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“Se perdiamo l’amore cosa ci resta” di Qais Alnjlaw , traduzione di Salima Abounnars

DSC_0200Qais Alnjlaw poeta tunisino di Jerissa ha partecipato a “Echi di poesia dialettale 2016” nella sezione “Poeti dal Mondo”. La sua poesia è stata trasmessa dalla radio tunisina e lui è stato intervistato. Il giornalista fa un’analisi della poesia che non potrebbe fare nessun bravo critico occidentale perchè analizza i suoni della lingua araba e il coinvolgimento emotivo di chi la parla.
Qais ci ha inviato l’audio e noi, grazie a Salima abbiamo potuto comprendere quello che è stato detto.
Un grazie speciale al nostro poeta tunisino per il suo grande e commovente messaggio di pace.
“Inizia dicendo il nome del poeta e legge parte della poesia… segue con il commento:
Qais Alnjlawi proveniente dalla Al-Jarissah, ha partecipato con questa poesia ad un concorso in Italia, quindi il componimento ha attraversato i confini della Tunisia giungendo dall’altra parte del Mediterraneo, e ciò mi rende molto felice oltre che fiero.

Nella poesia Qais ripete più di una volta il verso “se perdiamo l’amore cosa ci resta” che può essere considerato una sorta di ritornello, quindi la lirica potrebbe adattarsi ad un ritmo e diventare canzone.
Nella poesia si avverte un lamento, infatti la lirica è una di quelle che esprimono sofferenza,  in essa il poeta utilizza spesso  le lettere: “ح “ “ق” “ع”, lettere arabe gutturali, che, se vengono pronunciate più di una volta, causano un dolore alla gola, quindi la lirica è una poesia di sofferenza.
Con questi versi, il poeta ci ricorda Mahmoud Darwish famoso per una celebre poesia “di sofferenza”. Qais ha espresso nella sua poesia di essere amico degli affamati, ispirandosi al celebre poeta arabo Urwa ibn al-Ward, il quale in una delle sue poesie disse di suddividere in tanti corpi, per sottolineare la sua vicinanza ai poveri.Ti ringrazio Qaies El Najlawi e riprenderò la tua poesia in altre puntate”.

http://www.radiokef.tn/podcast_type/%D8%A8%D8%B1%D9%86%D8%A7%D9%85%D8%AC-%D8%A7%D9%84%D9%81%D8%B1%D8%B3%D8%A7%D9%8610-%D8%A7%D9%88%D8%AA2016/

Se perdiamo l’amore cosa ci resta

Ho inciso il nome della mia nazione su un filo spinato,

illuminato la mia scrivania e i miei libri

con una lampada ad olio antica,

che a tratti si accendeva e si spegneva

e ho illuminato le mie piogge con poca legna

attendo con estrema pazienza la fine della pioggia,

intanto i piccoli del quartiere sono affamati

e questo povero mendicante, dimenticato

alla sofferenza del sole e dello spirito..

Se perdiamo l’amore cosa ci resta

se con urgenza vendiamo i nostri sogni

e compriamo illusioni per appagare l’orgoglio della Presunzione,

dimenticandoci che un giorno regaleremo le membra all’ignoto.

Se perdiamo l’amore cosa ci resta

Io sono un fervente alleato degli affamati,

dal vento vi arriva la voce della mia commiserazione,

i miei giorni si prolungano per compassione

allora il vento quasi commiserato mi raccontò la storia del lupo,

di quando con arroganza si recò nella dimora del povero del quartiere,

disperdendo il sogno della baracca e allontanandosi,

lasciando ai sogni stracciati di quel misero solo un dolore nascosto.

Lui in festa e le lampade dei poveri senza olio

ma presto, i giorni gli voltarono le spalle

e nei vicoli si persero le sue parole

la fame disperse le sue membra,

la notte alimentò le sue allucinazioni

da non consentirgli neanche un po’ di sonno

a lui ormai son giunte solo le tenebre turbolenti,

portando tempestose sofferenze

Se perdiamo l’amore cosa ci resta.

Vita da pastore, papà mi racconta, cortometraggio di Luigi D’Agnese

DSCN5116.JPGChi si occupa di recupero in campo etnografico sa quanto è indispensabile cogliere l’attimo e non aspettare tempi migliori per raccogliere anche un solo piccolo frammento sia esso di canto, di proverbio, di costume. Luigi D’Agnese, custode della tradizione montemaranese, con la sua creatura, il museo etnomusicale, e la mole di registrazioni e notizie raccolte nei suoi testi, continua imperterrito per la sua strada, e regala al paese un altro piccolo pezzo di storia, alla sua famiglia un ricordo incancellabile, alla ricerca un tassello da collocare nel suo spazio e da spulciare nel momento in cui gli addetti ai lavori ne avranno necessità. Si tratta di un breve cortometraggio in cui Luigi intervista il padre pastore e macellaio; l’uomo con un senso di nostalgia ma anche di tristezza per la mole di sacrifici fatti, riesuma i ricordi e la fatica della gioventù, i chilometri percorsi a piedi per andare alle fiere a comprare gli agnelli, poi il pascolo sulle alture del paese, la collaborazione della sua donna nei momenti più impegnativi. Questo lavoro di recupero iniziò negli anni ’70 quando il fratello di Luigi, Generoso, emigrato in America, per sua passione cominciò a studiare le tradizioni di Montemarano. Luigi, 15 anni più giovane del fratello, ha tato seguito alle ricerche conferendogli dignità di studio scientifico e interagendo anche con studiosi del calibro del prof. Giovanni Giuriati. Luigi, con la sua opera ha contribuito a mantenere viva la memoria di Montemarano, ha iniziato quando nessuno ancora si occupava dell’argomento, parlo degli anni in cui era di scena il “modernismo”, quando il “vecchio” era roba da dimenticare. La storia dei poveri era roba da cancellare come tutta la civiltà preterremoto che, l’evento sismico, la classe politica, gli interessi di alcuni, sfaldarono e in certi casi distrussero. Alcuni paesi li cancellarono  con le ruspe ricostruendo sulle macerie o in un PR anonimo in cui gli abitanti portano ancora dentro il trauma dello sradicamento. Forse è stata propria questa tragedia a incutere nell’animo di alcuni pionieri la necessità del recupero almeno dei beni immateriali. Lo vediamo con D’Agnese a Montemarano ma anche con Gerardo Lardieri a Teora, dove il recupero resta fedele all’originale, senza aggiunte o modifiche.
Agli inizi, quando cominciammo ad occuparci di cultura popolare, da non addetti ai lavori ma con in cuore un gran desiderio di fare, infuso dalle letture dei grandi dell’antropologia, da contatti con bravi antropologi attuali, eravamo considerati poco in provincia, perché l’argomento che andavamo a studiare era “povero” di suo. Noi poveri menestrelli abbiamo insistito quando nessuno ci ha considerato, senza soldi, quasi sempre senza contributi delle istituzioni se non piccoli aiuti concessi da qualche sindaco sensibile all’argomento.  Poi è arrivata la moda del “popolare”, allora alcuni politici si organizzano per parlare di ricerca, ma in questo son loro a discuterne in vista di progetti e contributi economici, e non chi ha lavorato per vent’anni gratuitamente e anche con competenza. Improvvisamente le masse, seguendo una moda, non si sa bene da chi imposta, cominciano a ballare i ritmi nostrani e chi ha l’aggancio giusto riesce a lanciare la propria “tradizione” arrangiata, modificata, trasfigurata, ma con quella nota che riporta all’origine. Paesini anonimi diventano il centro del mondo, sono invasi da forestieri che si rovesciano nel territorio spopolato per tutto il resto dell’anno, ne modificano le connotazioni culturali, trasfigurano il senso di quella ballata, sia essa causata dal morso di un ragno o momento ludico e ricreativo nell’ambito di attività agricole. È questo un bene o un male, non possiamo stabilirlo come non possiamo fermare e cristallizzare quell’attimo che abbiamo immortalato con la telecamera o con l’mp3. Fa parte della natura delle cose il continuo divenire e la tradizione è tale perché testimonia l’evoluzione culturale di una etnia. Noi ricercatori senza patente non avremo mai corone di alloro sul capo, siamo fortunati se qualche studioso del settore ci prende in seria considerazione. Ma questo non deve mortificarci, noi lavoriamo per costruire l’archivio della memoria delle nostre genti, se non ci fossimo noi, o qualche studioso appassionato che saltuariamente ci visita, le nostre genti sarebbero sconosciute, e comunque già è un gran passo avanti riconoscere “voce” la cultura popolare. Si pensi per quanto tempo  è stata bistrattata, il dialetto considerato cosa vile e incivile, le sacralità dei popoli considerate superstizioni. Grazie a studiosi più sensibili è stato valorizzato anche l’operato di noi ricercatori “minori”, è stato riconosciuto valido soprattutto se ben fatto e D’Agnese, in questo non ha da invidiare niente a nessuno, il suo lavoro è proprio come richiesto dagli addetti, di fedele trascrizione e registrazione attraverso i mezzi che la tecnologia offre. Se poi alcuni paesi fanno di una tradizione l’occasione per lanciare il proprio territorio, allora credo che dobbiamo riconoscere la bravura dei sindaci i quali, con amore per la propria terra e naturalmente anche per lustro della propria amministrazione, hanno trovato la chiave per aprire alcune porte. L’importante è non fare la guerra nei comuni, tra i comuni, tra le associazioni, tra gli studiosi, piuttosto prendere spunto dagli antichi Sanniti e pensare a una guerra “sociale” che accomuni le forze e faccia barriera contro energie ben più potenti e subdole delle nostre povere menti e soprattutto fuori dalla portata della nostra comprensione. Purtroppo è costume dalle nostre parti, fare la guerra tra poveri e, se qualcuno ha indole pacifica ci pensano altri a sollevare invidia, fraintesi, sobillazione.
Infine mi piace segnalare la presenza, nella serata di proiezione del cortometraggio, oltre ai cantori di Montemarano, di un gruppo canoro femminile proveniente dal Cilento, “Le Capere”, quattro ragazze che stanno studiando fedelmente i canti campani e li riproducono con la loro voce e con gli strumenti musicali della più antica tradizione.

franca molinaro

A Teora trionfa l’amore

DSC_0145.JPGdi franca molinaro
Festival delle serenate e Premio Poesia d’amore echi di poesia dialettale 2016.

Piazza gremita a Teora per l’ormai affermato Festival delle Serenate diretto da Gerardo Lardieri e sostenuto dall’Amministrazione Comunale. –In questi anni si sono delineati due eventi che caratterizzano Teora- ha detto il sindaco Stefano Farina -uno d’inverno con la maschera tipica del paese, lo Squaqualacchione, e uno d’estate con le serenate-. Il tutto a ritmo dei tempi naturali, con il passaggio da una stagione all’altra nel suo divenire e nel rapporto ancor saldo tra il Teorese e la sua Terra, le sue tradizioni. In questo s’innesta lo scenario artistico curato da Nicola Guarino con la pinacoteca e le continue mostre d’arte ed eventi culturali. Insomma, non si potevamo concludere in luogo migliore il nostro Concorso internazionale “Echi di poesia dialettale 2016”  per la consegna del Premio Poesia d’Amore, assegnato  a Francesco Antonio Marini venuto da Novara, ma originario di Serracapriola (FG), con la poesia “Te voje bene”. Ecco le motivazioni: “Il componimento di Francesco Antonio Marini è epigrafico ma efficace, concentra nei brevi versi una poesia universale che origina nell’amore per la sua donna per diffondersi  nell’universo visibile dove il sole e la luna, innamorati impossibilitati, si rincorrono tra la notte e il giorno. Ma al poeta, questo dramma sembra non essere tale, avvolto nel suo amore contemplativo gusta la gioia di godere la visione della sua donna quando tutto il mondo dorme”. Francesco Antonio Marini, nasce dove il “grano è il re e l’oliva la regina”. A 18 anni si arruola nell’Aeronautica Militare. Sin da bambino, legge e scrive poesie, ma è solo in età adulta che riesce a “conservarle” in una cartella che chiama semplicemente : “I miei pensieri”. Con la stessa modestia ha ritirato il premio, naturalmente dedicato alla moglie. Tutto s’incastra in questa sera di poesia e tenerezza e, a consegnare il trofeo non poteva che essere una bella coppia della grande Madre, Yvonne e Felice. Presenti il presidente di Giuria Emilio De Roma, il fotografo Ciriaco Grasso ed altri collaboratori. Marini è stato ospite del comune ed è ripartito in mattinata portando con sé il bel ricordo dell’ospitalità nella piccola cittadina irpina. La serata è stata ricca di emozioni, musica e canto napoletano e romanesco. Naturalmente non potevano mancare i Menestrelli di Teora che anche quest’anno hanno messo in scena con Emidio Natalino De Rogatis, Mara Casciano ed altri attori preparati per l’occasione, una sceneggiata teorese tra l’ilarità della folla, la musica della buona tradizione locale e la simpatia degli interpreti. Le colorite espressioni dei due sposi maturi contrastavano la compostezza della coppia giovane, assennata e razionale, come spesso capita nella realtà. Vecchio e nuovo che si incontrano, si supportano, proprio come spiegava il sindaco in apertura: -Un piede nel passato, uno nel presente e lo sguardo volto al futuro-.
Ogni anno si ripete la magia dell’amore, la ragazza è al balcone, il ragazzo sale la scala e le porta una rosa, sono abbracci e baci e la musica accompagna la scena illuminata dall’occhio di bue; la piazza rivive la bellezza di quei momenti e ogni cuore, anche quello che ha dimenticato i palpiti sconnessi, per una sera compartecipa quell’atmosfera densa. La musica è prima complice, le parole e la voce argentina dei menestrelli realizza il resto, così diventano “innamorate anche le penne cucinate da Pietro Acocella che non si possono descrivere a parole, ma vanno assolutamente assaggiate, magari nel dopofestival quando ogni fatica diventa un sorriso e il direttore finalmente si rilassa con amici e artisti. Anche questa è tradizione e me lo racconta Paolo Ciccone con una certa nostalgia di quando, dopo la festa ci si fermava in casa di amici e si aspettava l’alba.
Questa di Teora, dunque, non è una semplice festa di piazza, è una presa di posizione verso la propria identità che ha corso seri rischi. Rasa a suolo dal sisma dell’80, la cittadina e i suoi abitanti portano i segni dolorosi nell’architettura innaturale e nei versi dei poeti. Ma la rassegnazione non sembra cosa che li riguarda e insistono a mantenere il patrimonio immateriale, quello che nessuno può abbattere o cancellare perché in ognuno è ben chiara la coscienza di essere parte di un unicum solido e indivisibile. Un plauso dunque a Gerardino Lardieri che si adopera per il recupero delle sonorità antiche reclutando giovani discepoli per il passaggio del testimone: -Dobbiamo trasmettere ai giovani le cose in cui crediamo, siano essi valori, canti, ricette, musica-. Noi della Grande Madre riconosciamo il grande valore di Gerardo Lardieri e della sua voce, egli sa spianare ogni malumore e riportare il sorriso anche sui visi tristi. Conosciamo anche il valore della nostra Daniela, giovane musicista impegnata sullo stesso fronte, e riteniamo la loro presenza  una benedizione per ogni momento condiviso.

 

Calitri 31 luglio, “Echi di poesia dialettale” premio alla memoria di Vito Acocella

DSC_0237Recuperare, valorizzare, riscattare, sono i principi su cui fonda il Centro di ricerca “La Grande Madre”. Questo è valido per una festa, un rito, un canto, il linguaggio, una pianta, un luogo, una persona. Per quanto riguarda il premio alla Memoria è il caso di sottolineare il terzo intento: riscattare. Si proprio riscattare dall’oblio la memoria di una persona che si è distinta nel campo della ricerca etnografica, nel dialetto o in qualsivoglia servigio reso al territorio e alle sue tradizioni. Quest’anno, il riconoscimento, supportato dagli alti patrocini dell’UNESCO, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, dalla Regione Campania e da molti comuni e associazioni, è stato assegnato alla memoria di Vito Acocella precursore della ricerca etnografica in Alta Irpinia. Quando si parla di Acocella si pensa subito allo storico che, formatosi nella linea meridionalista di Giustino Fortunato, ne assimila il metodo e il rigore scientifico. La sua opera di ricostruzione della storia dell’Alta Irpinia, tra Calitri e circondario, è fondamentale per lo studio delle vicende di questa terra interna, aspra e martoriata. Raramente, invece, si fa riferimento allo studioso dell’etnografia irpina, probabilmente perché alla materia non si dà mai la dovuta importanza, oppure, non vorrei credere, alcuni studiosi postumi, locali, hanno voluto, arbitrariamente, spigolare nel campo di don Vito senza rendergli il dovuto. Più volte risuonano sulla bocca o sono riportati senza note, i canti raccolti dal sacerdote calitrano quando ancora non si era coscienti del patrimonio culturale delle zone interne. Quando si parla di etnografia irpina si cita D’Amato ma difficilmente ci si ricorda della gran quantità di informazioni riportate da don Vito nei suoi testi. Ha ben compreso questa nostra scelta Giuseppe Acocella, nipote del sacerdote calitrano. Giuseppe Acocella (Stimato amico e collega del nostro prof. Antonio Vincenzo Nazzaro che ha curato la presentazione dell’antologia), è docente di Etica Sociale all’Università degli Studi di Napoli e sindacalista d’avanguardia, componente della segreteria regionale all’epoca di Vincenzo Somma, Irpino segretario regionale confederale; Acocella con la sua presenza diede nuovi impulsi e nuovo volto alla CISL. Il professore, la sera della premiazione ha sottolineato il metodo adottato da don Vito nella ricerca etnografica, un metodo scientifico, derivato dal metodo storico, perché egli era fondamentalmente un bravissimo storico, non tralasciava mai le fonti, punto di partenza di ogni studio che si rispetti.
Angelo Raffaele Salvante, padre della rivista “Il Calitrano”, fondatore del Centro Studi omonimo e della ricchissima biblioteca, nonché ricercatore egli stesso di tradizioni e dialetti, ha ricordato come il loro illustre concittadino non fosse mai stato abbastanza valorizzato in patria. E’ la verità, Acocella in Irpinia non ha avuto il giusto riconoscimento ma la sua Calitri ha a cuore lo studioso, fu proprio il responsabile della biblioteca comunale, Vincenzo Cubelli, a offrire la propria disponibilità quando eravamo sulle tracce di don Vito. Il nostro apprezzamento va anche ad Alfonso Nannariello, nostro contatto, scrittore ed egli stesso etnografo che molto ha raccolto sugli usi e costumi calitrani. Michele Di Maio, sindaco di Calitri, ha ricordato l’impegno dell’amministrazione verso questa illustre figura e verso la cultura in genere, sottolineando la cifra investita per sostenere le attività culturali.
Emilio De Roma, che ha presentato il premio, ha ricordato l’importanza della memoria in un momento difficile quale è quello attuale, la presenza delle giovanissime lettrici, Marianna Galgano e Miriam Maffucci, della moderatrice, giovane direttrice del Calitrano Angela Toglia, è la giusta chiave di lettura, l’anello necessario per trasmettere il messaggio d’amore attraverso il filo invisibile che unisce le generazioni. La Barberia musicale, con i sui canti tratti da Vito Acocella è la dimostrazione che c’è volontà di ricordare e riproporre la tradizione nella sua semplicità, con vecchi strumenti e senza spartiti, cogliendo il valore sociale della musica, sono tonalità a volte imperfette ma comunque strumento di coesione sociale, momento di interazione tra diverse generazioni e ceti, armonia di spiriti se non proprio necessariamente di strumenti; opportunità di scambio culturale e umano che arricchisce e rende persone vive, abitanti di un luogo contraddistinto da sonorità, parole, accenti inconfondibili e unici. Se poi i giovani hanno la volontà di scrivere su un pentagramma i testi raccolti da don Vito, ben venga, a quel punto il passaggio è solo tecnico, la volontà ha fatto il suo corso.
Don Vito amò profondamente la sua terra e questo appare naturale perché ogni studioso sa, per esperienza, che si ama ciò che si conosce, più si approfondisce e più il legame diventa forte, solido.
L’Alta Irpinia è terra di povertà ma anche di gloria antica, di culture scivolate lungo il fiume Aufido, l’Ofanto dai flutti taurini d’inverno e secca estiva. In questa terra baciata dal sole appena s’alza, ad Est dietro il cono perfetto del Vulture, su questo sperone roccioso che fa pensare a una piccola Orvieto se la guardi da Nord, e a un paese della scogliera se la osservi dall’Ofantina, don Vito osservò i costumi della sua etnia, lo fece con occhio attento e delicato, ne trascrisse i caratteri e, sebbene con metodo scientifico, volle volutamente tralasciare quei particolari che gli parvero offensivi per la sua gente. Egli osservava con amore cristiano e con altrettanto amore comprendeva tutti, in questo mi ricorda un’espressione usata da Aldo Grieco nel presentare il mio testo “Proverbi ternari dell’entroterra campano”, “Hai trovato una giustificazione a tutte le cose” mi disse. C’è sempre una giustificazione ad ogni azione se si guarda all’oggetto del proprio studio come a una creatura di Dio e non come a un fenomeno antropologicamente interessante. Don Vito, al contrario degli antropologi padri della materia, che di lì a qualche ventennio conquistarono la scena internazionale, guardava agli umili con infinita misericordia, senza la formazione politica che spesso annebbia un corretto studio olistico dei fenomeni. Con questo amore caritatevole parlò dei Calitrani “menaprete” mal visti dai Cairanesi “cuppuluni”, del pastore calunniato dalla cattiveria del prossimo, del vaccaro che nomava le sue giovenche paragonandole alla figlia del padrone, dell’amore contrastato o deluso, delle invettive ma anche della gioia di un sentimento vissuto ancora nella purezza del cuore. Non compiangere dunque quel tempo di miseria, come ha sottolineato Giuseppe Acocella, ma comprenderne i valori fondanti legati alla correttezza morale e al rispetto della Grande Madre e delle sue numerose creature.

A questo punto le manifestazioni relative al Concorso internazionale “Echi di poesia dialettale 2016” vanno verso la conclusione. Chiuderà il “Premio Poesia d’amore” assegnato a Francesco Antonio Marini da Novara, consegnato nel corso del “Festival delle Serenate” a Teora, alla presenza del sindaco Stefano Farina, del direttore del Festival Gerardo Lardieri che proporrà la poesia musicata, e della cittadinanza tutta.

La tradizione del canto popolare rivive grazie alle musicassette registrate da Antonio Narra di Francesco Cardinale

13874564_10210244188571847_658105631_n.jpgAntonio Narra, un umile etnografo di Montecalvo e il suo notevole contributo per la ricerca etnomusicale. Quando venni a sapere dell’esistenza, in contrada Corsano di Montecalvo Irpino, di alcune musicassette contenenti registrazioni di canti popolari effettuate nella seconda metà del secolo scorso da un certo Antonio Narra, fui assalito dalla stessa frenesia che coglie un archeologo davanti a un nuovo reperto. Prontamente, anche per stabilire un familiare clima di confidenza e fiducia attraverso un riferimento comune, presi contatto con un amico che ben conosceva la famiglia Narra, avendo con essa rapporti di parentela, e di lì a poco ci recammo sul posto. Trovammo ad accoglierci la signora Gina che, con affabile cortesia, ci descrisse sommariamente il contenuto delle audiocassette: “Mio padre registrava di tutto: la sera o nei giorni liberi ci riuniva in casa, e mentre lui suonava l’organetto noi cantavamo; spesso coinvolgeva anche persone del vicinato. Amava collezionare quanti più canti possibile”.

Ritornai sul posto qualche settimana dopo, per pregare la signora di prestarci i supporti al fine di consentirci di studiarne e digitalizzarne il contenuto. Ma ben presto ci accorgemmo che i nastri, a causa dell’usura, non erano più in buono stato. Alcuni erano recisi e tenuti insieme alla meglio con nastro adesivo, tanto da comprometterne il funzionamento; in altri, i lembi della parte tagliata fuoriuscivano dagli appositi spinotti e necessitavano di essere più accuratamente fissati. L’audio risultava spesso ovattato e in alcuni casi era appena udibile; inoltre un fastidioso fruscio disturbava l’ascolto. Occorreva un lavoro certosino ed un minimo di esperienza tecnica per recuperare quelle preziose testimonianze. Fin da subito, mentre operavo, mi resi conto che, al di là della insufficiente qualità audio, ciò che in realtà mi interessava, e cioè il contenuto documentale, era proprio quello che speravo di trovare: il vissuto di una comunità raccontata attraverso i canti popolari e la conferma che alcune composizioni, già da tempo presenti nel mio archivio seppur con trascurabili varianti, fossero realmente autoctone. Per la prima volta trovai anche composizioni eseguite con l’armonica a bocca; tale strumento da noi è detto sunetto. Gli strumenti della nostra tradizione, diversamente dall’entroterra napoletano, non sono molti: oltre al sunetto abbiamo l’organetto, che è lo strumento per eccellenza, detto abruzzisiello; poi ci sono la fisarmonica, il flauto di canna (fraulu) e le castagnette. Ben tre di questi strumenti sono presenti nelle registrazioni di Narra, oltre, ovviamente, a canti monodici e polivocali.

 

Quando ancora i nuovi media, specie la televisione, non erano così invadenti e soprattutto non erano ancora diffusi capillarmente, Antonio Narra (l’autore delle registrazioni con la passione per l’organetto) ebbe a suo tempo il grande merito di capire l’enorme potenzialità dei nuovi supporti tecnologici e il ruolo che avrebbero avuto nel rendere materiale, tangibile, quel patrimonio che fino ad allora risultava impalpabile. Grazie ad essi era possibile fissare su nastro magnetico quello che (al momento) era ben nitido nella sua memoria e in quella dei suoi concittadini, per poi trarne godimento riascoltandolo subito o anche dopo decine, se non centinaia, di anni. E ancora, era possibile catturare i fuggevoli minuti di una performance musicale e così fermare il tempo, tramandando ai posteri la propria arte. Narra aveva capito che la nuova tecnologia (nello specifico un registratore a bobina) permetteva di fissare e richiamare i ricordi in maniera assai più pratica ed efficace di qualunque annotazione scritta a penna.

 

Chissà se ad Antonio, mentre effettuava le proprie registrazioni, fosse mai venuto in mente che nello stesso periodo altri, ben più titolati di lui, stavano facendo la stessa cosa; studiosi che hanno costruito, attraverso saggi e altre forme di divulgazione, l’etnomusicologia italiana. Veri e propri pilastri su cui poggia la recente storia del canto popolare e della cultura orale di ogni regione: Ernesto De Martino, Roberto De Simone, Diego Carpitella e Roberto Leydi, per citarne alcuni. E proprio l’ipotesi che non ne fosse consapevole rende ancor più meritorio il lavoro di Narra. Antonio era in grado di suonare ad orecchio vari strumenti, ma non aveva mai fatto studi da musicologo. Aveva nel sangue i canti e le melodie delle nostra tradizione e non fu distratto dall’invasione della musica pop di provenienza oltreoceanica; la magia dei suoni che sprigionavano il suo organetto o la sua armonica a bocca mal si conciliava con la musica della beat generation. Nella sua mente era ancora vivo il genere musicale di Chiara fontana (Trasmissione radiofonica ideata da Giorgio Nataletti, dedicata alle tradizioni musicali d’Italia, andata in onda quotidianamente a partire dal 1955 sulla terza rete della Rai. Narra conosceva bene questa trasmissione, che infatti figura tra i suoi appunti.), che proponeva quella musica tradizionale che di lì a poco sarebbe stata soppiantata, soprattutto a causa del boom della televisione, che proponeva scenari musicali di tutt’altro genere: gruppi nostrani di musicisti vestiti in modo eccentrico, con capelli lunghi fino alle spalle (venivano chiamati “capelloni”). Questi si rifacevano alle canzoni dei Beatles o, più in generale, a quel sound definito British invasion, e dimenavano le anche come Elvis Presley. Narra, pur non disdegnando il nuovo, rimaneva legato alle tarantelle e alle serenate di Montecalvo. Niente poteva impedirgli di entrare nelle case degli abitanti del suo circondario per rallegrarne le feste con le sue magnifiche sonate nostrane.