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Festival delle erbe 2016, San Giorgio del Sannio

2016-09-24 18.22.05.jpgFestival delle Erbe per la prima volta in Campania                           di Franca Molinaro Per la prima volta approda in Campania il Festival delle erbe organizzato da Michele Meomartino e un folto gruppo di collaboratori, associazioni e persone che credono in questa bella iniziativa. Il Festival  si svolge ogni anno in una regione diversa. Quest’anno abbiamo avuto la fortuna di ospitare la manifestazione a San Giorgio del Sannio nella suggestiva cornice del chiostro del convento francescano in Piazza Immacolata. Incuriosito il sindaco Mario Pepe si è intrattenuto per comprendere l’originalità della manifestazione, ed è veramente una novità per le nostre contrade ormai così poco avvezze all’idea di confrontarsi con la natura e le sue cose, comunità cittadine così lontane dall’agricoltura sebbene tutt’intorno, per fortuna, i campi siano ancora coltivati. Contrariamente a quanto immaginavo, ho trovato un pubblico attento e interessato, curioso di conoscere e di provare gli olii o le ricette di “Menesta asciatizza”. In verità l’attenzione non è venuta meno in nessun momento perché ogni intervento era studiato nei minimi particolari e riguardava il mondo naturale, l’agricoltura, le erbe spontanee, la cura naturale del corpo e dello spirito. Istruttive le passeggiate di raccolta e riconoscimento curate da Daniela Verbena della Casa delle Erbe di Casaldiani, i laboratori di pasta fresca con erbe di Antonio D’Andrea della Casa delle Erbe di Capracotta, la conferenza sulla Stevia di Giancarlo Pepe. Questo intervento è stato di notevole interesse per le prospettive che apre all’agricoltura ormai vedova del tabacco, coltura che ha caratterizzato per decenni i nostri orizzonti. La pianta pare essere abbastanza rustica alla coltivazione e segue lo stesso iter colturale di Nicotiana, importante, spiegava Pepe, sarebbe abbattere i tempi di lavorazione evitando l’essiccazione ma, questa opzione sembra inconcepibile per la cultura di queste contrade. Un salto nell’immaginario collettivo sannita lo ha permesso un bel documentario di Francesca Gerardo dell’associazione CAAT, una ricerca sul campo tra piacevoli sonorità dialettali e vecchie leggende di streghe, janare, mammane, riti magici tra scampoli di storia e credenze popolari.  Domani sarà la volta del Gas con Alessio Masone e la filosofia del soldo corto, di Simone Petrillo e Mariagrazia De Gregorio dell’Azienda Iside, i giovani coraggiosi che hanno sfidato la burocrazia ed hanno vinto grazie alla loro tenacia. Il dottor Francesco Santucci parlerà del cibo nella sua valenza naturale, emozionale e simbolica. Spazio ancora per i laboratori, cosmesi naturale dell’Azienda Oro del Sannio, la panificazione naturale con Anna Russo e gli antichi grani, birra artigianale. Da non perdere il laboratorio delle erbe tintorie di Aurelia Palmieri. E poi ancora terapie naturali, Reiki e Shiatsu, Ashtanga Yoga.
Quello che lo spettatore dovrebbe cogliere in questo Festival non è la nozione su quella pianta, quella pratica terapeutico-spirituale, quel cibo senza glutine o vegano, il senso che va assolutamente sottolineato in tutto l’intreccio di attività e conferenze è la filosofia naturale dell’esistenza, il riappropriarsi della vita semplice, intima e profonda, della propria spiritualità e della propria serenità. Il ritorno alla natura è il mezzo più economico per rifuggire le nevrosi mentre, il rispetto della natura è l’unico mezzo per garantire una progenie. Se vogliamo che i nostri geni popolino ancora il pianeta dobbiamo prendere immediatamente coscienza della gravità della situazione, non aspettiamoci che lo facciano le multinazionali o i politici responsabili dell’economia internazionale, la “rivolta” è sempre del popolo e se lui vuole la sua volontà è sovrana. La moltitudine può se comprende la via giusta e noi, profeti folli, abbiamo il dovere morale di insegnarla, senza presunzione, solo condividendo il nostro bagaglio esperienziale.
L’uomo dovrebbe capire che la sua sopravvivenza dipende dalla natura, possibilmente sana, in Essa trova ogni risposta ed ogni rimedio. La Natura è Grande Madre che accoglie nelle sue braccia la vita e la morte e di entrambe stabilisce la qualità.

Nel cuore della Campania:Montevergine

 La Grande Madre incontra l’Unitre di Grosseto, terza tappa: Montevergine, di franca molinaro

2016-09-18 10.36.53.jpgLa mattinata si prospetta grigia di pioggia e nebbie, sulla vetta del montagnone il cielo è nero come la notte, il meteo mette temporali. Ma la Mamma Celeste ci accompagnerà e permetterà alla comitiva di visitare la sua abbazia. Gli amici toscani sono un po’ titubanti nel leggere le indicazioni della funicolare: quota stazione a valle mt. 528, quota stazione a monte mt. 1262, dislivello mt. 734, lunghezza della linea mt. 1669, seconda in Europa per dislivello, fino al 64%. Come non condividere lo sgomento nell’osservare i binari che salgono tra le nuvole e scompaiono nel grigiore del cielo, qualche commento sfugge nell’attesa della partenza. Poi il vagone, la cui ideazione risale al 1882, inizia a salire dolcemente, la velocità è di 4 metri al secondo, non si avvertono rumori e i più si tranquillizzano. A mano a mano che risaliamo il costone ripidissimo della montagna vediamo il paesaggio a valle rimpicciolirsi, il pese di Mercogliano quasi scompare nella nebbia grumosa. A metà percorso il binario biforca e il vagone che scende sembra investirci ma il meccanismo è perfetto e pur sostenuti da un’unica fune i mezzi continuano la loro direzione. Ora  la scatola di latta si inoltra in una galleria abbastanza lunga. Oltre il tunnel c’è la pioggia, siamo saliti notevolmente tanto da trovare un altro clima, il paesaggio intorno si fa interessante. Per tratti il percorso è tagliato nella roccia, in altri si sporge su strapiombi da capogiro. Superato metà tragitto non si vedono più i tornanti della strada né il sentiero pietroso che percorrono a piedi i pellegrini. La natura è selvaggia e la vegetazione accusa l’altitudine, i castagni hanno ceduto il passo ai lecci e agli aceri, poi il bianco calcareo si mostra in tutta la sua bellezza con pochi ciuffi di festuca e bianco Cerastium tomentosum, qua e là esemplari di Asperula dai fiori candidi fanno capolino sotto la pioggia. L’arrivo è una liberazione per qualcuno, una delusione per me che ammicco per scorgere qualche esemplare botanico sconosciuto. L’abbazia è tutta in restauro, una metà non è visitabile, si accede solo ai presepi che lasciano i visitatori a bocca aperta, alla chiesa dove c’è la messa e alla cappella della Madonna dove la bella tavola monumentale della Vergine, tra gli stucchi e i marmi, si offre al visitatore come un tripudio di ricchezze nascoste  dalla scarna facciata romanica. Il tempo è minaccioso ma vivibile e, dopo la visita al santuario ci fermiamo in erboristeria per curiosare su preparati noti o sconosciuti. Chiedo dell’Anthemis, il ricercato liquore preparato dai monaci secondo un’antica formula, con impiego di una specie di Anthemis, mi dicono che debbo prenotarlo e che è complicato averlo; la mia richiesta era impertinente e in parte conferma quanto mi era già stato detto: sembra che i monaci, nella loro raccolta sconsiderata, visto la crescente richiesta dei turisti, stiano mettendo a rischio la presenza sul Partenio di questa pianta da vetta. Oltre il porticato ci perdiamo tra i colori, i profumi e i sapori delle bancarelle: Caciocavallo di Montella, salsiccia di cinghiale, castagne del prete, piccoli oggetti di legno sapientemente realizzati. Si acquista qualcosa da portare a casa, un sapore introvabile in Toscana, un ricordo del santuario, poi si torna alla funicolare. La pioggia è battente ma non mi impedisce di curiosare tra la vegetazione ormai autunnale della montagna; scavalco il paracarro e sono su uno strapiombo di mille metri, sotto di me è grigio, le nuvole si toccano con mano, sono un letto morbido a livello del suolo. Le piante non mi riservano novità, sono Eryngium amethystinum a crocchio su un masso, Cerastium tomentosum, Solidago virgaurea, Sonchus tenerrimus, Tussilago farfara, Asperula lactea. Bagnata fradicia decido di rientrare, dopo poco si ridiscende ma il tempo è inclemente e non permette di osservare più di tanto. Ormai la giornata è andata, è stato possibile visitare il necessario anche se non si è potuto godere dei paesaggi della cima né salire oltre il santuario nei magnifici boschi a monte. Nel mezzo del diluvio ci dirigiamo a bordo del pullman, con gran competenza del bravissimo autista,  andiamo sereni verso l’Agri Hosteria dei Cannaruti, un localino semibuio, una sorta di bettola dallo stile molto rustico e ancor più rustico e sostanzioso il cibo offerto. Prosciutto essiccato nelle grotte di Calitri, caciocavallo e pecorino rigorosamente irpino, salsiccia paesana, ortaggi, ecc. ecc. ecc. L’Ultimo incontro con la Campania interna per gli amici grossetani è stato il colpo finale, credo che non dimenticheranno più l’ospitalità affettuosa, il sapore intenso dei cibi, il gusto dei grassi profumati di erbette, il dolce nella teglia del forno a legna, il vino corposo nel coccio di argilla. Mentre il temporale imperversa sul piccolo chalet di legno, gli abiti si asciugano tra umori di vino e di cucina, la stanchezza comincia a pesare sugli addomi rimpinzati, è ora di rientrare. Nel pullman qualche commento tranquillo sui visi soddisfatti mi segnala il desiderio del rientro pur nella gioia di aver trascorso tre giorni piacevoli nel nostro entroterra. Le colline docili della Valle Telesina faranno dimenticare l’aspra Irpina e anticiperanno al cuore un po’ di Toscana. Nelle parole c’è la promessa di rincontrarci, magari sarò io a raggiungerli, chissà…

Nel cuore della Campania: Irpinia e Sannio tra storia e tradizioni, natura e credenze di franca molinaro

Grazie all’impegno del dott. Aldo Grieco, La Grande Madre incontra l’Unitre di Grosseto guidandola tra le bellezze dell’entroterra campano.

2016-09-17 10.43.32.jpgIeri è arrivata una comitiva di turisti da Grosseto, tutti stagisti della Unitre di Grosseto, guidati dal dott. Aldo Grieco loro docente e vicepresidente del Centro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre”. Il primo pomeriggio è stato dedicato alla visita di Benevento col centro storico, il museo provinciale, il duomo. Questa mattina, invece, la comitiva si è inoltrata nel cuore dell’antico Principato Ultra. Prima tappa la capitale, Montefusco con il suo carcere borbonico e l’oratorio di San Giacomo, il tutto illustrato dall’ottima guida. I vicoli stretti e solitari del paese hanno colpito la curiosità dei trenta Toscani volenterosi di capire ogni cosa e attenti ad ogni sfumatura di paesaggio e d’animo. Tutte persone mature, di cultura ma di una modestia ammirevole, è questo il  turista che occorre alle nostre piccole comunità, uno spirito capace di accostarsi alle nostre realtà con l’intento di comprendere e non giudicare, un animo capace di meravigliarsi di fronte alle cose semplici, alla natura, alle pietre, alla storia, brutta o bella ma che comunque trasuda dalle mura antiche dei piccoli centri. Ho apprezzato il religioso silenzio nell’ascoltare di torture all’interno del carcere, ho condiviso con loro quel brivido che sale dalle fondamenta e accappona la pelle, quel dolore che la vecchia struttura ha conservato attraverso i secoli e che non si può non avvertire come una cappa pesante sul capo. Montefusco ha una brutta reputazione a causa del potere che vi ha abitato ma sa innamorare con il lavoro santo degli umili, coi pizzi candidi nati dal ticchettio dei fuselli danzanti in mani sapienti, sa ritemprare nel verde della surta tra verzure e profumi, sa intrigare con storie di santi, preti e briganti. Così ridiscendiamo la china con qualche considerazione storica a fior di labbra del dottor Grieco e ci dirigiamo a Bonito dove ci aspetta Gaetano Di Vito e il consigliere Valerio Massimo Miletti. La prima visita è Casa Pagella con i ricordi del musicista Bongiorno, i cimeli storici, il giardino. Procediamo per il Museo delle Cose Perdute, per la gioia di Gaetano che, probabilmente, dopo “Echi di poesia dialettale” non ha avuto tante visite in una sola mattinata sebbene agosto veda un bel via vai di turisti. Anche qui ho apprezzato lo spirito con cui i nostri ospiti hanno cercato di carpire ogni immagine e notizia nella valanga di oggetti che si è offerta agli occhi. Il museo di Gaetano non è un museo come si intende comunemente ma è la casa della memoria di Bonito, il luogo che conserva notizie di tutti, storie di oggetti, di guerre e personaggi illustri, è un museo a misura d’uomo dove non trovi la simulazione virtuale ma un ragazzo che ti spiega di un vecchio che gli ha consegnato il tal oggetto o di quell’altro ritrovato in una cantina dove si manifestano strani fenomeni. Non è potuta mancare una visita a Zi Vicienzo Camuso, un po’ per curiosità, un po’ per divagare sulla fede popolare che ha fatto della mummia una sorta di “monaciello” dispensatore di bene ma anche capriccioso e dispettoso. Come passa in fretta il tempo quando la compagnia è piacevole, la torre campanaria decapitata suona insistentemente la mezza, ma una visita al convento di Sant’Antonio da Padova è opportuna per visitare la mostra di Ferragamo, il luogo del nostro premio e, in modo particolare le cantine con la suggestiva cisterna.
Il pranzo squisito e veloce alla “Quattro stagioni”, poi il gelato alla “Aloha” e dritti a Santa Caterina per la tirata del “carro”. I nostri amici si sono ritrovati nell’onda umana che trasporta l’obelisco di paglia, la guglia altissima trainata da buoi e tenuta in equilibrio da uomini, inutile commentare lo sgomento per quella veduta, uno spettacolo mai visto che ha generato considerazioni e confronti con altrei riti come quella del trasporto della statua  di Sant’Anna in Toscana. Il pullman ci attende col paziente e impeccabile autista, così ci rechiamo nella Valle dell’Ansanto per visitare la Mefite già cantata da Virgilio nell’Eneide. Questa tappa mi preoccupa un poco perché non a tutti è gradito l’odore di zolfo e il paesaggio lunare che caratterizza il bulicame, ma i nostri amici sono stati subito a loro agio riconoscendo l’odore familiare del fenomeno paravulcanico. Non si sono spaventati affatto come capita a volte ad alcuni visitatori e si sono appassionati alla storia della nostra piccola ginestra declassata, qualcuno si è avventurato oltre lo steccato per osservarla da vicino, forse mai Genista anxantica ha avuto tanta attenzione come oggi. Soddisfatta di aver presentato questa amica ai visitatori cullo in cuore la speranza di ridarle dignità di specie. Non so se, insieme al dott. Grieco abbiamo saputo trasmettere l’amore per questi luoghi, quello  di cui son certa è che queste persone hanno apprezzato e compreso lo spirito con cui abbiamo mostrato i nostri piccoli tesori e nel loro cuore porteranno un ricordo bello della nostra terra. Sicuramente abbiamo gravissimi problemi da risolvere ma dobbiamo aver il coraggio di vedere le cose positive che possediamo e saperle presentare: la storia millenaria, la natura ricca, il paesaggio, le nostre tradizioni uniche. Basta questo per ripartire? Noi della Grande Madre ci crediamo e ci proviamo nel modo in cui siamo capaci. Domani ci aspetta Mamma Schiavona e la salita del “montagnone” antico luogo di culto della Grande Madre Cibele. Ancora una volta confidiamo nella sua protezione, Cibele, Vergine Addolorata o Mamma Schiavona, la radice è unica ed affonda nella sapienza originaria ed eterna.

Il linguaggio dialettale Giuseppe Iacoviello

Giuseppe Iacoviello, nostro collaboratore e poeta della Grande Madre, nonchè ricercatore e autore di molti testi sulla tradizione e sul dialetto della Baronia di Vico (AV), propone quì un sunto storico del linguaggio dialettale.

IL dialetto è un linguaggio DSC_0346.JPGdel luogo la cui derivazione dal greco (διάλεϰτος) significa “parlata”. Esso proviene dall’intreccio uomo – natura e continua tutt’ora l’evoluzione con sfumature che si possono rilevare di luogo in luogo. In Baronia una volta la lingua parlata era l’osco. Detto linguaggio era usato dal Sannio, dalla Lucania e dall’Abruzzo.  Le iscrizioni trovate partono dal V sec. a.C.  Le più importanti iscrizioni sono la Tabula Bantina ed il Cippus Abellanus, conservati presso il Seminario Vescovile di Nola. L’osco è stato scritto in alfabeto latino, alfabeto greco, e anche con alfabeto proprio che è un adattamento dell’alfabeto etrusco. I dialetti oschi comprendono i dialetti dei sanniti, Marrucini, Peligni, Vestini, Sabini e Marsi.

La fonologia osca ha anche evidenziato differenze dal latino: in osco “p” al posto di “qu”  (osco “pis”, latino “quis”), “b” al posto della “v” latina; “f” mediale invece della “b” e della  “d” (osco mefite).

Una ricca collezione di iscrizioni osche è conservata nel Museo archeologico nazionale di Napoli, nella sezione epigrafica (ved. internet).

Molte parole dialettali, attualmente utilizzate nelle varie zone della      Campania, presentano elementi di sostrato di derivazione osca. Ad esempio noi usiamo mangiarci le vocali e in osco non esistevano le vocali “a” ed “o” le quali spesso venivano soppiantate rispettivamente dalla “e” e dalla “u”.

Durante la diffusione del latino la gente semplice, e per la maggior parte analfabeta, finiva per trasformare la lingua imposta in un latino maccheronico.

Inoltre, all’inizio della Repubblica (1946) si usciva dalle frontiere bloccate e dalla guerra per cui la lingua parlata era formata per lo più da un dialetto stretto che si diversificava da paese a paese. I termini abbreviati, con vocali mancanti o con consonante diversa, facevano cambiare suoni, tonalità e persino il significato. Vediamo i seguenti esempi: Al’ebbr’ch’ r’ osc’ (al giorno d’oggi), avessa scì (dovrei andare), cummannà (comandare), gregn’ (covone), ieff’l’ (pieghe), l’atu iuorn’ (ieri l’altro), ruacà (vuotare), ecc.

Da piccoli, andando a scuola si notava che l’italiano era una lingua tutta da imparare. Il dialetto, appreso in famiglia e nell’ambiente, aveva le sue regole non scritte, tramandate di generazioni in generazioni. Apprendere la lingua nazionale era per i ragazzini un enorme sacrificio dove, all’inizio, anche sotto dettatura si facevano errori madornali.

La diffusione dell’italiano attraverso lo studio aperto a tutti, il maggiore contatto con gente di cultura diversa, la macchina, i mass media, ecc., ha raggiunto, nel tempo, un livello tale che il dialetto è stato posto sulla strada dell’estinzione. Di qui il desiderio di raccogliere i dati per non farli cadere nell’oblio. Vivendo qui si son potuti raccogliere un po’ di regole e i vocaboli, oggetti della pubblicazione avvenuta nel 1991 dal titolo ”Baronialinguaggio usi e costumi.

Nel nostro linguaggio il dialetto non è scomparso ma si è modificato molto.

A volte, rispetto all’italiano si presenta abbreviato o cambia solo la pronuncia, ovvero inserisce una vocale o una consonante diversa come:

Nuc’ x Noci;  ong’ o ung’ x Ungere; Pe x Per; P’ccator’ x Peccatore; ecc.

La ricerca di altri vocaboli ha portato ad avere un aggiornamento dei termini, in uso a S. Nicola Baronia. Per migliorare l’esposizione si è provveduto ad aggiungere alle due colonne, scrittura e traduzione, anche la derivazione. Tale aggiornamento, lungi dall’essere esaustivo, serve alla curiosità dei lettori, ma anche e soprattutto agli studiosi di linguaggio dialettale presenti e futuri. La Grande Madre, che è molto sensibile alla conservazione del dialetto, indice ogni anno un concorso internazionale di poesie in vernacolo allo scopo di evitare che la sua perdita porti, inevitabilmente, ad una omologazione culturale.


STUDI DI ETNOBOTANICA: Liberatore Russolillo di Montecalvo e la magia delle erbe franca molinaro

Domenica pomeriggio, invitata da Peppino Beatrice e dalla moglie Nella, col nostro fotografo Ciriaco Grasso, ci avviamo verso l’altopiano di Camporeale dove abbiamo appuntamento con Zi Liberatore, un signore novantenne che conosce le erbe e aiuta gratuitamente le persone che chiedono il suo intervento. L’altopiano assolato regala magnifici paesaggi, stoppie a perdita d’occhio, un gregge col pastore addormentato sotto la sola quercia presente e tre maremmani  che ci vengono incontro. Ci fermiamo all’abbeveratoio della Sosta Pozzo di Sorice dove un nugolo di puliejo in fiore profuma il pascolo, un po’ oltre la pulicaria fiorita tappezza un lieve declino. Procediamo lungo il Regio Tratturo Pescasseroli Candela, fino all’Agriturismo omonimo. Ad accoglierci una bella ragazza dai modi impeccabili e di una dolcezza infinita. Tutto intorno sa di casa per me che vengo da una masseria, le balle di paglia, le piante aromatiche, l’orto, il frutteto, i porcili e una varietà indicibile di animali da cortile: pavoni, faraone, germani reali, anatre comuni, oche cigno, tortore, colombi, conigli. Il proprietario ci guida per i campi soddisfacendo le nostre curiosità. Particolarmente interessante è il giardino delle officinali: si possono ammirare piante poco utilizzate dalle nostre parti come l’assenzio, il dragoncello, la liquirizia, il rabarbaro; poi ci mostra diverse varietà di origano, timo, menta. Un’attenzione particolare ha avuto per le piante da frutto che ormai sono in via di estinzione, mele, pere, mele cotogne, prugne. L’agriturismo è anche fattoria didattica infatti una frotta di bambini gironzola sul selciato e sul vialetto di terra battuta, sotto lo sguardo vigile degli adulti. Zi Liberatore ha appena finito il suo spettacolo, ha suonato per i commensali, ora si libera e ci accompagna sul retro, al fresco di un candido gazebo. Non accusa gli anni e il suo spirito è giovanile, allegro e a volte canzonatorio. Tutto orgoglioso ci spiega che ha contribuito alla stesura di un testo che ci mostra, “La memoria restituita”, a cura di Mario Aucelli, la sua foto compare tra quella dei medici montecalvesi partendo dal 1200. Comincia a raccontarci dei poteri dell’erba di chinino e ce ne mostra un mazzetto essiccato, è Centaurium erythraea Rafn, che negli anni passati è stata usata come un surrogato del chinino. Racconta che quando era ragazzetto ci fu un’epidemia di febbri malariche dalle quali guarirono grazie ai decotti di centaurea preparati dalla nonna. I bambini erano messi a letto e dopo aver recitato le preghiere stabilite gli si somministrava un cucchiaio da tavola di decotto. Ci spiega che la pianta essiccata andava bollita in mezzo litro di acqua finchè il liquido si dimezzava. Quando iniziava ad evaporare bisognava inalare il vapore poi, quando intiepidiva se  ne prendeva un cucchiaio. Il gusto era molto amaro per cui si addolciva con la frutta secca. Con questa pianta, recentemente ha guarito una ragazza di Torino.
Tempo addietro regalò a Peppino una pianta in vaso di Epilobium hirsutum L., piantina che il mio amico cura paternamente e mostra con orgoglio, gli chiediamo spiegazione sugli usi tradizionali. All’inizio fa un po’ di confusione poi quando spiego il termine che specifica la specie lui sorride e sottolinea che il seme è peloso. Lui la chiama erba della malaria che può essere usata in assenza della centaurea.
Continua raccontando che quando era militare gli uscì un foruncolo nelle zone intime, era così fastidioso da creargli problemi nella deambulazione, in infermeria gli dissero che bisognava operare, lui prese una foglia di Erba dei cinque nervi, la stropicciò e la legò sulla parte interessata, il mattino seguente era completamente guarito senza nemmeno lasciare cicatrice. Mi viene da pensare all’Arnica montana che è definita anche Erba dai cinque nervi per via delle cinque nervature della lamina fogliare, ed ha poteri antiforuncolosi, ma la cosa non mi torna perché è pianta assente dalle nostre parti, cresce infatti a partire dall’Emilia Romagna verso le Alpi e vegeta dal piano montano al piano nivale. Cinquenervia è chiamata anche Plantago major L. ben comune dalle nostre parti e riconosciuta per i suoi innumerevoli pregi tra cui il potere antinfiammatorio sulla cute, usata anche in altre località sotto forma di impiastro fasciato sui foruncoli; non ho avuto modo di confrontarmi con Liberatore per mancanza della pianta ma da come la descrive son convinta che si tratta della seconda.
Per il mal di pancia consiglia l’ereva cerzolla, Teucrium chamaedrys L., in decotto, ma alla luce delle moderne ricerche è meglio evitare questa pratica per via delle sostanze pericolose contenute.
Su Euphorbia lathyris L. concorda con la tradizione di altri luoghi, è usata come antitalpa negli orti e nei giardini mentre a Caposele è conosciuta come lassativa ma è assolutamente sconsigliato farne uso per via degli effetti devastanti sulle mucose intestinali.
Zi Liberatore racconta di un uomo che uccideva i serpenti, gli tagliava la testa poi afferrava con i denti l’estremità decapitata e scuoiava il rettile; la pelle di serpente essiccata e polverizzata era assunta in pillole realizzate con tuniche interne di cipolla.
Ciriaco testimonia che a Trevico c’era tradizione di scacciare il mal di pancia con una pelle di muta di serpente, benedetta e passata sul ventre segnando delle croci.
Zi Liberatore continua: per  scacciare i vermi intestinali degli animali, maiali, vitelli, e gastroenterite dei cani, si faceva un impiastro con gramigna, sambuco e rosso d’uovo, si amalgamava poi si poneva sul ventre e sul dorso degli animali e si fasciava, dopo una nottata avveniva l’espulsione dei parassiti.

Per sbloccare il rumine ai ruminanti occorreva fargli masticare con i molari un ramo fresco di fico, Ficus carica.

Il cielo perde luce rosata ad occidente e indica che è ora di andare, ci offriamo di accompagnare Zi Liberatore a casa ma lui ci spiega che ha il trerrote e se vogliamo ci dà un passaggio. Ci salutiamo affettuosamente con la promessa di tornare per ascoltare la sua musica. Torniamo verso casa con la soddisfazione di aver incontrato una delle ultime colonne della tradizione irpina, quando anche questi ultimi vegliardi saranno dipartiti, il tempio della conoscenza sarà a grave rischio per questo occorre accelerare l’opera di recupero con ogni mezzo e con tutti gli sforzi possibili.