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Monthly Archives: May 2017

Modi di dire di San Giorgio del Sannio e dintorni di Antonio V. Nazzaro e Gerardo Pedicino

18739882_1517864268276955_6414141051812127275_n1.jpgBagno di pubblico per Antonio Vincenzo Nazzaro e Gerardo Pedicino nell’auditorium comunale del Cilindro Nero, alla presentazione della loro ricerca antropologica “Modi di dire di San Giorgio del Sannio e dintorni”. A moderare l’incontro il giornalista Salvatore Esposito. Presente il sindaco On. Mario Pepe che, come sempre, ha speso parole di incoraggiamento per la ricerca e di apprezzamento per il lavoro lodevole svolto dai due autori. Sempre convinto che i libri rendano migliore il paese, ha invogliato tutti i presenti a leggere, leggere, leggere. Il suo non è un discorso d’occasione ma è un impegno reale a favore del Circolo Sociale Trieste che, da anni, contribuisce ad alzare il livello culturale del paese. Questa volta il Circolo, spiega il presidente Ingegnere Enzo Pedicino, si è improvvisato editore ed ha intenzione di proseguire su questa strada con un progetto editoriale che abbraccia non solo la cittadella sannita ma tutto il circondario, si tratta di una Collana di ricerca storico-antropologica chiamata “IL Cavalier Sannita”. L’intento di recuperare storia e cultura di queste terre è un’opportunità per gli autori che si occupano del territorio e non hanno la possibilità di veder pubblicata la propria opera. La maggior parte degli editori locali pubblicano a pagamento mentre per pubblicare con editori nazionali bisogna spostare il campo di indagine allargando gli orizzonti oltre la regione, ciò penalizza lo studio accurato delle piccole aree geografiche. Affidarsi ad un editore, quale può essere il Circolo Trieste, significa concentrarsi con la massima attenzione sulle piccole realtà che ancora conservano interessanti tesori nascosti. L’ambizione dell’editore novello non si ferma alla cultura scritta ma va oltre rivelando l’intenzione di devolvere un eventuale ricavo al restauro, per ora, dell’organo della chiesa dell’Immacolata, in seguito ad altre necessità delle comunità sangiorgesi e limitrofe. Un nuovo modo dunque, di immaginare l’editoria che si veste di volontariato sposando la naturale vocazione  della cultura.
Cosimo Caputo, direttore della Biblioteca Comunale, in un veloce excursus ha tracciato la storia dei dialetti non mancando di ricordare il padre della lingua italiana. Il merito dei nostri autori, spiega Caputo, è di aver “Coniugato il basso e l’alto, il parlato con lo scritto”. Secondo le indagini, continua Caputo, il dialetto campano è il più parlato d’Italia, seguito dal Siciliano. Questo non stupisce se ricordiamo che il napoletano era lingua ufficiale del Regno di Napoli. Il numero dei dialetti italiani è ancora indefinibile perché non esistono studi abbastanza specifici, si raggruppano, ad esempio i dialetti della provincia di Avellino definendoli “irpini”, ma non è una definizione corretta se pensiamo ad un enclave quale Nusco, oppure se paragoniamo i dialetti delle tre valli irpine. Nella Media Valle del Calore il linguaggio si approssima al napoletano mentre nella Valle dell’Ofanto il linguaggio cambia totalmente avvicinandosi al lucano-apulo, nella Valle del Sele si è già cilentani. Quello dei dialetti è un mondo meraviglioso e affascinante che riserva ancora tante sorprese, c’è ancora tanto materiale da registrare prima di soccombere definitivamente nell’omologazione linguistica e culturale.
Gerardo Pedicino racconta il suo rapporto con la ricerca, il lavorio da sempre svolto in questa direzione, infine le sollecitazioni del prof. Nazzaro alla pubblicazione. Pedicino, con estrema umiltà racconta della sua creatura attribuendo al coautore i meriti di aver strutturato il testo e contestualizzato i proverbi. Ma Nazzaro, senza Pedicino non avrebbe mai potuto svolgere un lavoro così accurato perché è lontano dal territorio quindi impossibilitato a consultare il popolo detentore ancora di questa cultura. Anche l’interpretazione del proverbio stesso diventa soggettiva se non sostenuta dalla testimonianza dell’intervistato. Alcuni proverbi sono incomprensibili se non si risale all’origine, al personaggio che li ha sostanziati, alla storia che è a monte del detto, questo si può dispiegare solo grazie all’ascolto, il lavoro più delicato e difficile. Nella ricerca etnografica ogni particolare è importante, anche quello che sembra insignificante. La moderna etnografia poi, è giunta a metodi ancor più sofisticati, oggi si preferisce il filmato, nel quale si possono cogliere particolari non registrati dalla scrittura: l’espressione, la sonorità, la pronuncia. Quest’ultima, come ha sottolineato Nazzaro, è fondamentale per la comprensione di un proverbio; basta spostare un accento e tutto diventa oscuro. Il professore Nazzaro ha anche ricordato che, la maggior parte dei proverbi non sono patrimonio di una specifica comunità ma sono frutto, spesso, di una contaminatio, dell’interazione tra comunità adiacenti o che hanno scambi commerciali, religiosi ecc.
Concordo perfettamente col professore infatti, occupandomi da tanti anni di proverbi, da quelli ternari a quelli agricoli, meteorologici, botanici, religiosi, ho trovato similitudini in tutta la penisola, addirittura, parlando con un ragazzo marocchino, ho scoperto che lo stesso proverbio recitato da noi su donne, cavalli e uomo che giura, è ben conosciuto anche nella sua cultura.
Nazzaro, appassionato sostenitore del dialetto, tanto da offrirsi a presidente di giuria nel nostro concorso “Echi di poesia dialettale”, ha ricordato che col dialetto non si va da nessuna parte, la lingua nazionale è fondamentale; un popolo senza lingua non è un popolo, è questa che fa l’unità nazionale prima di ogni altra cosa, il dialetto è quella parte di cuore che ci ha donato la nostra mamma mettendoci al mondo.
Il professore si è anche soffermato sul metodo di lavoro usato in questo testo, ha sottolineato la necessità dell’onestà intellettuale di cui ogni scrittore dovrebbe munirsi; all’estero, spiega il professore, in ogni testo è riportata una lunga serie di ringraziamenti, note e citazioni. Questo metodo è stato rispettato nel testo dei Nostri rendendo merito a chi, prima di loro, si è occupato dell’argomento.
Naturalmente il lavoro fatto è scientifico, tutto quanto è stato raccolto è stato riportato integralmente quindi, ogni riferimento a persone, genere ecc. è frutto della comunità che lo ha partorito. Nella tradizione troviamo una forte vena misogina, Male nottata e ‘a figlia femmena, una avversione per i religiosi, I prieviti teneno a cuscienza com’a vesta ca portano, per i diversi, Cristiani russi e ciucci pintiati quanno nasceno ammozzatece ‘a capo, tutto questo dettato da condizioni sociali, idee stereotipate, sedimentazioni arcaiche che inevitabilmente riaffiorano nell’immaginario collettivo marchiando in eterno certe categorie. Gli autori hanno raccolto tutto e trascritto fedelmente, ora sta al lettore comprendere la ragione per cui il proverbio è nato.

franca molinaro

Andar per erbe: benefici e rischi

La primavera, soprattutto se piovosa, è il periodo migliore per rac18620072_1513800428683339_5734536741371881148_n[1]cogliere verdure selvatiche, tenere e gustose, da cucinare nei modi più disparati. Sebbene la cultura della “Menesta asciatizza” ormai è un ricordo lontano, recuperato più per moda che per una reale coscienza etnobotanica o necessità economica, si assiste a un sempre maggiore interesse per le cose della natura. In rete molti sono i siti ei blog che si occupano delle amiche verdi, molte le associazioni che promuovono, ognuna secondo i propri parametri, il ritorno alla natura. Noi della Grande Madre viviamo proprio di questi principi e, tra le altre cose, abbiamo assunto l’impegno di diffondere le conoscenze  viste attraverso l’antica saggezza della civiltà agreste. Nei secoli passati, i nostri antenati hanno attinto dalla dispensa naturale per supplire alle carenze della dispensa domestica. La ricerca di erbe commestibili, compito affidato alle donne, da sempre detentrici dei segreti della natura, era praticata a partire da gennaio quando, solo la valerianella (Valerianella locusta), sopravvive alla neve e alla brina. In febbraio, poi, compare il crespigno (Sonchus oleraceus), a Teora lo chiamano s’ghon’; Emidio Natalino de Rogatis riferisce una ricetta: “Cucinato in pignatta con cotechino di maiale e accompagnato co’ la pizza jonna, cotta ‘nt’a lu chjngh’ con brace sotto e sopra”. I Crespigni, teneri e dolci, son buoni in insalata o lessi con i fagioli, la carne dei poveri. Intanto marzo prepara tutte le erbe per una bella zuppa ricca. La cicoria (Cichorium intybus), lungo i bordi delle strade, un po’ spiaccicata stenta ad allungare le foglie verso il cielo, costretta dai continui pestaggi distende le foglie della rosetta basale e si appiattisce al suolo, con questa strategia sfugge anche al tagliaerba. E’ la più apprezzata in cucina, ma anche in erboristeria, per le sue straordinarie proprietà officinali, soprattutto diuretiche e depurative. Per disintossicare l’organismo, ridurre la cellulite, l’acido urico, perdere peso, combattere i radicali liberi, è una degna alleata, non solo mangiata cruda o cotta ma, recuperando e bevendo l’acqua di cottura. Lo stesso discorso vale per il Tarassaco (Taraxacum officinale) ottimo nelle insalate e nelle zuppe, straordinario per le sue proprietà diuretiche tanto da esser, a ragione, chiamato “piscialietto”. Ad Ariano Irpino, invece, si osserva più l’aspetto e, a causa del pappo piumoso del seme, è definito “Papanonno”. Comunissima è la Borragine (Borrago officinalis), i cui fiori sono impiegati in cucina in diversi modi e le foglie trovano numerose applicazioni secondo le regioni e le ricette. Silvano Tangi di Celle San Vito (FG) spiega che, suo padre, con la “Burrayne” strofinava l’interno delle nuove arnie per conferire un profumo caratteristico prima di inserirvi le api, inoltre, i bambini succhiavano il nettare dal calice, la stessa, infatti, spiega Rocco Grande, a Montefalcone in Valfortore (BN) è chiamata sucàmel’. Grazia Mazzeo di Rocchetta Sant’Antonio (FG) racconta che la suocera la consigliava per aumentare la montata lattea alle puerpere. A queste verdure elencate, nelle zuppe si associava la Bieta (Beta vulgaris), Gghijti la chiama Giovanni De Luca in dialetto di Celle di Bulgheria(SA), dolce tanto da addomesticare anche le zuppe più amare. E ancora è ottima da cuocere la Crepis (Crepis vesicaria), il Piattello (Hypochoeris radicata), l’Aspraggine (Helminthoteca echioides). Per un soffritto di verdura si prestano buona parte delle Brassicaceae, in particolare le Sinapis con peperoncino (Capsicum annuum) e aglio (Allium sp). A primavera, a tutte queste Asteraceae e Brassicaceae, si aggiungevano tutti i germogli teneri di diversi generi a partire dai turioni degli asparagi (Asparagus aculeatus) e del pungitopo (Ruscus aculeatus), i getti lianosi del tamaro (Dioscorea communis), del luppolo (Humulus lupulus), della vitalba (Clematis vitalba), le cimette tenere del lattugaccio (Chondrilla juncea), impiegati in sughi e frittate. Oggi, le nuove generazioni hanno perduto il contatto e la conoscenza della natura, chi si cimenta in questi argomenti è perché ha studiato sui libri, difficilmente ha appreso “sul campo” l’arte della raccolta e della preparazione. Ultimamente poi si sta assistendo sempre più ad una nuova moda, la passeggiata di riconoscimento con la guida di un eventuale esperto, ma una passeggiata non può fornire la competenza di chi ha vissuto da sempre a servizio della Grande Madre.
Personalmente mi ritengo fortunata per essere nata contadina e allevata da una zia semi-cieca molto attenta alle cose della natura. A sette anni mi portava a zappare le colture e mi spiegava ogni erba che conosceva. La sua guida è stata l’esperienza e lo spirito che l’animavano pur avendo grosse difficoltà visive. Maggiormente sapeva riconoscere le specie dall’odore e dal tatto. Cucinava ogni cosa commestibile secondo gli insegnamenti della vecchia madre.
Dunque, seguire una dieta equilibrata, migliorata dalle tante erbe che il prato offre, è un metodo per mantenere sano l’organismo arricchendolo degli elementi presenti in quei prodotti così ben pubblicizzati sugli scaffali dell’erboristeria, della farmacia e dei supermercati. E comunque, la scelta dell’erboristeria è pur sempre eccellente rispetto all’utilizzo di farmaci, vere bombe chimiche sparate nell’organismo, che andrebbero assunti solo quando è realmente indispensabile. Le erbe, alternate a frutta e verdure possibilmente di stagione e di sicura provenienza, aiutano a ottimizzare le funzioni dell’organismo. Attenzione, però, al luogo dove sono raccolte, ad esempio, il viale Mellusi, a Benevento, ospita tante piante commestibili, ma guardatevi bene dal mangiarle, come è sconsigliato raccogliere crescione (Nasturthium officinale) in acque inquinate, vale a dire la maggior parte delle nostre acque, cicorie lungo le rotaie della ferrovia, presso zone industriali o peggio ancora in campi trattati con pesticidi. La primavera è il periodo del diserbo dei campi di cereali e dei cigli stradali, con erbicidi micidiali, prodotti che andrebbero banditi dal commercio. Erbe avvelenate possono causare problemi immediati ma anche a lungo andare pertanto è bene fare attenzione, oltre ai veleni propri della natura quali Cicuta, vite bianca, ecc. (Conium maculatum, Brionia cretica), ai veleni immessi dall’uomo nell’ecosistema. Tenetevi lontani dai campi coltivati, non sapete che prodotti sono stati impiegati, oltre al dovere di rispettare la proprietà privata. Per quanto riguarda il raccolto, ricordate che state derubando la Grande Madre, quindi raccogliete con rispetto e ringraziate per il dono ricevuto. Non raccogliete erbe che compaiono in pochi esemplari, lasciatele nel luogo per riprodursi. Non strappate le piante dalle radici ma tagliatele al colletto di modo che possano germogliare. Raccogliete con moderazione rispettando il tempo, non siate ingordi, accontentatevi del piatto da mettere in tavola o della pianta da usare in fitoterapia. Se non siete sicuri di riconoscere una pianta non la raccogliete, per le vostre cure rivolgetevi all’erborista e avrete con certezza quello che cercate insieme a qualche consiglio valido, per mettere in tavola rivolgetevi ai contadini che riconoscono le piante eduli o a fruttivendoli specializzati. Fidatevi solo di persone esperte, molti si improvvisano conoscitori. Dunque, poche regole ma indispensabili: rispetto della Grande Madre, sicurezza del luogo di raccolta, conoscenza dell’erba da raccogliere, uso appropriato di ogni specie.

franca molinaro

“Lo splendore della creazione rivelazione dell’infinito”

18519933_219199328584978_2623638856548052580_n.jpgA Firenze, i Salesiani rinnovano l’appuntamento con l’arte.
Il Presidente del Consiglio Regionale della Toscana, Eugenio Giani, inaugura la mostra.
L’ottava edizione della “Mostra d’arte forma e colore” ideata e curata da Adriana D’Argenio e Rino Radassao, svolta nell’ambito delle manifestazioni del Maggio Salesiano, a Firenze, è stata presentata giovedì 18 maggio 2017, presso il Salone Don Bosco, in Via Gioberti. Come ogni anno, madrina della serata è stata la nota scultrice Amalia Ciardi Dupré, le cui opere arricchiscono molte città italiane ed estere. Nel 2015, presso il laboratorio dell’artista, si è inaugurato un museo della sua produzione artistica, dove, in meno di un anno son passati oltre tremila visitatori.
Il coordinamento della serata inaugurale è stato curato da Rino Radassao, personaggio poliedrico senza il quale non sarebbe possibile questo bellissimo evento. Ha dato il saluto iniziale don Adriano Bregolin, Direttore dell’Opera Salesiana di Firenze, ricordando come la società attuale è avara di contemplazione. I giovani hanno ancora la capacità contemplativa, tocca a noi stimolarla, essere buoni educatori.
Non è mancato il saluto di Caterina Nannelli, Presidente Servizi Culturali del Consiglio di Quartiere 2. Il Presidente del Consiglio Regionale della Toscana, Eugenio Giani, presente ad ogni edizione, spiega che: “L’arte nasce e si esprime attraverso l’ispirazione religiosa presente in ognuno di noi”. Giani, magnifico conoscitore della sua terra,  ripercorre velocemente i momenti fondamentali della storia dell’arte fiorentina. Vede questa mostra come un ritorno all’anima stessa dell’arte, “La creazione artistica altro non è che il rinnovo dell’esperienza divina della creazione”. Nelle parole del Giani non poteva mancare l’ammirazione e la riconoscenza per l’associazione Tabula Picta, presieduta da Angela Giuliani Perugi, con le sue pittrici, meritevoli di aver dato il via alla ricerca dell’antica arte rinascimentale della tempera ad uovo. Il Presidente ha anche sottolineato il valore dei Salesiani in Firenze, li ha definiti un “polmone fatto di sport, arte, cultura”, dove i giovani hanno l’opportunità di crescere nei santi principi dell’amore e della condivisione.
Giancarlo Polenghi, della Sacred Art School di Firenze, nel suo intervento ha tratteggiato la storia dell’arte sacra partendo dall’iconografia antica per arrivare agli artisti che hanno esposto nella collettiva. “Il senso delle opere esposte è la ricerca di un’arte che cerca di scandagliare l’animo umano,  allo scopo di isolare e portare in superficie un anelito che conduce verso l’ascolto della parola”.
Trentasei pittori e scultori, ceramisti, presenti nel Salone Don Bosco, ognuno con un bagaglio culturale differente, ognuno con esperienze artistiche diverse, tutti accomunati da un intento: la ricerca di una spiritualità che oltrepassa l’immagine, l’espressione artistica, un moto dell’anima, un desiderio di conoscenza che è tipico dell’uomo in cammino. Sono autori in cerca di Dio, quel Dio che va oltre l’umana comprensione ma che l’artista intuisce e ne discute attraverso le sue creazioni.

Questa mostra è diventata un appuntamento atteso, un’occasione per ritrovarsi e confrontarsi. Negli anni qualcuno si perde, altri si acquistano, ma lo spirito che anima gli organizzatori Rino Radassao e Adriana D’argenio, resta sempre lo stesso. La coppia, modello essa stessa di amore, dedica a questa manifestazione un impegno indicibile che parte dalle questioni logistiche ed economiche, passando per la grafica e gli altri aspetti organizzativi, tutto per la gioia di mettere in circuito energie buone benedette dal clima religioso dei Salesiani. A mio giudizio, rispetto agli anni precedenti, la collettiva ha fatto un notevole salto di qualità sia dal punto di vista tecnico-artistico che dalla capacità di interazione degli artisti partecipanti. La novità di riunirsi a discutere dopo la cena, nella sala mostra, è stata una carta vincente, un cenacolo culturale di notevole interesse umano-artistico, un arricchimento di tecnica e di spirito. L’interazione tra artisti non è facile, un po’ come per i poeti, occorre prima ammorbidire la presunzione per far recuperare loro l’umiltà, non sempre e non con tutti si riesce. Tra questi artisti fiorentini non mi è parso necessario questo lavoro preventivo, il discorso è scivolato limpido tra occhi lucidi di commozione, confessioni profonde, rivelazioni di segrete tecniche. Grazie sempre alla fortunata e affiatata coppia Radassao-D’Argenio, che col suo impegno permette questo miracolo.
Presenti gli artisti: Maria Grazia Bambi, Julius Camilletti, Mauro Castellani, Filippo Cianfanelli, Fernando Cidoncha, Lorella Consorti, Carla Croci, Adriana D’Argenio, Daniele De Luca, Gloria De Marco, Grazia Di Napoli, Mimma Di Stefano, Marina Fabiani, Mara Faggioli, Daniele Feri, Yuri Fernandez, Anna Maria Fornaciari, Paola Gabbanini, Carlo Gioia, Angela Giuliani Perugi, Franca Molinaro, Margherita Oggiana, Elisabetta Paci, Alan John Pascuzzi, Leonardo Paoletti, Maria Luisa Pedone, Diana Polo, Fabio Pucci, Carmen Radassao, Patrizia Rensi, Pier Nicola Ricciardelli, Angelo Rizzone, Renzo Sbraci, Rosa Scrudato, Silvia Vinci, Paraskevi Zerva.

franca molinaro

L’abadessa del Goleto Marina II e la sua famiglia, Edoardo Spagnuolo, Edizioni Delta3

18447154_1443215965753486_615990839831522962_n.jpgA Bonito la presentazione dell’ultima ricerca storica sul Goleto e le sue abadesse.
Dopo lunghi anni di studio dedicati al fenomeno del brigantaggio nel Sud, Edoardo Spagnuolo, storico impeccabile e scrupoloso, ha volto il suo interesse al Medioevo. Quel periodo, definito spesso buio, agli occhi dello studioso si dispiega portando alla luce documenti e notizie, nomi, parentele, fatti, date, luoghi.
Il professore Spagnuolo ha presentato il suo lavoro a Bonito nel convento Sant’Antonio da Padova insieme al sindaco Giuseppe De Pasquale e al responsabile del settore cultura Valerio Massimo Miletti. Entrambi hanno espresso parole di apprezzamento per il laborioso lavoro di ricerca svolto. Anche il pubblico ha commentato favorevolmente la cosa e qualcuno ha dimostrato la propria disponibilità ad aiutare la ricerca anche fuori dal territorio regionale.
A detta di Edoardo, ci sono numerosi documenti da spulciare per ricucire la storia del nostro territorio, una microstoria, possiamo definirla, trattandosi di eventi condotti  dai potenti ma legati direttamente al popolo, alla gente che ha popolato queste colline, che ha rivoltato queste zolle erbose, boschive un tempo.
Interessante è scoprire come, ad esempio, il monastero del Goleto fosse il polo di una vasta attività economica che abbracciava non solo l’agricoltura, la zootecnia, la bachicoltura ma anche la trasformazione dei prodotti primari. Una cosa inimmaginabile se si pensa al periodo storico, alle difficoltà logistiche, al nostro entroterra visto sempre nella totale arretratezza. Dagli studi del professore Spagnuolo apprendiamo anche l’abbigliamento dell’epoca, e tutte le attività che ruotavano intorno a questo settore, dalla lavorazione della seta, lana e pelli. Riguardo alle abadesse del monastero, invece, non v’è molto materiale da studiare, l’unica figura di cui si può tracciare il profilo con un margine di sicurezza è Marina II, e su di lei si concentra Spagnuolo recuperando parentela e opere. Secondo i documenti ricostruiti dall’autore, Marina II era nel nome di battesimo “ Mansella”  figlia del principe Gilberto II di Balvano, nata nel castello di Armaterra in territorio di San Fele (PZ). Parliamo dunque di quel territorio che comprende l’Irpinia dell’Est, parte della Lucania e dell’Apulia, il territorio in cui scorre l’Ofanto e trasversalmente parte del Sele. La nobile famiglia era particolarmente legata al Goleto e la fanciulla ebbe modo di incontrare la smilza abadessa Marina I, sia nella sua struttura conventuale che presso Santa Maria del Perno, in San Fele, in occasione delle visite di controllo dei lavori di ricostruzione. Non è possibile stabilire con certezza l’attribuzione della vocazione della fanciulla, certo è che fu una grande abadessa e che la comunità religiosa vide il massimo dello splendore sotto la sua direzione. A lei si deve la costruzione della cappella di San Luca all’interno delle mura del Goleto, sopraelevata sulla cappella antica. Un capolavoro di architettura senza eguali, ricco di simbolismi ancora tutti da svelare, eretta contemporaneamente a Castel del Monte in Puglia, forse con l’ausilio delle stesse maestranze. Questo determina un rapporto molto stretto con la corte federiciana e con lo stesso imperatore. Purtroppo la grande donna, amata e rispettata per la sua determinazione, non vide completata la sua opera, morì pianta da tutti verso il 1250, aveva all’incirca settant’anni. Di lei resta il bell’affresco che la raffigura a mezzo busto e ne evidenzia l’abbigliamento, e le varie iscrizioni nell’abbazia che recano il suo nome, così come, nella vicina Lucania, è ricordato il nome e le gesta del padre presso la badia di Santa Maria di Pierno.
Un plauso, a questo punto, all’amico Edoardo, per aver posto l’attenzione su una donna delle nostre contrade ed aver dimostrato, con la sua ricerca, che anche nel lontano 1200 le donne straordinarie esistevano e lasciavano impresso il loro nome nella storia non per le guerre vinte ma per il corretto operato.

franca molinaro

 

 

Ulcere da radioterapia, come riesco a guarire – franca molinaro

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Il miracolo della’argilla e la ricetta di Carmen Tassone

Ho scritto di questo argomento personale e delicato, tempo fa, quando curavo la rubrica settimanale di Ottopagine “Il Giardino della Grande Madre”, ora vorrei riprenderlo perché è importante comunicare le scoperte fatte a chi ne ha necessità. Non mi è facile parlarne ma, per spiegare quello che ho definito “miracolo della terra”, debbo raccontare, almeno sommariamente, le principali disavventure. Avevo ventiquattro anni quando iniziai un calvario di interventi e terapie di ogni tipo. Mi fu diagnosticato un Sarcoma dei tessuti molli, un tumore mortale, mi fu detto all’epoca, uno dei più aggressivi. Un primo intervento fatto da incompetenti segnò l’inizio di un percorso complicato e ricco di attentati alla mia salute da parte di medici poco professionali o, a quell’epoca, con scarsa esperienza nel settore. Chemio, radio, camera iperbarica, ustioni, paralisi, ulcera, diventarono pane quotidiano. Oggi, per fortuna, i malati di cancro ricevono tante attenzioni e i ritrovati della scienza aiutano anche a morire; allora, nel nostro entroterra non si aveva cognizione precisa di come occorreva intervenire in questi casi e, cosa peggiore, le famiglie erano all’oscuro di ogni informazione. Praticamente, l’idea che una persona giovane, anche se mamma di due  bambini, potesse morire era inaccettabile quindi scartata a priori, se poi questa persona nascondeva i segni della sofferenza, era naturale che il problema risultasse una sciocchezza. Consapevole dei problemi economici che la mia situazione arrecava alla famiglia allargata, ho sempre dato poco peso alla malattia, per quanto mi è stato possibile, fino a compromettere seriamente la salute. A un certo punto, puntualmente, finisco in ospedale, probabilmente la mia struttura biologica si ribella e decide autonomamente. Con il secondo intervento mi asportarono i muscoli plastici della spalla sinistra e il gruppo di linfonodi ascellare. Con la biopsia scoprirono la natura del problema e mi prescrissero un ciclo di radioterapie. Il radiologo, ritenne opportuno agire tempestivamente e mi irradiò con raggi mevatron per dieci giorni ma con una potenza che andava distribuita in trenta, risultato: mi bruciarono quel velo di cute restato sulle ossa e sui muscoli profondi, mi bruciarono la cuffia dei rotatori, la parte sinistra dei polmoni, l’articolazione scapolomerale, fino a imbrunire la pelle nella zona retroscapolare e farla marcire nella parte anteriore. I tessuti cadevano a brandelli, non seppero curarmi ed io lasciai al mio corpo la risoluzione dei suoi problemi. Dopo un anno scomparve la scottatura e ricomparve il tumore. L’intervento devastante permise la guarigione della ferita solo per seconda intenzione e giù altre pene e terapie. Il grosso era fatto anche se il nemico era nascosto negli organi riproduttivi ma ero quasi serena, ripresi a scrivere, dipingere, scolpire, studiare e soprattutto a fare l’agricoltore. Quest’ultima attività fu la mia disgrazia e la mia fortuna, il braccio, senza ricambio linfatico si gonfiò enormemente e produsse una ulcerazione che mi porto dietro con cadenza periodica. La linfa cercava uno sfogo e si aprì un varco che nemmeno la camera iperbarica riuscì a chiudere, anzi, la cosa si trasformò in infezione e poi osteomielite. Dal reparto di dermatologia di San Giovanni Rotondo scappai per non morire, ormai data per spacciata, ma un bravo medico di base e un bravo dermatologo mi rimisero in piedi. L’ulcera però non guariva e andai in ospedale, prima a Lucca poi a Firenze, diagnosi: osteomielite. Prenotai una scintigrafia particolare a Potenza e aspettavo il momento, intanto mi intrattenevo a chiacchierare con una persona speciale che conosce le erbe ed i rimedi naturali. Mi propose un impacco di argilla, una pappina di fango, direttamente sull’ulcera che scendeva per tre centimetri nella testa dell’omero. Accettai, peggio di come stavo non poteva andare. Feci questa terapia per un mese, poi eseguii l’esame stabilito, l’esito fu negativo. Al CTO di Firenze spiegai ogni cosa, i medici increduli mi dissero di continuare così. Da allora, periodicamente la mia ulcera si apre ma con le dovute applicazioni di argilla si purifica e si richiude nel giro di una settimana. Là dove non è riuscita la scienza medica ha trionfato la natura. L’argilla si compra in farmacia o erboristeria, in sacchetti sigillati, è detta ventilata perché subisce un processo di purificazione. È semplicemente “Terra” senza aggiunta di alcun additivo. È stata usata da tempi remotissimi da tutte le civiltà del mondo per svariate cure. L’uomo, probabilmente, imparò dagli animali feriti che si rotolavano nel fango per guarire. Oggi se ne è perduta la memoria, maggiormente è usata in erboristeria per maschere di bellezza o in pillole come lassativo. È, però, utile per infinite applicazioni ad uso topico, generale ed interno, contro le malattie e come cura di bellezza. Si può bere nella misura di un cucchiaino sciolto in un bicchiere d’acqua naturale per purificare il corpo e le vie urinarie, rinfresca l’intestino e lo aiuta ad espletare le sue funzioni. Nell’acqua del bagno, nella misura di un paio di cucchiai da tavola, dona lucentezza ai capelli, disinfetta la pelle, la rinfresca, la protegge da melanomi, da irritazioni o allergie. Il fango in uso topico disinfetta le ferite purulente, aiuta la rigenerazione dell’epidermide, blocca le irritazioni da punture di insetti e allergie, allevia il fastidio della psoriasi e degli eritemi solari. Una maschera di fango lasciata asciugare sul viso e poi rimossa con acqua, purifica il viso e lo rende fresco e luminoso.

Ma torniamo alla mia ulcera, restata sopita per alcuni anni, è ritornata, forse stress, forse chissà ma siamo alle solite, stavolta aperta lontano dall’articolazione ma sempre nella parte ustionata. Ho tentato una nuova terapia. Intanto i soliti quotidiani impacchi di argilla iniziale, almeno una volta alla settimana un’applicazione di Vea pomata per precauzione. Periodicamente impacchi del fango della Mefite. Infine il miracolo delle erbe. Carmen Tassone, studiosa delle antiche tradizioni calabre mi ha donato la sua ricetta: burro di Calendula arvensis. Periodicamente poi, mi segue la mia stella, la mia pranoterapeuta che, in barba a chi è scettico, mi aiuta in modo inspiegabile.  L’applicazione quotidiana di burro di calendula ha permesso alla mia ulcera di migliorare sensibilmente nel giro di una settimana, per questo ora posso regalare la ricetta a quanti ne hanno bisogno, sono una ricercatrice empirica e solo attraverso l’esperienza diretta mi permetto di consigliare mezzi alquanto alternativi e magari perseguibili. In bocca al lupo a chi ne ha bisogno. Anche se oggi le ustioni da radioterapia sono molto superficiali, non attraversano il corpo da parte a parte come è successo a me, è sempre bene sapere qualche rimedio naturale, che non addizioni farmaci al povero organismo martoriato.
Ricetta di Carmen Tassone
Burro di Calendula arvensis
Raccogliere una manciata di capolini di Calendula arvensis in un mattino con la luna calante, immergerli nel burro e lasciare riscaldare lentamente fino a perdere l’acqua presente nei fiori. Frullare e conservare in frigo ben chiuso.
Preparare la pelle detergendola con sale o bicarbonato e ammorbidire con il burro di calendula.
Mettere sempre parole d’amore alla pratica di guarigione. Ecco il segreto di Carmen che io definisco fata e sorella, vedere sempre con gli occhi dell’amore e mantenere puro l’animo, il cuore e il corpo.

 

 

Poeti finalisti “Echi di poesia dialettale 2017”

DSCN5008.JPGMaria Andreano (FG), Raffaella Angelino (FG), Pasquale Bagnato (Australia), Stefano Baldinu (BO), Asia Beatrice (AV), Angelo Canino (CS), Cosima Cardona Marco Castellano (FG), (RC), Rocco Chinnici) (PA), Michele Curcio (AV), Donnini Noemi (AV), Giovanni D’Amiano (NA), Carla Frattolillo (AV), Agnese Girlanda (VR), Salvatore Grimaldi (SA), Tiberio La Rocca (IS), Paolo Landrelli (RC), Anna Maria Lavarini (VR), Gaetano Lia (SR), Miriam Losanno (AV), Rosaria Lo Bono (PA), Carmela Marino (Svizzera), Grazia Mazzeo (FG), Francesco Mazzitelli (RC), Carmelo Morena (RC), Marina Moscardi (BS), Matteo Nigro (Brasile), Annalisa Pasqualetto Brugin (VE), Ludovica Petrarulo (FG), Paola Picech (GO), Gianni Pisoni (BG), Nerina Poggese (VR), Michela Ramella (IM), Aldo Rossi (UD), Josè Russotti (ME), Pino Sollazzo (Australia), Carmen Tassone (RC), Ciro Tranchese (NA), Cesare Ventre (AV), Vesce Fortunato (FE), Nunzia Zingale (EN).

Premio alla Memoria Salvatore Nittoli
NB
Non sono riportati tutti i poeti scelti per l’antologia.