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Monthly Archives: November 2016

Andreina Solari, poetessa mite della Grande Madre di franca molinaro

img_20161130_151130 “Parole sincere” ultima silloge poetica della poetessa ligure. Ho ascoltato la sua voce la prima volta al telefono, era la vincitrice di “Echi di poesia dialettale 2014”, occorreva organizzare l’accoglienza quindi stabilire le presenze. Mi colpì subito il suo modo di porsi semplice ma nello stesso tempo signorile, di quella nobiltà senza stemma e orpelli, fatta di sentimenti puri corredo esclusivo di un animo sensibilissimo. Cercammo insieme di risolvere i problemi logistici del viaggio e dell’assenza da casa perché non sempre i grandi poeti sono liberi da doveri, a volte sono persone semplici con una famiglia da accudire che, soprattutto, conta sul loro amore. E fu così che Andreina venne al Sud, a respirare il sole senza mare e le stoppie bruciate di agosto nei campi non ancora arati. Innamorò tutti col suo essere docile e tenace, di una discrezione che avvicina e rende fecondi i rapporti, così fecondi che il Centro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre” le propose di far parte della giuria negli anni a venire. Ci siamo ritrovati con una giurata scrupolosa che svolge il compito con amore e passione, così come fa le altre cose della sua vita. Figura esile e tenace, la sua, che appare come le ombre morbide dei suoi scritti, mai aggressive nel calar della sera, schiva come i suoi gechi nascosti tra le crepe delle mura. Donna di parole e gesti composti che occupa il suo spazio senza mai traboccare e s’innalza sul ciarpame non per presunzione ma per leggerezza di farfalla. Son queste le donne grandi non perché si erigono a monumento equestre ma perché si confondono nella quotidianità tra doveri e affetti, paure sedate e gioie domestiche. Occhi profondi capaci di osservare le bellezze della Grande Madre che ancora, nonostante tutto, regala gioie ad ogni stagione; sguardo triste che vede, oltre la ricchezza apparente e fasulla, i dolori del mondo, le miserie dell’umanità sofferente, l’ombra subdola della morte. Andreina non è una novellina della penna, ben conosciuta nell’ambiente letterario per i numerosi e prestigiosi premi  per la poesia e per la prosa, adotta un linguaggio che non differisce molto nelle due forme di scrittura; nell’una e nell’altra troviamo la bellezza delle immagini dipinte ad acquerello con pennello morbido e tinte luminose dove il bianco del foglio non è carta vergine ma solchi di terra fecondata dal sole, e le pennellate son nuvole o alberi, o piccoli animali furtivi. Le figure retoriche si susseguono e incalzano senza infastidire ma con l’eleganza di una ballerina, si annodano e s’intrecciano di sentimenti rivelando scorci di natura abbagliata dallo stupore della poetessa. Son versi spontanei “Pòule sc-cette / sernue a-o lumme de ciæbelle/ inte seje de là da stæ / çerchæ inti recanti luvighi da memoja / inti gōghin scioî do giardin / o inti remoin do vento.”, come lei scrive nell’incipit, nel suo linguaggio difficilissimo, il più complicato d’Italia, “‘Na brancâ de pòule / in patoâ de cà mæ / che a son de fâme scrive / a qualunque ôa / l’ho fæta diventâ…/ ‘na demoa.” Sicuramente la scelta di scrivere in genovese è coraggiosa e reca un valore aggiunto alla sua poesia che è tale anche nella versione in lingua. Il dialetto costituisce un patrimonio immateriale dell’umanità, il recupero è un dovere di chi crede nel suo valore, è un atto di salvataggio. Questo vado ripetendo da diversi anni, con varie iniziative e, con gran soddisfazione scopro che il tempo mi dà ragione. La voce dei singoli diventa coro e non si è più canna al vento ma poderoso canneto con forti stoloni che intrecciandosi conquistano il suolo. Sicuramente, Andreina è tra le voci più belle e più valide della sua terra perché capace di coniugare il linguaggio ai luoghi attraverso l’amore per il suolo natio, utilizzando un idioma in cui concorrono sedimentazioni di secoli, stratificazioni di storia, corsi e ricorsi, vicende di gloria e declino. Quell’arco di monti che impedisce alla bora di bruciare le verzure, si erge a barriera culturale sulla lingua di terra contesa dal mare, ed è quest’ultimo che domina e s’impone con la sua possanza e bellezza sugli sviluppi storici e culturali della regione come nei versi della poetessa. Nulla ha in comune il genovese col piemontese retrostante né con il vicino toscano, forse qualche impalpabile sfumatura di romagnolo ma così lieve da non aver rilevanza. E’ una lingua che, nella sua complessità e contaminazione, costituisce un enclave “aperto” su orizzonti marini. Così il Genovese, come tutti i popoli di mare, ha disponibilità d’animo e non chiusura come gli Appenninici. Lo stesso si può ribadire della poetessa che nel mare coglie gli attuali drammi e le voci di ieri riposte nei fondali, tra le crepe della scogliera o nella striscia di valle dove fioriscono i bêussai (Eryngium campestre) e dove “se desgōscezza o gallo”. Andreina ascolta la voce del mare che diventa un confidente e le riporta la voce di sua nonna: “Dā stiassa do mâ, me zonze a tò voxe cāa”, la filosofia di vita che permette ad ogni essere di trovare la propria serenità: “Piggila comme a vegne a vitta!”.  E non si scoraggia perché nell’incertezza del domani offuscato dall’ombra della morte, è capace di elevare una lode sincera: … Grazie Segnô pe ‘sta giornâ. / A l’arrestiâ arreixâ into lûnāio de l’etæ / scintantochè i reciocchi de campann-a / i portián l’ôa sensa scampo / a stramûâ descāsi a bricchi e fosci / e a giamminâ in scī sentê de prīe / ch’i porto fêua de man, a-i pê da croxe.”, una lode che può aiutare a sopportare il terribile dubbio del nulla: “Accoegâ in sciā strapunta d’atteisa / scanso sêunno e a lungànnie da nêutte / siasso pòule sc-cioie da-o chêu. / M’é cāo pensâ che Ti ti me stæ a sentî.” Anche per il padre ha parole d’amore che si annodano ai clivi della scogliera e permeano la terra e i suoi germogli, frutti di ogni stagione per l’umana specie: “Inte ‘sto tempo spilorso di doman / t’ōriêsci tornâ, poæ, ā Grande Moæ / a-e sospiæ primmaveje / ch’i brottîscian a Rivēa, / a pastinâ a tæra grāia de semense / inte l’ortiggêu desliggiòu  / ch’o spantega da çimma a fondo / d’erbaggi e limoín, fīe d’odoî. E de longo o t’innamoa, poæ, / sampettâ quighe imbōse, grasciûa d’oivi / ingombæ da-i giamin, co-e sgarbellêue / ascose scaggia a scaggia. / A frûsta crêuza a te menn-a / a-i giorni assopīi, arreixæ inte ciann-e / donde pommi tardīi appreuo a impassî / i scioîscian sêunni agguantæ a-e rappe do nīo / sospeizo a-i silenzi do çê.”
La Grande Madre raccoglie e culla i pensieri e le spoglie, il ricordo dei cari che non sono più e di cui non se ne conosce l’esatta collocazione. A questi lari si chiede consolazione: E avanti de partî, poæ, / mostrime a-o manco ûn bêuggio de sēn / into çê ascûio da-i pensciēi, / ûn rimazuggio de speransa / into rinverdî de stagioín / co-e sò mandillæ de stoccæse seguesse / donde poéi ramassâ quarcosa ancon / e addôçî l’existensa despûggiâ dā tò farta.”. Della Grande Madre ella ha rispetto, così di ogni piccola creatura: L’ho pensâ into gotto / -rozolio do mattin- / a profûmâ a coxìnn-a. / L’ho streita ‘n momentin inta pansetta de dîe: /o sciaccapigheuggi e o leccamortâ. / A l’ha sospiòu: “L’é primmaveja!”.   / Lesta ho mollòu o gambo / pe lasciâla a-o sò destin  / a inaiâse inte primme scagge de sô / ch’e i se pōsâvan  into giardin.”. Questo gran rispetto per ogni essere vivente, animale o vegetale che sia, fa di Andreina una madre premurosa e una moglie amorosa, lo si coglie nei versi che dedica ai quarant’anni di vita coniugale senza negare le difficoltà ma sottolineando l’amore che si costruisce anno per anno proprio sulle vicissitudini della quotidianità: “Arregordi do nīo anchêu in pittin derrûòu / ma regaggīi de gimichia sensa doppio mūro o rattaiêue. / Realtæ de vēi meujê inti fiāgni d’ûghe settembrinn-e / i gossan sûgo dôçe-amao dā scorsa / da primma quarantenn-a d’anni asemme.”.
Tra un’immagine e l’altra, un ricordo, un sentimento e una denuncia, tra i filari di uve moscate (settembrine) e ulivi dalla corteccia fessurata, Andreina osserva quel dì lontano, indefinito, e cerca di dare serenità a quegli attimi, nella consapevolezza che sarà sola a compiere il trapasso:  “…e no m’aspētiô che quarchedûn me porze a man. / L’amigo cāo o porriâ êse lontan / e ûn aggiûtto, gossa de rozâ in mezo a-o mâ.”; ancora si affida alla Grande Madre che le darà sollievo: “Ascadinâ m’arrecuviô in sce nûvie sfiarsoæ / m’impiô êuggi de tûrchinetto çê,”; e ricompare una speranza che pare trasformata in certezza: “Dā paxe de l’immensitæ  l’arriviâ / a pòula mai sentîa, a voxe segûa, ciæa, / do Dê ch’o me ciamma pe l’eternitæ”.  La Solari in questi giorni sta svolgendo i lavori per il Concorso di Poesia che ha creato per il Comune di Leivi, dove è assessore alla cultura, e dove si impegna instancabilmente  per mille altre attività con scuole e altri Enti. Ho introdotto e illustrato volentieri il suo testo senza fatica, sono i versi a suggerire le immagini e la matita scorre con naturalezza e conquista il foglio bianco. Ho scelto la matita per ricordare l’immediatezza del verso e la semplicità dell’anima e sono onorata di condividere con Andreina questa meravigliosa avventura.

Giuseppina Scotti, l’amore oltre ogni confine

2016-09-18-14-54-22di  franca molinaro
Ho conosciuto Giuseppina Scotti in occasione del viaggio organizzato dal nostro vicepresidente Aldo Grieco, tra Irpinia e Sannio. La Scotti è Presidente dell’UniTre Grosseto e il dott. Grieco un suo docente. La gita a Sud si rivelò una bellissima esperienza e per me furono due giorni piacevolitrascorsi in compagnia di persone genuine, nuove amicizie da coltivare, progetti da pensare, percorsi da mettere a punto. Poche le ore per conoscersi, giusto il tempo per scambiarsi battute di intesa. Ci salutammo tutti con la promessa di rivederci e non immaginavo che dopo qualche giorno avrei ricevuto un pacco con le pubblicazioni della presidentessa UniTre. Presa da mille cose non ho avuto il tempo nemmeno di sbirciare tra i i testi numerosi,  impilati sulla scrivania in attesa di esser letti; ieri mattina ne ho messi un paio in borsa approfittando dei lunghi tempi di sala d’attesa in ambulatorio. Ho iniziato con “Los puertos del alma”, letto in un attimo, poi “Una donna, i suoi ambienti”, letto e riletto d’accapo. Presa dalla smania di conoscere meglio la poetessa non ho avuto voglia di dedicarmi ad altro, ho letto gli altri testi inviatimi, ultimo, “Luci di Maremma”. Coi pensieri persi in questa terra meravigliosa, un po’ diversa dalla mia, boschi a perdita d’occhio, foci salse e piante alofile, cavalli e butteri, ho provato a comprendere la figura di una donna straordinaria. Poetessa fine, giornalista, conferenziera, professoressa di Lettere con varie specializzazioni, Giuseppina Scotti nasce in Liguria ma vive a Grosseto. La sua scrittura piacevole abbraccia numerosi temi con eleganza e stile, con semplicità e competenza; descrive sentimenti, ambienti, cose, intrecciando figure retoriche a raggi di luce spirituale. Scrittrice dotata di affinata sensibilità, sa avvertire l’eco della storia in ogni luogo, e registrare il respiro delle genti, dei popoli, “…e coltri / d’immagini sbiadite / coprono pietose / la fine improvvisa / le lacerazioni / di una vita compiuta / sotto un fiume / di fuoco” (Pompei antica). Indistintamente dal sito di provenienza, dalla Francia all’Ungheria, dalle Alpi alla Sicilia, sa cogliere il bello nelle cose seppur velando il tutto con melanconica organza che ovatta o evidenzia pieghe di dolore… “Una vita perduta dietro il richiamo delle onde” (La casa sul mare), oppure “Nuova neve / ha ricoperto lassù / i nostri nomi: / il sole l’ha disciolta ancora / ma i nomi / sono stati cancellati / e nulla li disseppellisce / neppure il calore più intenso / e nuova neve cadrà / per coprire / il sentimento rimasto / fra quelle montagne” (Fra le montagne). La Sicilia più di tutto sembra averle rubato il cuore con quel “mitologico mare, / scandente un tempo senza fine”, lì la poetessa ha “chiuso nelle mani / tanta polvere di sole / e nel cuore / tanto olezzare / di aranci in fiore”. L’arco del tempo è un romanzo d’amore raccontato in gocce dense, perle, versi come haiku, ma ben più saturi, un concentrato di pensieri che rievocano un amore infinito, nato e vissuto  in un coinvolgimento totale cui partecipa l’universo intero. In queste liriche sono chiamate in causa: la luna, le stelle, il cielo, le stagioni, il vento, la nebbia, il mare. Ed è sempre la natura tutta compartecipe di questo amore senza limiti, un amore che pare scorrere verso la fine, un “Sibilo di vento / rompe l’arco della vita / prepotente risuono di tempesta”. Forse questo amore si è spento lasciando nella solitudine dell’anima la poetessa che osserva il tramonto e “vede morire un giorno”.  Ma la sua anima è capace di trasfigurare e travalicare la fisica luce del giorno, sa espandersi e tuffarsi nella luce metafisica che splende nei cieli dell’empireo, poi  si rifrange per illuminare le piccole creature della Grande Madre. Tra queste è la materna Malva sylvestris capace di cingere e molcire gli affanni “stringendoli nell’ebrezza / della sua essenza / fatta di foglie e fiori” (Malva), saggezza antica che riconosce le proprietà delle  verdi sorelle. Ma il culmine della sua poetica, la favilla che condivido pienamente e riconosco come energia somma e suprema capace di far rinascere ed elevare da ogni umana lordura, la si scopre in “Maremma”: “Oh, terra mia / verde e riarsa / nei tuoi colli ameni / sinuosi sulla pianura / che tacita mi appare / sono io / delusa e stanca / che ritorno / per ritrovare in te / l’antica forza / che tu possiedi ancora / o terra mia”.  È questo l’amore totale capace di interscambio con la Grande Madre, è questo l’amore puro che permette di contemplare l’Eterno, l’amore che risiede in pochi cuori, e che irradia il suo splendore su tutto quanto è intorno, solo chi ha provato sa, chi non ha fatto questa esperienza rinunci a comprendere.

 

 

Emilio Mariani memoria storica di Morra de Sanctis di franca molinaro

2016-11-20-19-10-23A Morra De Sanctis,  con il patrocinio della Pro Loco e della Grande Madre, di scena la poesia di Emilio Mariani

Morra De Sanctis, 20 novembre 2016, il salone della canonica è gremito di pubblico, c’è un’atmosfera calda, cordiale, tutti stretti intorno al poeta, un signore vivacissimo che ha superato gli ottanta. Arriviamo qui, con Antonella La Frazia, poetessa della La Grande Madre, percorrendo statali e stradine boschive per fare più in fretta e godere questi luoghi incantati, smarriti tra le pieghe della memoria. Silenzio e colori purpurei, sfoggio effimero dell’autunno che ci consegna inesorabilmente all’inverno nel suo ormai scomposto divenire ciclico. Penso all’Irpinia che amo con tutta me stessa, e penso ai suoi uomini, grandi uomini che hanno lasciato il nome nella storia, condivisibili o meno è problema dei posteri, ma hanno impresso la loro orma possente e dettato il corso degli eventi e del pensiero. Son così gli Irpini, tenaci come le loro querce che cambiano la tinta della chioma ad ogni stagione, vezzose signore ma statuarie e possenti, non si lasciano abbattere e sanno, con tenacia e pazienza, diventare monumento nazionale. Così vedo Emilio Mariani, un monumento vivente per la piccola Morra, uno scrigno di ricchezza culturale e storica, una fonte di saggezza, come tutti gli anziani di un tempo, di quella civiltà che la modernità ha stritolato nelle sue spire viziose. Mariani con queste due nuove pubblicazioni, introdotte da Paolo Saggese, da Rocco di Santo, “Luci di cuméta” e “Quegli antichi lunghi dialoghi”, continua la sua omelia a favore delle cose vere e buone, non sdolcinata nostalgia di gioventù, ma coscienza di una degenerazione irreversibile se non se ne prende atto con immediatezza. Raccontare di una strada, un mestiere, un rito antico e sacro come i cecaluoccoli, è conservare quel legame solido con la Grande Madre, mantenere quello scambio energetico che oggi si cerca in tante mode orientaleggianti senza considerare che i nostri antenati, con semplicità e senza veli di mistero, praticavano queste terapie insite nel loro modus vivendi. Catturare le energie della Terra, a piedi scalzi, operare lo scambio energetico per recuperare positività e benessere, non era una cura pagata a suon di euro ad un esperto laureato ma un sapere antico che si trasmetteva nel naturale trascorrere delle generazioni. Questa saggezza dell’uomo ccontadino emerge dagli scritti di Mariani, forse l’ultimo poeta di una generazione di querce, le ultime, dopo di che il bosco cede il passo a fuscelli esili in balia del vento e delle bufere. Emilio Mariani è uno spirito giovane ma saggio, è il poeta eterno con un cuore sempre infiammato di passioni ma è anche un museo vivente di storia, oggetti, termini e tradizioni. Mai come in questa presentazione Paolo Saggese si è dilungato in spiegazioni, annotazioni, paragoni, ascoltarlo così convinto e appassionato, ha aperto lo spirito verso una comprensione più profonda del poeta ma anche di questa umanità sempre più lontana da Dio e dalla Natura. Bellissima testimonianza anche quella di Rocco Di Santo autore della presentazione del testo dialettale, con i suoi aneddoti che testimoniano il valore della memoria nella microstoria, affettuosa l’organizzazione di un impeccabile Francesco Pennella, commossi i lettori giovani della Pro Loco, ma anche lo stesso sindaco Pietro Gerardo Mariani trasformatosi per l’occasione. Non poteva mancare Donato Cassese che ci fece conoscere questo poeta e che lo ha aiutato nelle pubblicazioni. Donato conosce il tesoro conservato da Mariani, ancora tutto inedito, la preziosa raccolta di canti popolari. Racconta con orgoglio Mariani che, quando era bambino, mentre spigolava udì il canto di una donna e si fermò incantato, la madre lo riprese ma lui memorizzò quelle parole: “Canta calndredda hoi canta canta, ‘n’cima a ‘na spina fai cande r’amore, li chiama li mitituri tutti quanti, sciam’a mangiane ch’è passata l’ora”. È questo il primo verso annotato tra gli appunti di Mariani. Oggi Donato insiste perché questi frammenti vengano ricomposti e prendano luce e voce, l’invito è volto alla Pro Loco morrese e Francesco ha accettato, io stessa ho dato tutta la mia disponibilità e sostegno considerata l’esperienza di anni di lavoro in questa direzione. Sarà questo, forse, il lavoro più impegnativo del poeta etnografo morrese, ma io mi auguro che presto possiamo ritrovarci a Morra per festeggiare la nuova pubblicazione, l’esortazione a chi può, dal punto di vista istituzionale, aiutare nelle spese, per il resto ci pensa la buona volontà di tutti noi amatori.

I “Sogni condivisi” di Michele Meomartino – franca molinaro-

14907619_1854452704784980_8590722157407948402_nLa Grande Madre e l’Associazione Metis incontrano Michele Meomartino alla cena baratto presso la libreria Masone (BN)
Chi partecipa per la prima volta a una cena baratto presso la Libreria Masone, in un primo momento resta disorientato e cerca di capire la ragione per cui si è trovato in quel contesto. Passata la curiosità degli assaggi e di eventuali sapori nuovi, chetato il brontolio gastrico, spiluccato nel vassoio del commensale vicino, chiesta la ricetta che sarà dimenticata subito dopo il primo bicchiere, ecco che si comincia a discutere  scambiando notizie e interessi. Insolito salotto culturale quello che Alessio Masone, proprietario della storia libreria, ha saputo costruire insieme alle attività multiple delle varie associazioni. I temi trattati ruotano intorno a un cardine portante, l’economia semplice, i prodotti buoni, la coscienza del produttore e del consumatore, il valore del fare indipendentemente dal grado culturale e dal posto che si occupa nella società. Ecco cosa è la cena baratto, uno scambio di competenze per aprire gli orizzonti e permettere la rimonta del territorio abbandonato e tartassato dallo stato saguisuga.  Sono questi i principi che condividono diverse realtà sparse sul territorio italiano e in quel di Masone hanno opportunità di incontrarsi, confrontarsi, fare rete. Così da cosa nasce cosa e seppur non si salva il mondo almeno si ha la serenità di averci provato. È indispensabile dare una svolta decisiva all’andazzo stabilito da strozzini troppo a monte e questo può farlo solo il consumatore, però anche il produttore ha il dovere di pubblicizzare i propri prodotti soprattutto se frutto di una coscienziosa coltura. Per la prima volta l’agricoltore siede con l’intellettuale e gli è permesso di confrontarsi, di dire la sua perché egli solitamente non ha voce in nessun luogo, nemmeno per esprimere la condizione attuale in cui il potere internazionale lo ha confinato. I consumatori non si pongono la domanda di dove viene il cibo, la loro dispensa in un modo o in un altro è sempre fornita, mentre le campagne intorno si spopolano perché non c’è più prodotto che può competere coi costi di produzione. La filiera corta che si propone in questo contesto abbatte l’impatto ecologico garantendo nei limiti del possibile la denominazione di origine. Si tratta di riappropriarsi degli spazi propri, ritrovare il tempo naturale, l’estate dei pomodori, l’inverno del radicchio, secondo il naturale scorrere delle stagioni, secondo l’antica eterna dicotomia caldo-freddo. Si tratta di salvare la più grande divinità della civiltà mediterranea, il grano frutto della Grande Madre, assassinato dalla pubblicità antiglutine e dai trattamenti chimici che l’uomo scellerato gli propina. Ma non solo, tanti specificità sono state sacrificate sull’ara della globalizzazione e la Valerianella è finita in busta al supermercato pur avendo gli stessi cromosomi di quella raccolta sotto gli ulivi e nelle vigne. Riallacciare questi rapporti significa riequilibrare l’economia ma soprattutto il proprio mondo interiore in un percorso di ricerca sempre più intima e profonda, in sintonia col tutto. Non è un caso se fin dall’antichità classica l’uomo saggio si imponeva un percorso iniziatico che lo portava alla conoscenza della verità attraverso l’ascolto del silenzio, e la conoscenza lo conduceva all’armonia col creato in una nudità fisica e spirituale che ripudiava ogni inutile orpello. È in questo contesto che si inserisce la figura di Michele Meomartino, Pugliese trapiantato in Abruzzo, una vita a servizio del giusto, del fattibile, del sostenibile, dell’umano nella sua accezione positiva, della pace dentro e fuori l’uomo. La presentazione del suo ultimo testo, Sogni condivisi, Idee, storie, testimonianze per una società conviviale, Edizioni Tracce, Pescara 2014, è stata occasione di riflessioni su questi temi che obbligano a prendere coscienza della propria posizione e sollecitano il cambiamento. La sua scelta vegetariana è una concretizzazione della sua idea di non violenza, il rispetto del lavoro del prossimo è esempio di alta civiltà, la capacità di raccordare le energie positive e incanalarle in una direzione unica è l’ennesimo tentativo di salvare il salvabile. Michele non ha preconcetti, rispetta il parere e le azioni di ognuno perché crede che a monte c’è sempre una causa che ha scaturito quell’effetto, come il falegname di Nazaret condanna la malattia non il malato. Incurante procede a costruire la sua strada, una strada fatta di “ponti” indispensabili per scavalcare precipizi, forre, valichi, trascinando, col suo carisma, una moltitudine di gente accomunata da diverse arti ma con gli stessi principi, con la stessa filosofia di vita in cui l’uomo è parte del tutto cosmico e come tale va inquadrato. Francesco Santucci, ha sottolineato, nel suo intervento, proprio questa notevole capacità. Il dottor Santucci, con la delicatezza che lo caratterizza, ha tratteggiato un ritratto di Michele che evidenzia l’importanza della coesione tra categorie, il saper scegliere una strada confacente al benessere di ognuno secondo il proprio potenziale e le proprie attività. Nel testo di Meomartino emergono diverse aspetti della vita e delle attività condotte in questi anni, fatte con passione e perseveranza tanto da ottenere successi e riconoscimenti e impegnargli totalmente tutti i giorni della sua vita. Michele ha fatto trecento chilometri solo per venire ad incontrarci e parlare delle sue convinzioni, e noi ci siamo arricchiti della sua esperienza e abbiamo ripreso fiato e speranza, in testa frullano mille idee, mille spunti per rivedere il proprio cammino. Un grazie speciale a Michele dunque e un augurio di successi sempre maggiori di adesione e di consensi.