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La Valle dell’Ansanto nell’antichità, franca molinaro

DSC_0314.JPGQuando si posano i piedi su un luogo sacro si avvertono strani impulsi, sensazioni che la mente non intende eppure è stimolata a  conoscere, o almeno a cercare di individuare gli avvenimenti che hanno interessato quel suolo. Così, respirando gli effluvi soporiferi che esalano da un piccolo cratere con vegetazione bruciacchiata sui bordi, posto a margine dell’area pericolosa della Mefite, spingo i pensieri oltre il tempo, in cerca di risposte che, almeno per ora, le discipline correnti non possono darmi. Volgendo lo sguardo intorno penso che occorrerebbe riprendere gli studi di archeologia, riaprire gli scavi con studiosi competenti, supportati da attività interdisciplinari, come ha affermato più volte Flavia Calisti. Siam convinti che questo suolo abbia ancora molto da rivelare e forse è tempo di dare una svolta decisiva ad ogni cosa. Il ricco corredo votivo recuperato nel secolo scorso arricchisce le sale del Museo Provinciale, qui raccolto per facilitare la fruizione al visitatore chiaramente, ma nello stesso tempo ha impoverito il sito da cui il materiale è stato tratto. Sarebbe auspicabile, e la Sovraintendenza non me ne voglia, una struttura in loco che possa ospitare tutti i reperti inerenti la Valle dell’Ansanto e più specificamente la mefite. Non è da sottovalutare l’importanza di questo sito che racchiude in sé archeologia, religione, arte, storia, luogo frequentato da tempi antichissimi; i ritrovamenti archeologici, di là dai documenti scritti, testimoniano la presenza umana in epoca molto remota. La Valle dell’Ansanto, umbilicus Italiae, subì le trasformazioni geologiche delle ere preistoriche cui fu soggetta tutta la penisola. La presenza dell’uomo è già accertata nel Paleolitico inferiore grazie a rinvenimenti litici presso le Terme di San Teodoro, Villamaina, presso Frigento e Gesualdo. Sono resti di un’industria litica provenienti da stazioni preistoriche di superficie. A quell’epoca l’uomo era cacciatore e raccoglitore, seguiva la selvaggina nelle sue migrazioni stagionali. Cacciava mammut, ippopotami, rinoceronti, orsi delle caverne, stambecchi. Raccoglieva quanto la natura offriva di spontaneo. Ritrovamenti litici corrispondenti al paleolitico medio sono stati ritrovati tra Villamaina, Frigento, Gesualdo, Sant’Angelo dei Lombardi. Non sono, per ora, annoverati nella valle, resti del Paleolitico superiore tanto meno nel Mesolitico. Nel Neolitico (5.500-2.500 a.C.) il clima si mitiga e scompaiono gli animali pleistocenici per dar posto alle specie odierne. Al neolitico superiore (3.500-2.500) appartengono asce in pietra levigata ritrovate in contrada Capo Gaudo a Gesualdo. Verso la fine del III millennio, il periodo Eneolitico porta notevoli mutamenti. Attraverso la Puglia penetrano genti provenienti dall’Egeo e dalla penisola Anatolica che si fondono con gli indigeni apportando un rinnovamento culturale. In territorio di Gesualdo, nel 1890 Pasquale Penta scoprì un sepolcreto presso il fiume Fredane. Le tombe erano corredate di recipienti vascolari d’impasto, armi in selce e ciottoli levigati. Nella sepoltura i defunti erano in posizione rannicchiata, del tipo fetale. Nella valle del Calore è stata ritrovata la testimonianza più completa del periodo, tombe con ricco corredo e capanne di cui una con impianto a U sull’asse est-ovest, con angusto vestibolo anteriore,  perimetro definito da pietre calcaree non cementate, focolaio senza canna fumaria, buchi dei pali di sostegno, ceramiche e urne con ceneri umane. Con l’età del Bronzo possiamo parlare di Protostoria con una cultura appenninica diffusa, uomini dediti alla pastorizia, all’agricoltura e all’arte della ceramica e della tessitura. Riguardo la tessitura, Elizabeth Wayland Barber ha scoperto, grazie alle analisi linguistiche e a un lavoro pratico di riproduzione moderna delle trame antiche, che, nella storia dell’umanità, è nata molto prima di quanto si pensasse, proprio in età neolitica insieme all’agricoltura.  L’Età del Ferro vede intrusioni da parte di genti provenienti dalle regioni limitrofe e dall’altra parte del mare. La Valle dell’Ansanto molto probabilmente fu interessata dalla corrente Oliveto-Cairano, erano popoli provenienti da oltre l’Adriatico, insediatisi nelle valli del Sele e dell’Ofanto (IX-VI). Secondo D’Agostino si tratta di comunità che vivevano di essenziale, in cui i ruoli maschile e femminile avevano la stessa dignità sebbene con mansioni differenti. Mi piace pensare che siano potuti essere quei popoli proto-indo-europei di cui si occupò ampiamente la Gimbutas, etnie che vivevano in pace, caratterizzati dalla matrilinearità, adoranti la Grande Madre, sopraffatti poi dalla cultura Kurgan che impose il fallocentrismo. Nel corso dell’VIII secolo la popolazione andò differenziandosi fino al tardo secolo VII, con notevoli riscontri nelle sepolture. Nell’età tardo arcaica (VI-V) le capanne si trasformarono in abitazioni in pietra con copertura fittile. Anche le tecniche produttive migliorarono sotto l’influsso delle zone ellenizzate. Sul finire del VI secolo, gruppi di popolazioni sabelliche provenienti dall’Appennino centro meridionale, penetrarono l’Irpinia a seguito delle Ver sacrum o di transumanze stagionali. Questi popoli si amalgamarono con gli indigeni raggiungendo un notevole sviluppo socio culturale nonché politico. Giampiero Galasso nella sua “Storia dell’Irpinia antica”, attribuisce la creazione di santuari e la regolamentazione dei culti alla classe dominante sannita per apportare benefici al proprio dominio. Non sappiamo quanto la religione primordiale della Grande Madre abbia potuto influire sul nascere ed affermarsi del culto della dea Mephite, sono ipotesi che si differenziano tra uno studioso e l’altro. Il culto della divinità femminile è accertato in ambienti e culture differenti così come le sue immagini, le xoanon databili nel V sec. a. C, la cui tipologia è simile in diverse zone del mondo. Il culto della dea Mephite è documentato a partire dal VI sec. a. C., secondo quanto scrive Flavia Calisti nel suo testo “Mefitis, dalle Madri alla madre”: “…mediante una produzione artigianale fortemente originale. Nel corso del V, ed ancor più nel IV secolo a. C., iniziano a manifestarsi influssi ellenizzanti che contribuiranno all’esaurimento dell’originalità indigena”. Le strutture architettoniche più antiche, ora non visibili, che costituivano un camminamento di 25 metri con muri di terrazzamento, sono databili al III-II sec. a. C.. Nel I secolo a. C. il santuario fu interessato da un importante progetto edilizio con la costruzione di un porticato che valorizzasse l’area sacra, l’opera di ristrutturazione proseguì con una seconda fase nella prima metà del I sec. d. C., intervenendo sul camminamento e la pavimentazione. Questo intervento s’intende come un notevole interesse da parte dei Romani sulla zona pur avendo modificato il culto della dea destituendola dalla sua valenza originaria. All’inizio del IV sec. d. C. il culto di Mephite deve essere ancora presente tanto da indurre San Felice da Nola a insediarvi il culto di Santa Felicita, cristianizzando l’antico culto agreste osco-sannita. Per quanto riguarda l’irradiazione del culto è naturale che sia nato proprio nella Valle dell’Ansanto e si sia poi diffuso sulle direttrici di transumanza e di traffico calcate dalle genti osco-sannite. Nel IV secolo  d. C. è anche databile una torre che potrebbe non avere interazioni col culto della dea ma potrebbe significare un cambio di destinazione d’uso del santuario. Queste, solo poche notizie per bocca di un appassionata amante di questo luogo, è auspicabile che studiosi competenti riprendano le ricerche e nuove e più dettagliate pubblicazioni possano venire alla luce con eventuali ritrovamenti.

 

 

La Befana festa lunare, di Maria Ivana Tanga

10945541_1547803675467653_1004158607319595821_n.jpg ‘Pasqua Bufaneia tutt ‘ri fist’ pegliene la vèja’, ‘Pasqua Epifania tutte le feste prendono la via’ recita un antico adagio vallatese. La festa della Befana, considerata una festa di rinnovamento al pari della Pasqua, chiude il ciclo festivo del ‘dodekameron’, i magici dodici giorni compresi tra il Natale ed il 6 di gennaio. Un’ epoca di passaggio segnata dal risveglio della natura, tanto che i contadini di Vallata si rincuoravano, affermando che ‘scennare tene la frutt andò lu panare’, ‘gennaio ha la frutta nel paniere’.

A differenza del Natale che era una festa solare, l’Epifania si viene a connotare come una festa lunare, tanto che il termine ‘epifania’ (dal greco, ‘epi-fanèa’), viene a significare ‘apparizione’ della luna nuova, della luce lunare ‘crescente’. ‘Festa delle luci’, ‘Ta photà’, viene chiamata questa festa in Grecia e presso tutte le comunità cristiano-ortodosse orientali, retaggio dell’ antica tradizione ‘mazdeica’ e ‘zoroastriana’ della Luce, sulla quale si è venuta ad innestare la leggenda dei re Magi e della ‘stella cometa’.

Il 6 gennaio, ritenuta un’ importante data astrale, carica di segni, era celebrata con grande enfasi in tutto il Medio-Oriente. In questo giorno, nell’ antica Grecia, sarà la dea Era, Grande Madre del pantheon olimpico, a sorvolare il cielo, recando fertilità e abbondanza. Alla dea greca, nell’ antica Roma, verrà associata Diana, dea lunare legata alla cacciagione, ma anche alla vegetazione,  che, a cavallo di un ramo, nei primi giorni di gennaio, volava sui campi alfine di propiziarne la fertilità, sotto l’ egida della luna nuova.

La luna, astro strettamente legato ai cicli della natura, rappresenta l’archetipo femminile materno per eccellenza, la Madre cosmica, dispensatrice di doni. Per questa ragione essa è intimamente connessa a Madre Natura ed al suo ciclo di rinnovamento.

La dodicesima notte dopo il solstizio invernale, con la ricomparsa in cielo della luna nuova, si celebra la morte e, insieme, la rinascita della natura. ‘Espressione di una simbologia selenica, festa notturna della riapparizione della luna nel cielo, momento rituale dedicato all’infanzia e al mondo femminile, l’ Epifania è dunque, anche dal punto di vista etnografico, una festa di capo d’ anno e di rinnovamento’ (C.L. Manciocco, da ‘Una casa senza porte’).

49525718_2236665286396846_5180857459610222592_n.jpgLa Befana  che appare in cielo la ‘dodicesima’ notte, durante il ‘novilunio’, sarebbe, dunque, una delle trasfigurazioni della natura morente. Di qui, il suo aspetto di vecchia rinsecchita, vestita di toppe e di stracci. ‘La Befana è la sopravvivenza di una figura arcaica, simbolo di Madre Natura, la quale, giunta alla fine del ciclo annuale, appare vecchia e rinsecchita’ osserva Alfredo Cattabiani (in ‘Calendario’).

Figura archetipica, coincidente con l’Antenata mitica, totemica, la Befana si viene a configurare come la Madre Terra benevola, generosa dispensatrice dei frutti del raccolto. Un tempo, in Irpinia, nelle calze dei bambini, comparivano frutti ‘poveri’, del territorio, come frutta secca, noci, nocciole e castagne. Vere e proprie offerte primiziali, che, richiamando i semi della terra, venivano ad esercitare una funzione propiziatoria. Già presso i Romani antichi, la frutta secca, avvolta in foglie d’ oro e d’ argento, era donata come ‘strenae’ durante la festa di Capodanno, in segno beneaugurante. Mentre, cenere e carbone, entrambi presenti nelle calze dei bambini cattivi, sono elementi primordiali, ‘tellurici’, legati alla terra, aventi la funzione di veri e propri talismani contro il Male e la cattiva sorte.

La calza della Befana si viene così a configurare come ‘l’ oggetto meraviglioso che dispensa ogni bene, al pari della cornucopia’ spiega Franco Cardini ne ‘I giorni del sacro’. Anche la scopa sulla quale solca i cieli questa sorta di fata benefica, a metà tra maga e strega, ha una valenza apotropaica-propiziatoria, potente ‘scacciaguai’ che spazza via le scorie negative dell’ anno vecchio appena trascorso. Apotropaici sono pure i fuochi che ardono nelle campagne la sera dell’Epifania, pensiamo ai “natalecci” toscani o ai “pignarui” friulani, la cui cenere viene sparsa sui campi, per favorire un buon raccolto. Dal “pignarul grant” di Tarcento (Udine) si traggono auspici per l’anno nuovo. In Veneto, la sera dell’Epifania, si usava bruciare la “Vecia” su di un rogo.
I cortei mascherati, le cosiddette Befanate, che vanno in scena la sera del 6 gennaio, al ritmo di musica e canti, hanno anch’essi una funzione apotropaica e propiziatoria.
Nella magica atmosfera della ‘dodicesima’ notte rivive, dunque, incredibilmente, un mondo di fiaba, incantata ed arcana. E’ come un ritorno al grembo materno, ad un tempo ‘primordiale’ – per dirla con De Martino – in cui ci si sente tutti un po’ bambini. Un tempo costantemente sospeso tra realtà ed immaginazione, fuori da ogni regola, da ogni dogma. Un ‘mondo magico’, ‘marginale’ in cui gli umili, i ‘senza storia’ cercano di raccontare, da millenni, la loro visione del mondo.