura, nella tradizione popolare, indica la morte di un familiare e gli alveari stessi hanno dei trattamenti particolari in caso di morte. Un essere così speciale, con una organizzazione sociale ancora non del tutto chiara, un piccolo essere al quale è affidata la sopravvivenza della vita tutta, non può non essere prezioso. Non dimentichiamo l’importanza che ha un’ape nel sistema riproduttivo vegetale. A questi insetti sono affidati i pacchetti di polline-seme da scambiare tra fiori maschili e femminili della maggior parte delle piante. L’ape ha inoltre un dono speciale, sa riconoscere le specie vegetali e se una mattina si alza e visita una corolla di margherita, per tutta la giornata continuerà a visitare la stessa specie garantendo alla famiglia vegetale la sopravvivenza dei propri geni.
Non è da sottovalutare poi l’organizzazione sociale di questo genere nomato da Linneo come Apis mellifera, cioè ape da miele. La mellifera poi si suddivide in altre sottospecie secondo i luoghi di provenienza, la nostrana, quella del centro Italia è mite e produce una modesta quantità di miele.
Riguardo all’organizzazione sociale ci troviamo di fronte a un sistema piramidale con al vertice la regina, i fuchi e alla base le operaie. La regina è scelta dalle api tra le tante ed è nutrita a pappa reale, costantemente, per permetterle di deporre fino a 3000 uova al giorno nei primi mesi estivi. Si accoppia con più fuchi una sola volta nella vita e può vivere fino a cinque anni. Tutto il resto della famiglia vive in funzione della deposizione delle uova della regina, dell’alimentazione e difesa dell’alveare. Impulsi chimici ordinano l’andamento interno del gruppo e garantiscono la tranquillità apparente della colonia. Man mano che passano i giorni le api cambiano mestiere adattandosi ai compiti da svolgere, da spazzine a bottinatrici, aiutano le piante nella riproduzione e producono l’ottimo miele ricco di proprietà e di gusto.
In primavera poi può succedere quel che capitava nelle ver sacrum dei popoli antichi, regine vergini (sciami secondari) o vecchie regine (sciame primario) abbandonano l’alveare e vanno a cercare un nuovo luogo per vivere. Si può assistere allora a quell’incredibile spettacolo che è la sciamatura e vedere grappoli di api appese ad alberi in forme differenti. Dietro invito di un amico, nei giorni scorsi, fummo invitati ad osservare e recuperare uno sciame attaccato a una vite. Un giro di telefonate e trovammo un ragazzo esperto, Domenico Mercurio, beneventano con una gran passione per le api. Il ragazzo ci raggiunse e nel giro di un paio d’ore convinse tutto lo sciame ad entrare nella cassetta adibita al trasporto. Domenico ci spiegò tutti i segreti dell’apicoltore, il rapporto speciale e la sensibilità che occorre per maneggiare con cura i piccoli amici della Grande Madre. Le api son molto delicate, se restano sole muoiono, aspettò quindi che entrassero tutte nella cassetta per portarle  a diversi chilometri di distanza. Anche la posizione della cassetta in macchina va curata e poi il tempo di apertura per l’adattamento. Un mondo meraviglioso quello dell’alveare non certo privo di violenza ma tutto rientra nel normale andamento della vita, è la natura che segue i suoi ritmi con il suo egoismo insito nei geni; tutto fa parte di un progetto a monte che deve garantire la continuità delle specie vegetali e animali. I fuchi vengono abbandonati dopo aver compiuto il compito di fecondare la regina e le regine che non servono vengono decapitate dall’ascia reale della madre; gli operai non si ribellano, non hanno sindacati, compiono il loro lavoro con estrema cura, emettono richiami speciali con le alucce per suonare l’adunata e magicamente e ciecamente seguono la regina. Domenico conosce tutti questi segreti e le accudisce lasciando alla natura il suo corso, poi viene anche per lui il tempo di bottinare e dall’alveare raccoglie, con la smielatura, il prezioso nettare che migliora i dolci, i torroni e, soprattutto fa bene all’organismo se assunto quotidianamente e moderatamente. Il miele con le sue proprietà emollienti aiuta l’intestino, sfiamma le mucose, elimina i rischi dei dolcificanti comuni.
Quanto alle api, auguriamoci che persistano alle malattie del progresso perché se dovessero scomparire la civiltà umana avrebbe segnato la sua fine.

Pranzo re metenna

images.jpgDall’orto alla tavola, il pranzo per la giornata di premiazione di “Echi di poesia dialettale 2016”

La tavola da sempre è stato il luogo della convivialità, dello scambio di conoscenze, interazioni culturali; non importa se la tovaglia è stesa su un tavolo imponente o sulle stoppie sotto un albero.
Condividere il cibo, il vino, è un modo per familiarizzare e abbattere pregiudizi o alterigia. Se poi a tavola si siedono rappresentanti di tutta Italia e qualche parte del mondo, allora la cosa diventa veramente interessante. Lo scorso anno lo abbiamo sperimentato col pranzo comunitario dei poeti partecipanti al concorso e quest’anno lo riproponiamo in modo più complesso e aperto a tutti.
L’idea è di far incontrare i poeti e farli condividere insieme al cibo, le esperienze, l’affetto, l’energia positiva che la buona poesia e il buon cibo può apportare. Pensare di essere tutti uguali, senza presunzione, senza allori, è l’obiettivo che rincorro da tempo e mi intestardisco ulteriormente ogni volta che incontro persone con eccessiva autostima. Ma non solo, è interessante che i poeti incontrino il pubblico al di là della sterile premiazione dove non c’è scambio ma solo ascolto da una parte e protagonismo dall’altra.
Da tutto ciò è nata l’idea di organizzare il pranzo comunitario nel Museo delle Cose Perdute di Gaetano De Vito. La scelta dei prodotti è stata accurata, si è optato per ortaggi raccolti il giorno prima nell’orto di Terramica di Rocco Albanese e preparati
al momento da Rocco stesso (Terramica in cucina) per non perderne il gusto e la fragranza. Prodotti a Km zero per riprendere quel discorso che tanto ci sta a cuore: la salvaguardia della nostra identità contadina incompatibile con l’agricoltura intensiva che sfrutta la Grande Madre e gonfia le filiere dell’industria agroalimentare. Così i nostri poeti potranno godere dei pomodori dolcissimi maturati sotto il sole del sud, conditi con l’olio delle migliori olive d’Italia. E cosa dire di peperoni (i peperoni dalle nostre parti si mangiano anche a colazione), melanzane, patate, fagiolini.
Lo abbiamo chiamato “Pranzo re metenna ‘ncopp’o mesale sott’auscio”(Dialetto di Apice (BN) (pranzo della mietitura sulla tovaglia sotto il bosso). Ecco il menù:
‘Nzalata ‘e pummarole (Insalata di pomodori e altri ortaggi)
Patane e peparuli fritti (Patate e peperoni fritti)
Fagiolini a ‘nzalata   (Fagiolini in insalata con aglio e menta)
Mulegnane a fungitielli (Melanzane a cubetti)
Pasta con verdure.
Inoltre salumi rigorosamente locali sono donati dalla macelleria Tordiglione di Bonito, e formaggi del rinomato caseificio Zitola di San Sossio Baronia.
Dunque, grazie all’ospitalità di Gaetano Di Vito, all’impegno di Rocco Albanese, ai salumi Tordiglione e ai formaggi Zitola, a Mario Vitale e la sua chitarra, alle poesie dei poeti recitate tra un boccone e l’altro, quest’anno la giornata di premiazione prenderà un profilo differente. Invito gli interessati a prenotarsi per non correre il rischio di restare in piedi.

Giovani e agricoltura: l’azienda agricola Iside in Pietradefusi franca molinaro

Lavandula_angustifolia_51264_235705.jpgLe campagne del Sud vanno sempre più spopolandosi per leggi sfavorevoli all’agricoltura, per problemi ambientali ed anche perché la classe di agricoltori che rappresenta gli ultimi contadini, si è trovata di fronte alla richiesta di imprenditoria agricola. Quest’ultimo dato è stato fatale per la categoria formata nei campi e non all’università, capace di vedere ancora la terra come la Grande Madre da rispettare e non la “cosa” da sfruttare fino all’estremo. Le terre, così ambite solo un cinquantennio addietro, son diventate oggi un aggravio fiscale che chiede denaro e non produce reddito. Sempre più vigne abbandonate, uliveti malridotti, seminativi trasformati in pascolo se mai ci fossero pecore da condurre. I giovani che si vogliono cimentare in agricoltura sono caldeggiati da leggi illusorie che promettono aiuti ma dissanguano prima di iniziare l’attività. Lo stato, le indicazioni internazionali vanno sempre più incontro alle grandi filiere industriali affossando il piccolo agricoltore già caduto in miseria. Scegliere di essere agricoltori oggi, con tutte le difficoltà della categoria, è da folli o da coraggiosi. Personalmente opto per la seconda ipotesi, bisogna avere un gran coraggio per decidere di mettere la laurea nel cassetto, prendere l’antica zappa e avventurarsi nei campi. È il caso di Simone Petrillo e Maria Grazia De Gregorio, che han creato l’azienda agricola Iside, in Pietradefusi. Questi due ragazzi hanno recuperato il terreno di eredità e, pur non essendo nati da genitori contadini, dopo gli studi scolastici si sono specializzati nelle tecniche di coltura delle erbe officinali. A questo punto hanno presentato richiesta di contributo sperando di usufruire dei fondi a disposizione per le giovani imprese, non immaginavano minimamente tutte le avversità seminate sul loro cammino, ma sono stati coriacei, forse la terra stessa gli ha dato la tenacia di arrivare fino in fondo. Alle difficoltà burocratiche si addiziona spesso la grettezza del pensiero paesano, i giovani infatti sono stati sospettati di chissà quali colture, soggetti a sopraluoghi della pubblica sicurezza, dicerie ecc.
Ma quando si è giovani e con le idee chiare, non manca la determinazione per proseguire in un cammino intrapreso, soprattutto se, per iniziare una nuova attività si mette in gioco tutto quanto si possiede. Finalmente la piana di Vertecchia, coi suoi ettari di fertile terreno, si è colorata di lilla e azzurro, i fiori della salvia e della lavanda, del timo, del rosmarino, a breve sarà in piena fioritura anche l’achillea e l’elicriso coi capolini bianco latte e giallo cromo. Stuoli di api si ubriacano tra i pollini e il nettare per andare a produrre mieli ricercati. Da queste piante, a maturità, verranno estratti gli olii essenziali destinati a innumerevoli impieghi. Per mancanza di manodopera i ragazzi eseguono personalmente ogni intervento di piantagione, sarchiatura, raccolto, tutto rigorosamente a mano e biologico.  Qualcuno dirà che queste non sono colture storiche, che non hanno radici nelle nostre terre, che i nostri contadini sono abituati al tabacco, ebbene, sbagliare è umano, perseverare è diabolico. L’introduzione del tabacco nella Media Valle del Calore, se da un lato ha portato benessere facendo levitare il tenore di vita dell’agricoltore, dall’altro ha snaturato il suo spirito di figlio della terra trasformando quest’ultima in quella cosa da sfruttare indiscriminatamente per trarne il massimo profitto, tra l’altro da un prodotto che andrebbe bandito dalla circolazione.
In quanto alle piante officinali, è ora di recuperare la saggezza della nonna e rimettere la lavanda nei cassetti, antitarlo e profumata, questa pianta definita spighetta di San Giovanni, ha proprietà disinfettante, purificante, antisettica, balsamica, sedativa, antidepressiva, antispasmodica, antinfiammatoria, antipiretica, colagoga. L’olio essenziale ha una composizione complessa in cui rientrano oltre 150 costituenti. Frizionato sulla pelle vi penetra rapidamente ed è rintracciabile nel sangue dopo soli 5 minuti. Anche le altre erbe incontrate in questo campo sono serbatoi naturali di straordinarie proprietà terapeutiche, ricordiamo l’achillea del centauro Chirone, il rosmarino anticatarrale, il timo imbalsamatore e antibiotico, la salvia che da tutti i mali salva, e infine l’elicriso di Apollo, pianta dalle innumerevoli proprietà non ancora scoperte del tutto. Come Grande Madre non possiamo che augurare successo a questi giovani coraggiosi esternando tutta la nostra ammirazione e disponibilità a diffondere la loro attività.

Bambini e melograni a Bonito di franca molinaro

DSCN4849.JPGBonito 2 giugno 2016: Manifestazione  emozionante tra giovani genitori, bambini e piccoli alberi da mettere a dimora e averne cura proprio come i cuccioli d’uomo. E’ una iniziativa dell’amministrazione comunale sostenuta dalla comunità bonitese sensibile a questo tema. Ogni anno viene messo a dimora un melograno per ogni bambino nato, stamane sono stati piantati 14 piccole piante. Lo scenario è il bel cortile del convento Sant’Antonio da Padova. Ho chiesto a Giuseppe Beatrice del perché la scelta è caduta proprio sulla pianta di melograno, ebbene le risposte sono state diverse, prima di tutto il melograno a Bonito è molto comune in ogni siepe, muro antico, orto; è redditizio se si calcola l’allegagione dei frutti quando la pianta raggiunge la maturità, cosa abbastanza veloce, i pomi andranno poi alla mensa scolastica per succhi e marmellate. Il cortile è già ben adorno e tra qualche anno bisognerà cercare un altro sito per continuare l’opera ma questo non costituisce problema piuttosto, il problema serio è quello della scarsa natività che non pareggia la dipartita e l’emigrazione.
Intanto il paese gode questo bel gesto d’amore verso la Grande Madre che tutto sostenta: i bambini sono il futuro, la speranza, il riscatto dell’umanità misera e insulsa, gli alberi sono i grandi spiriti immortali che da sempre comunicano con le dimensioni superiori e all’uomo donano energie e ossigeno senza nulla chiedere nella loro apparente immobilità.
Quanto al melograno, Punica granatum, è una pianta originaria dell’India, nel corso dei secoli ha raggiunto l’Europa e l’Italia. Il suo frutto è un attributo delle Grandi Madri (Era, Atene, Afrodite, Core-Persefone), passato poi al cristianesimo. E’ simbolo per eccellenza della fertilità, della vita ma anche della morte perché, nelle religioni naturali, i due mondi sono il completamento l’uno dell’altro. Nel Museo di Paestum è conservata una statua, probabilmente del VII sec. A.C., raffigurante Era con un bimbo in braccio e la melagrana in una mano, mentre a pochi chilometri, a Capaccio Vecchio, nel santuario della Madonna del Granato c’è l’immagine della Vergine Maria con Gesù bambino che tiene in mano il melograno come se fosse uno scettro.
Intorno al melograno regnava un’aura esoterica ben custodita dai sacerdoti dei templi, Pausania aveva scritto che “la tradizione è di quelle di cui è meno lecito parlare”. Ma ben si sa che la rotondità e sfericità della melagrana rappresentano la caratteristica di Dio creatore, un essere senza origine né fine come lo è il cerchio e la sfera. Tante le leggende che riguardano il melograno da Dioniso a Persefone, e tante le allegorie che prestano il frutto a varie interpretazioni, tra le più belle c’è  uno scritto di San Giocanni della Croce che paragona la melagrana ai misteri divini con la sua moltitudine di chicchi simili alle “provvidenze meravigliose di Dio”.
Per essere più attuali ci piace ricordare che il frutto del melograno è tra i più ricchi di antiossidanti, in particolare è una fonte di flavonoidi che aiutano l’organismo a mantenersi in salute e a prevenire l’invecchiamento precoce.
Inoltre è una fonte di vitamine, soprattutto  A,  C,  E e  del gruppo B.
Contiene anche sali minerali come il manganese, il potassio, lo zinco, il rame e il fosforo. La composizione di questo prezioso frutto si completa con acqua, zuccheri e fibre. La sua ricchezza d’acqua e il suo contenuto di potassio lo rendono un alimento utile per depurare l’organismo e per stimolare la diuresi. Inoltre è benefico per il sistema immunitario, e l’apparato urinario. Quanto alla sua bellezza, tutte le piante lo temono per splendore dei fiori in maggio e ricchezza di fruttificazione nei mesi successivi, poi, a novembre ritroviamo i chicchi nel famoso piatto dei morti come dono e scambio con le anime dei trapassati.