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Nadia Marano e il suo ultimo capolavoro

nadiaQuando si è di fronte ad un’opera così complessa e così grande, quale è la “Storia dell’uomo e delle costruzioni” della pittrice Nadia Marano, non si può passare oltre senza fermarsi, prendere una sedia, mettersi comodi e osservare. Quello che ha voluto dire l’artista nel suo linguaggio pittorico non sempre è percepibile al fruitore dell’opera come, non sempre l’artista comprende perfettamente quello che la sua anima inconscia comunica alle mani nell’atto di dipingere. A volte alcune sfumature sfuggono all’artista e sono colte dall’osservatore attento, altre volte, l’osservatore legge ciò che il suo animo contiene stravolgendo il significato che originariamente l’artista ha voluto imprimere all’opera. Con questa premessa che non è di un critico, piuttosto di un sensitivo, mi accingo a descrivere l’emozione che ho provato leggendo il capolavoro, certo “capolavoro” perché di questo si tratta, nato dalle mani di una donna dalla spiccata sensibilità e padronanza tecnica.
Nella storia dell’universo, quella dell’uomo è solo un frammento, un segmento ritagliato sulla retta dell’eternità. È proprio riconoscendo questa limitatezza che l’uomo può abbracciare la sua storia apparentemente infinita agli occhi del singolo ma limitata nell’inquantificabile estensione dello spazio e del tempo. La sua avventura è dunque inscrivibile nelle pagine di un libro il cui finale è ancora da scriversi. Procedendo dalla sinistra dello spettatore, il dipinto origina un simbolo divino e magico allo stesso tempo, la spirale. Questo simbolo racchiuse in se il significato di dinamismo, continuità, sviluppo ed espansione. È lo schema del moto dell’energia universale, l’espandersi dell’universo, il big bang partendo dall’omphalos, l’ombelico del mondo, è l’espandersi della coscienza creativa di Dio che origina ogni cosa manifesta. Una Spirale Logaritmica, destinata a espandersi secondo le proporzioni auree e come tale detentrice di armonia tra le parti e tra le emanazioni. In essa risiede tutta l’anima del quadro, il divino che si cela in ogni essere, frazione adimensionale dell’Altissimo, centro individuale del cosmo relazionato, attraverso le spire, agli infiniti altri centri di cui è composto l’insieme. Nello scorrere del dipinto, però, simbolo e senso si perdono parimenti allo scorrere delle ere. Ma vediamo le origini. Dalla spirale cosmica si irradia la vita e la prima sacralità non poteva essere altro che una Grande Madre, una donna madre o una dea madre è lo stesso per l’umanità del tempo. In qualunque modo la si voglia interpretare, ella era la protagonista assoluta, custode del miracolo della creazione, della cura e protezione della vita. Da lei diparte il flusso che inonda la storia, scritta con toni delicati di carboncino e di sanguigna perché a scriverli è una donna. È una storia che si rivela nella sua bellezza, con modestia, senza chiamare in causa la distruzione ma solo la costruzione. È una mente che rifiuta il negativo e si orienta verso il bello e il positivo. Anche se a dominare la scena è lo sguardo accigliato e concentrato dell’uomo di Michelangelo, non sfugge la cura dei particolari che caratterizza la rappresentazione delle origini, dettagli che vanno sfumando col passare dei secoli fino a trasformarsi in sagome grigie di grattacieli o ciminiere; non conta molto la destinazione d’uso, entrambi rappresentano un abominio che, nella sua necessità epocale, violenta l’armonia degli orizzonti. Sull’orizzonte storico, i megaliti del cromlech di Stonehenge e le tre piramidi di Giza, hanno massa corporea, volume e definizione, ma già l’Amphitheatrum Flavium mostra i segni della dissolvenza, forse per cancellare la residualità energetica degli abomini che quel circolo racchiude. La fabbrica di San Pietro, pur nella sua posizione centrale, sia grafica che culturale, sembra non aver alcun peso sull’orizzonte, si intuisce per la sfericità della cupola e l’accenno di colonnato, ma non si esalta nella luce del cielo né si evidenzia nell’insieme dell’opera. Forse la Chiesa non ha peso nella valutazione dell’artista, o forse ne ha troppo da sentirsi in dovere di sminuirlo. Ma anche la struttura che rappresenta al meglio l’ingegno dell’uomo nella costruzione, la torre dell’esposizione universale del 1889, è soltanto abbozzata, quasi uno schizzo di Koechlin e Nouguier, senza le tonnellate del ferro, senza la maestà dell’altezza, solo un traliccio a congiungere la terra e il cielo. Un cielo che non appare conquistato dall’uomo pur con i suoi riferimenti, da Leonardo alle sagome di volantini di carta. La scena è tutta occupata dalla dimensione terrena dove si snoda la storia dell’uomo, un uomo rimasto senza anima, un’ombra che si muove tra la foresta di grattacieli, quasi pronto a scomparire, magari son queste le ultime pagine del libro che non finirà di scrivere.
Chiaramente si evidenzia, invece, Iside, la Grande Madre mediterranea, che, pur trovandosi sullo stesso piano prospettico della figura maschile, Orus o forse un faraone, ben lo sovrasta imponendo la sua figura diafana ma illuminata dall’astro posto sul capo. Una scelta casuale? Non direi. La forza creatrice della dea inspira nell’umanità l’intelletto riflessivo contrapposto alla forza prorompente e incontrollabile dell’energia maschile, le insegna l’agricoltura con il più rudimentale attrezzo agricolo, la falce, primo strumento che segna l’origine della civiltà sedentaria e cerealicola. L’uomo ruba il fuoco agli dei e la storia continua. L’eroe classico che cade in battaglia è forse un cattivo presagio, il segno di una prima decadenza. Non v’è rappresentata la maestosità di un tempio, ma un guerriero morente, la condanna dell’uomo violento evidenziato dallo scudo-lente sorretto dal braccio del morituro e dalla mano emergente dai margini del quadro. È la denuncia, forse, che nella civilissima Grecia l’uomo non era quello che si è descritto in seguito, ben altro nasconde la maschilista letteratura classica.
Sulla fronte del David, l’uomo che per secoli ha personificato la potenza del pensiero precedente l’azione, si legge un cruccio, un pensiero che non è potere ma dubbio. Il suo sguardo scruta un punto ben oltre quello di osservazione, scavalca il presente storico e indaga un avvenire incerto, quelle pagine da scrivere ancora.  Sulla destra del fruitore compare un oggetto, o un insetto, una libellula forse, un battito d’ali di speranza, un ammonimento all’umanità a rientrare in limiti sostenibili sia in termini architettonici che umani, per prevenire la sua scomparsa e continuare a scrivere le pagine del libro.
Il quadro, un monumento, è un’opera d’arte che potrebbe stare in una mano, così come la saliera di Cellini per Francesco I, è un monumento che può stare sulla tavola. Questo quadro dalle dimensioni di 7 metri per 3,20 può stare in una mano perché potrebbe benissimo essere una banconota unitaria per tutte le civiltà mediterranee, un’utopia che solo un’artista o una mente illuminata poteva concepire.

Franca Molinaro Calvi 07/07/2018