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Emergenza Mefite di franca molinaro

17796166_257446861384905_438702650488442278_nÈ quasi un decennio che frequento la Mefite di Rocca San Felice inseguendo i miei studi sulla flora del territorio, la frequenza delle visite poi si intensificò quando compresi che la piccola ginestra sul bordo del burrone è una entità botanica cui hanno tolto la dignità di Specie. Da allora molte delle mie energie sono dedicate allo scopo di restituire il taxon alla piccola ma tenace Genista anxantica. In questo intento è stata fondamentale la collaborazione di Gianni Riva, naturalista di Saronno. Da cosa nasce cosa e i fatti non accadono mai per caso, le persone si incontrano perché c’è un progetto a monte che noi non conosciamo e con buona probabilità, una mente superiore guida i nostri incauti passi. In principio il mio accanimento era tutto per la flora del luogo ma poi, frequentando quel sito incantato, metastorico, oserei dire, altre voci sono risalite dal profondo e hanno orientato i miei studi. L’ingresso di Benito Vertullo nel Centro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre” ha consolidato l’alleanza per la Mefite e il suo territorio. Secondo Benito “Occorre riscattare la reputazione del luogo da troppo tempo visto come pestifero e infernale. Esiste un aspetto della Mefite che ormai non è più valutato, ed è la sua proprietà terapeutica, e per terapeutico intendiamo sia la cura del corpo che dello spirito”.  Benito ha la dote di osservare con l’obiettivo della sua telecamera e gli occhi dell’anima, questa capacità non comune a tutti gli permette di instaurare un rapporto speciale col luogo sacro agli antichi Italici. Una corrispondenza intima, fatta di rispetto e di comprensione, perché solo attraverso il rispetto è permessa la conoscenza. Anche Benito frequenta la Mefite da una decina d’anni e in questo tempo ha scattato migliaia di foto indagando fin dentro le bolle fangose gorgoglianti nel laghetto. Benito si pone a servizio del luogo come un figlio o forse come un iniziato perché non ha scopi di lucro ma ogni azione è svolta a favore della Grande Madre italica così come, parallelamente, nel mio caso, un interesse mi spinge, ed è il recupero del taxon per Genista anxantica. Ma non solo, un’altra equipe di persone specializzate per ricerche nel campo della botanica, dietro nostra segnalazione, gratuitamente, con impegno e sacrificio stanno conducendo esami di laboratorio dalla morfologia alla genetica per determinare l’unicità della pianta, si tratta di Ricercatori nel campo della Botanica Sistematica e Botanica Ambientale ed Applicata, che sono la Dott.ssa Annalisa Santangelo con la Dott.ssa Maria Rosaria Barone Lumaga e la Dr. Olga De Castro, docenti e ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Napoli Federico II e il Dott.re Sandro Strumia del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali Biologiche e Farmaceutiche dell’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli. E ancora è schierato al nostro fianco a favore della mefite il Dott.re Antonio Raschi, Direttore dell’Istituto di Biometeorologia del CNR Firenze, nonché socio onorario Grande Madre. A questo punto non importa il nome di quale scienziato seguirà quello del Tenore, importante è che la Ginestrella sia riconosciuta per essere protetta da una possibile estinzione. La non conoscenza potrebbe portare ad errori irreversibili per l’esiguo numero di piante, un centinaio secondo la stima fatta in una escursione di censimento, un endemismo ristrettissimo come in nessun altro caso. Qualsiasi progetto di trasformazione della zona potrebbe mettere in serio pericolo la sua sopravvivenza. Chi lavorerà ad eventuali modifiche geostrutturali deve essere consapevole dell’importanza di questa specie di legnosa capace di sopravvivere dove nessun’altra può, ma un comune cittadino non sa nemmeno distinguerla dalla vegetazione circostante.
Per queste ragioni noi della Grande Madre ci sentiamo chiamati in causa e senza nulla a pretendere ci muoviamo con le nostre forze affinché conoscenza sia. Gli interventi di Vertullo, le mostre di Raffaele Bertolini, lo studio e l’informazione su Genista anxantica, la corrispondenza con l’Università, è quanto possiamo offrire per la valorizzazione del luogo a prescindere da qualsiasi progetto finanziato.
34774721_10212554918930356_9050046853508235264_n.jpg Un interessante lavoro, degno di nota è il testo fotografico, cui mi onora l’introduzione, curato da Vertullo, di prossima uscita, in cui la professionalità del fotografo sposa la storia e il territorio nella sua austera bellezza. Dal canto suo, Bertolini, dopo i lunghi anni trascorsi in Toscana, torna al borgo natio e inizia un lavoro che potrebbe esser definito sacro. L’artista emergente, non è solo uno scultore, egli è una sorta di sacerdote della dea Mefite, un conoscitore dei suoi segreti più intimi, dei misteri più oscuri. Bertolini scende nel vado mortale e ritorna, raccoglie pietre e sabbie dal cratere, attinge l’acqua dalle fersole, raccoglie oggetti affioranti dal magma. Non nascondo la mia profana preoccupazione di non vederlo ritornare in qualche tristo momento, ma lui conosce il vento, l’orientamento dei gas, sa ascoltare l’aria, e riemerge dal vallone integro e ben lucido. Ha classificato molte tonalità di argille che essicca e poi utilizza nelle sue opere. 36889378_477490409380548_7120009398180642816_n.jpgL’ispirazione di Bertolini è tratta dalle erme costituenti il corredo votivo della dea Mefitis, in particolare dallo xoanon 1499, il più grande delle sculture lignee definite “a fiammifero”, corredo votivo oggi custodito nel Museo Provinciale. Il lavoro più interessante e sicuramente più originale di Raffaele Bertolini, è il gruppo di maschere dell’alfabeto osco. I pezzi assolutamente unici nel loro genere ricalcano il motivo dello xoanon, sono realizzati in cartapesta amalgamata con le sabbie e le pietre della mefite. Si sa che gli artisti sono invasati dal demone della creatività ma in questo caso credo che dobbiamo parlare di una possessione sacra che questo luogo e questa divinità è capace di infondere. Ripenso alla poetessa Carmen Tassone venuta dalla Calabria per il premio “Echi di poesia dialettale”, lei ammutolì sul bordo del burrone, si tolse le scarpe, scese verso il cratere e pregò, proprio in quel momento un raggio di luna si congiunse all’acqua lattiginosa attraversando la sua figura ormai scura nelle brume della sera.
35223006_455250261604563_6705960038151749632_n.jpgE ripenso anche al libro letto da poco dell’ottima archeologa Flavia Calisti, “Mefitis: dalle Madri alla Madre” Bulzoni editore, secondo i suoi scrupolosissimi studi la mefite è il luogo di origine del culto della dea, originariamente Grande Madre italica, come tutte le Grandi Madri delle origini, dea della terra, della fertilità, della vita. Poi, con la conquista romana, riadattata alle esigenze ma passata in secondo luogo e perché no, dei cattivi odori, e gli autori latini fecero il resto. Questa lettura illuminante mi spinge a sostenere l’impegno per il luogo oltre che  per la ginestra. Il terrore che un giorno, anche la mefite di Rocca San Felice possa divenire occasione di speculazione industriale e possa scomparire per dar luogo, magari, a un ipotetico impianto di riciclo di anidride carbonica, con la deturpazione dell’ambiente e la scomparsa della Ginestra mi fa inorridire. Dobbiamo, per questo, diffondere informazione corretta, far conoscere le meraviglie e i benefici del luogo, l’importanza di una entità botanica cui bisogna restituire la dignità di Specie.
Quotidiano del Sud, domenica 15 luglio 2018

La vita dei nostri contadini nelle Georgiche virgiliane Antonio Panzone

206392_1811141395606_6376122_n.jpgAspetti della campagna: a colloquio con PUBLIO VIRGILIO MARONE
Brani dalle Georgiche Libro I- vv. 244-423; libro II, vv. 323-342; vv.475-540; libro III vv.322-380; I Egloga
Quando si alzava di buon’ora il contadino vedeva la stella di Venere, che è la più luminosa, l’ultima a tramontare nel nostro orizzonte. Andava o tornava dai campi  re primo matina, a ghiuorno, o a via e mizziuorno, o a mizziuorno, roppe mizziuorno, pe’ lo tarde, a vintiquatt’ore, a truriuorno (tre ore di giorno), a la calata re lo sole, a la sera, a l’urdem’ora, a la scuria, a n’or’e notte, roppe mezzanotte.
Il contadino  si alimentava solo dei frutti di stagione dal momento che non c’erano ancora né le serre, che ne favorivano sempre la produzione, nè il frigorifero per la conservazione del prodotto medesimo.D’inverno la campagna si riposava. Terminati i raccolti dell’uva e della frutta autunnale, cominciava il cattivo tempo ed era col freddo che si raccoglievano le ulive. . .e la legna, quando serviva per il camino, sempre che non avessero già provveduto a farne provvista.
 . .L’inverno invita al piacere, libera dai pensieri.
Allora i contadini godono il frutto dell’estate, e lieti trascorrono il tempo nei conviti . . Quando alta è la neve e i fiumi spingono il ghiaccio, è tempo di cogliere le ghiande delle download.jpgquerce e le bacche d’alloro e  l’oliva . . . (virgilio)

Gennaio era un  mese duro da trascorrere per il freddo, ma anche per le provviste che erano modeste o insufficienti nella maggior parte dei casi.
Il 17 del mese (Sant’Antuono) segna l’inizio del carnevale, ma anche il periodo in cui si cominciano

ad ammazzare i maiali. Le specialità della cucina in questo periodo erano legate tutte al maiale. Il primo assaggio avveniva con  carne (di “scannatura”) e peperoni sottaceto. “Del maiale non si butta niente”, riferisce un detto contadino: pregiati e utili sono i suoi salumi, ma si recuperavano finanche le cotenne, gli ossi spolpati per f

are il sapone, il sangue, con cui  si preparavano dolci e rustici, come  lo sammucchio;li maccarune co’ lo sango,’o sanguinaccio pe’ fa’ le pizze dolci;  altre parti, come la cotica, coteca e fasule, i piedi del maiale, pere re puorco a la pignata, altre ancora, voccolare e menesta mmaretata, tortano co’ le frittole, ecc.

Febbraio era più duro di gennaio. Un proverbio diceva “Febraro curto e amaro”.A tavola piatti del periodo erano: fasule a la pignata; pizza jonna co’ la menesta sciatizza; pizza chiena co’ salsicce, formaggio e uova, una cipolla cotta sotto la cenere.
A marzo la campagna ancora non produceva: con un pugno di farina, residuo dell’anno precedente, si facevano li fusilli, i cicatielli; e poi verdura:cicoria; carduscielle; vorraina; ieta.

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La quaresima imponeva il digiuno: ruoccole e rape con peperoncino; formaggio (chi ce l’aveva); uova;  ecc.Comincia il risveglio della natura. 

. . . Onora prima gli dei; celebra la grande cerere ogni anno, e sacrifica sulle erbe in fiore, quando finito l’inverno già primavera è serena.
Allora sono pingui gli agnelli, i vini dolcissimi; grato è il sonno, e le ombre incupiscono sui monti.
Alle selve, alle foglie dei boschi è dolce primavera. . .
Allora il cielo, padre onnipotente, scende con piogge fertili nel grembo della consorte, e immenso si unisce all’immenso suo corpo, e accende ogni suo germe.
Gli arbusti remoti risuonano  del canto degli uccelli, e gli armenti ricercano venere, e i prati rinverdiscono alle miti aure  di zefiro.
E i campi si aprono; si sparge il tenero umore; ora al nuovo sole si affidano i germogli.
E il tralcio della vite non teme il levarsi degli austri  né la pioggia sospinta per l’aria dai larghi aquiloni, ma libera le gemme e spiega le sue foglie.

M’insegnino le muse il cammino del cielo e delle stelle, le eclissi del sole e le fasi della luna. . .Siano a me care  le acque delle valli e i campi, i fiumi e le selve.
. . . L’agricoltore  smuove la terra con l’aratro, e così nutre i figli e gli armenti di buoi e di giovenchi  (virgilio).

A Pasqua la festività religiosa vedeva nella dispensa del colono benestante  salumi, come sauzicchi, supersate, uova, nelle occasioni  animali da cortile, come le galline, oche, poi l’ agnello pasquale, come voleva la tradizione; e poi i dolci del forno della Pasqua, come  casatielle, taralli, pizza co’ lo riso, pizza chiena, o pan’e Spagna, tortano co’ l’uovo, e poi panzetta re agnello cu li maccarune, mugliatielli,ecc.

In primavera inoltrata  le verdure, gli ortaggi e i primi frutti  abbondavano: verdura cruda e cotta, broccoli di cavoli, di rape, verze, cavolfiori tardivi, scarole, rucola, lattuga, finocchi, cipolle maggiaiole, lardo per le verdure; frutta fresca: mele di S.Giovanni, pere, cerase maiatiche, lappie.

La luna apre giorni fecondi al lavoro dei campi
Ipsa dies alios alio dedit ordine luna felicis operum.
Nei giorni di festa il contadino riposa, e disteso sul prato
Intorno all’ara accesa riempie i boccali, e coi compagni invoca te, leneo . . .
. . . E quando il primo sole respira su noi con i cavalli ansanti, là espero rosseggiante accende i lumi della sera. .
Ipse dies agitat festos fususque per erbam, ignis ubi in medio et socii cratera coronant, te libans Leanee vocat. . .
. . . Nosque ubi primis equis Oriens adflavit anhelis, illic sera rubens accendit lumina Vesper. .  (VIRGILIO)

L’estate offriva: frutti, patate, peperoni, pomodori, sedani, cetrioli; fagiolini, piselli, fave; e poi animali da cortile: polli, anatre, oche, conigli; aromi: basilico, aglio, ecc.
In Settembre si metteva da parte la frutta essiccata: fichi, prugne.

Le leggi divine (e così le umane) consentono nei giorni di festa (d’autunno) di derivare l’acqua nei canali, di alzare siepi ai campi, di bruciare gli sterpi, e tuffare il gregge nei fiumi.
Rivos deducere nulla religio vetuit segeti pretendere saepem, incendere vepres, balantumque gregem fluvio mersare salubri  (virgilio)

A ottobre compariva il vino novello. Nel vinicuotto si immergevano i taralli; si produceva formaggio novello.

 D’autunno, dolce matura al sole l’uva sulle rocce.
Et varios ponit fetus autumnus, et alte mitis in apricis coquitur vindemia saxis
. . .Qualcuno veglia d’inverno a tardo lume di lucerna e aguzza fiaccole col ferro tagliente, mentre la sposa, confortando il lavoro col canto, percorre le tele sul pettine sonoro, e addensa al fuoco il dolce umore del mosto, e schiuma con le fronde del paiolo che mormora. . .
. . . Quando cadono fredde le piogge, al chiuso, il contadino è ‘ più assiduo in quei lavori che quasi trascura se il cielo è’ sereno; e l’aratro affila il dente ottuso del vomere, o segna il bestiame, o numera i mucchi di grano; o aguzza i pali e le forche, e prepara giunchi d’ameria (oggi il salice  e  lacci  di  plastica)  per legare la tenera vite. . .
. . .Frigidus agricolarum si quando continet imber, multa, forent quae post caelo properanda sereno, maturare datur; durum procudit arator vomerat obtusi dentem, aut pecori signum aut numeros  impressit  acervis, exacuunt alii vallos furcasque bicornis, atque Almerina parant lentae retinacula viti . . .
La pioggia non è funesta per chi sa prevederla: quando è vicina o le aeree gru fuggono giù nelle valli, o la giovenca guardando il cielo aspira avida l’aria, o la rondine vola in continue sugli stagni, e nella mota esprime l’antico lamento la rana, e la formica attraverso gli stretti cunicoli trascina le uova dalle tane profonde. . . (Virgilio)

La raccolta delle olive procurava l’olio, ma anche le olive arrecanate; era anche il periodo delle  noci, delle castagne, mentre il mosto già ribolliva nei tini.
Il mondo cattolico creerà altre festività religiose, come Natale, Pasqua, che avvicineranno il contadino, l’uomo a Dio, unirà le famiglie e saranno occasione di festa: caratteristiche le leccornie di questo giorni: si preparano tanti buoni piatti e dolci come le zeppole, li strufoli, lo capone, peperoni sottaceto ripieni, baccalà (una volta il piatto dei poveri e se ‘ngigna  ‘no poco e vino buono).
. . . Della letteratura contadina fanno parte anche i detti come “panza mia fatt’a capanna” o “onge la panza co’l’uoglio (per farla dilatare di più e riempire meglio) ” quando veniva data la possibilità di mangiare a sbafo (occasioni di matrimoni “et similia”), cosa che accadeva anche di rado. L’amore per il pezzo di terra e quella vita, tuttavia, ebbe un fascino non indifferente al punto che mai i nostri contadini si sarebbero mossi dalla propria terra se non spinti da effettivo, drammatico bisogno. E visto che abbiamo chiamato in causa Virgilio, coinvolgendolo nel nostro discorso, è anche con Lui che vogliamo terminare. Il riferimento è alla I Egloga, dove il pastore Titiro, considerato fortunato da Melibeo perché continuerà a pascolare le sue greggi e a suonare la zampogna all’ombra di un ampio faggio, mentre egli, il colono Melibeo, sarà costretto ad abbandonare con tanto rammarico la sua terra per volontà di Roma, che oggi  (vedi i corsi e ricorsi storici) in un modo non molto diverso costringe i nostri ad abbandonare la loro terra, l’Irpinia.

“Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi. . . » « O Titiro, stando sdraiato all’ombra di un ampio faggio. . .  continuerai a godere di questo paesaggio, dei suoi tramonti,  (Titiro dice deus nobis haec otia fecit), mentre noi saremo costretti ad andarcene per le scelte sbagliate di chi ci comanda . . .”