Home » 2019 » March

Monthly Archives: March 2019

NELLA ‘DEATH VALLEY’ IRPINA Di MARIA IVANA TANGA

54212952_629017844227803_7697207484699639808_n.jpgITINERARI ALTERNATIVI
Non un filo d’ erba o un cespuglio. A colorare il paesaggio è soltanto il grigio dello zolfo che da millenni esala dalle crepe della terra, pietrificando ogni cosa. Un luogo quasi lunare, dal fascino sinistro, che la fantasia dei popoli antichi ha comparato alla bocca dell’ Inferno. Siamo nella valle d’Ansanto, nell’ Irpinia ‘profonda’, nel contado di Rocca San Felice, la Aeculano dei Sanniti. ‘C’è un posto nel mezzo dell’ Italia sotto alti monti, nobile e celebrato per fama in molte contrade: la valle d’ Ansanto. Questo luogo è chiuso da entrambi i lati da nereggianti pendici boscose e in mezzo un fragoroso torrente fa rumore per i sassi e per il tortuoso vortice. Qui si mostrano un’orribile spelonca e gli spiragli dell’ implacabile Dite, e dallo squarciato Acheronte una grande voragine spalanca le pestifere fauci’. Così Virgilio, nel VII libro dell’ Eneide, descrive la Valle di
Ansanto, la ‘terra sacra’ delle popolazioni irpino-sannitiche, uno dei luoghi più misteriosi ed inquietanti della Campania interiore. Per Servio, l’Ansanto, ‘nobilis et fama multis memoratus in oris’, rappresentava l’ ‘umbilicus’ di un’Italia preromana e sannitica, dalla connotazione pastorale ed agrestre. Nel commentare Virgilio, scrive: ‘I cosmografi definiscono questa località l’ombelico d’Italia; si trova tra la Campania e l’Apulia, dove vivono gli Irpini, e contiene acque sulfuree, e perciò ancor più pesanti, perché è circondata dai boschi. Perciò lì c’è l’ingresso all’Ade, poiché l’aria pesante uccide quelli che vi si accostano, al punto che le vittime presso questo luogo non vengono immolate, ma vengono accostate all’acqua e muoiono per le esalazioni’ (SERVIO, ‘Ad Aeneide’, libro VII, 563-571 ). Ancora oggi, ignari del cartello che avverte ‘Pericolo di morte’, hanno perso la vita, a causa dell’ alito mortifero della Mefite (‘mofèta’ in dialetto locale), un numero considerevole di persone. Don Vincenzo Maria Santoli, nella sua monografia sull’ Ansanto, fornisce una lista di persone perite a causa dei miasmi
mefitici che va dal 1623 al 1781, desunta dai ‘Libri Archipresbyterialibus’.
‘Li chiamano spiragli, altri Caronee, fosse esalanti soffio mortifero, come quelle di Ansanto tra gli Irpini, in un posto vicino al tempio di Mefite, dove coloro che sono entrati muoiono’  (PLINIO, ‘Naturalis Historia’, libro II, 208), così Plinio,
nella sua ‘Storia Naturale’, conferma la fama di luogo ferale della valle ansantina.
Ed è proprio l’ ombra della morte a segnare il paesaggio di questa sorta di ‘Death Valley’ irpina: carogne di uccelli, di cani, di gatti, di conigli, di lepri, fulminati dalle esalazioni mefitiche, ricoprono il terreno che cinge la polla fangosa, ribollente acidi solforosi ed anitride carbonica.
‘Gorgoglia e ribolle accanto il fango viscido di una piccola palude stigia, mentre al fondo, lungo il tortuoso cammino del torrente, esala il venefico fiato di Mefite’ (A. MAIURI, ‘Vita d’ archeologo’) , Amedeo Maiuri descrive così il ‘vado della morte’ ansantino. Un paesaggio infernale che farà supporre all’ archeologo di essere al cospetto del vero Averno degli antichi, quel micidiale ‘Aornon’ sul quale ‘nessun uccello poteva volare impunemente’. Secondo diverse fonti storiche, lo stesso Oracolo dei morti sarebbe stato trasferito dal lago d’ Averno alla Valle d’ Ansanto, in seguito alla distruzione del santuario cumano, incrementando così la fama del culto mefitico. Un culto ruotante intorno ad un santuario rurale dedicato alla dea infernale Mefite, ‘signora’ del mondo sotterraneo, delle acque e delle sorgenti.
Potente nume della vegetazione, della ‘natura naturans’, datore di vita, ma anche di morte. Sicuramente la divinità più temuta del Pantheon osco-sannitico, assimilabile alla greca Ecate e alla romana Diana. I fenomeni vulcanici ed idro-geologici, tipici del contesto ansantino, venivano interpretati come prova del potere della dea Mefite.
Il santuario ansantino, posto su un’ altura, al riparo delle spire venefiche della polla mefitica, attrarrà non soltanto genti irpine e sannite, ma anche dauni, lucani, bruzii, cioè, tutti quei popoli italici di stirpe osca che abitavano il basso Appennino. Posta sulla direttrice dei ‘tratturi’ che collegavano l’ Irpinia al Tavoliere pugliese, la valle d’ Ansanto diverrà, ben presto, non solo un  importante polo religioso, ma anche un punto d’ incontro strategico per tutte quelle tribù di pastori guerrieri che si opponevano a Roma. In un contesto sociale fortemente frantumato, il santuario della dea Mefite rappresenterà un luogo di aggregazione intorno al quale si organizzerà una delle più tenaci sacche di resistenza alla politica espansionistica romana. Un importante ruolo politico strategico che la Mefite ansantina condividerà con altri grandi santuari rurali, extra-urbani, come
quelli di Pietrabbondante e di Sulmona, nel Sannio – Pentro.
La matrice pastorale del culto ansantino è documentato dai numerosi reperti lignei, i cosiddetti ‘Xoanon’, rinvenuti nell’ area intorno al santuario, quasi tutti ex-voto, raffiguranti armenti, pecore, capre, tori, teste di animali guariti dalle esalazioni solforose della polla mefitica. Con i fanghi venivano curate diverse malattie della pelle come rogna e scabbia. In segno di ringraziamento, i pastori immolavano sull’ara della dea Mefite i migliori esemplari del loro gregge, generalmente, pecore o tori dal vello nero. Si ha notizia di un macabro rito, celebrato nel mese di luglio, durante il quale le vittime sacrificali, ancora vive, venivano spinte verso le sponde del laghetto e lì lasciate
morire lentamente tra le spire mefitiche.
Tra i reperti ritrovati nell’area del santuario, si evidenzia una statua raffigurante la dea con il volto e il corpo stilizzato, dalla fattura elegante, oggi, conservato presso il Museo Irpino di Avellino. Il culto della Mefite ‘ansantina’ durò circa mille anni, dal VI sec. a.C. al IV sec. a.C..
A darle il colpo mortale sarà l’ opera evangelizzatrice di San Felice da Nola. Sorse una chiesetta dedicata a Santa Felicita e i suoi sette figli martiri. La Santa martire romana prenderà, così, il posto della dea infernale, in un luogo naturalmente saturo di ‘sacro’. ‘Agli inizi del IV secolo, il culto pagano di Mefite viene ufficialmente soppiantato da quello di Santa Felicita col trasferimento del santuario più a Sud, sulla
spianata dell’omonima collina’ scrive il Rainini nel suo saggio dedicato al santuario di Mefite.
Un luogo dove, ancora oggi, i devoti non tralasciano di rendere omaggio alla dea dell’Averno, gettando nel lago in ebollizione un sassolino, gridando la tipica formula di rito: ‘Alza Caronte!’ come riporta il dottor Paolino Macchia in “La valle dell’Ansanto e le acque termominerali di Villamaina”, 1838, pag. 10.

La RÖSSÖMADA de la nóna…di Carmen Fumagalli Guariglia

 


12239626_726194444180085_822907801716369943_n.jpgDel mé lìber Rissète de la cüsina bergamasca salvade de bóca in bóca.
 

Öna rissèta tipica e sostansiusa di  nóscc tèp l’è la rössömada; cunussida in töta la bergamasca pò a’ se ‘ncö se la mangia quase piö. Per via de la sò sostansa, l’éra ritegnida ü potènte ricostitüènt contra i malatie del frècc o per vötà a guarì piö ‘n frèssa di mài piö malfà. Sènsa controindicassiù, l’é buna per grancc e picini ! Per preparala i è assé dè minùcc.

Chèsto l’è chèl che l’vocór:Dosi per sés persune. 4 öv, 4 cügià de söcher, 3 bicér de vì róss, opör de café o de lacc se l’éra per i s-cècc.
Preparassiù:
In d’öna marmitina s’mèt dét la burlìna di öv col söcher e s’ì sbàt fina che la  vé ciara, dópo s’ì sbàt la ciàra e quando l’è montada a nìv se la bóta dét in de la marmitina coi burline e ‘l söcher e smès-cia töt insèma. A la stèssa manéra s’fà col vì o col lacc e la nàsta Rössömada l’è prónta…Se s’völ mangiala per fà la merènda s’pöl pucià dét öna quàch biscutì o di ciapilì de pà !
Traduzione:
Uno spuntino tipico e molto energetico dei nostri tempi e la “ Rössömada “
molto nota in tutta la bergamasca anche se oggi non si consuma quasi più!
Per via del suo grande potenziale energetico, era ritenuta un ricostituente utile contro le malattie da raffreddamento oppure per riprendersi dopo una malattia debilitante.
È adatta a grandi e piccini senza controindicazioni.
La preparazione dura circa dieci minuti.
Ingredienti per sei dosi:
1) 4 uova
2) 4 cucchiai di zucchero
3) 3 bicchieri di vino rosso, oppure del caffè o consumata anche a base di latte per i bambini.
Procedura:
1) Mettere in una terrina i tuorli con lo zucchero e sbatterli fino a schiaritura.
2)Montare gli albumi a neve, incorporando delicatamente i tuorli e cercando di mantenere una struttura soffice.
3)Aggiungere il vino, il caffè o il latte, incorporandolo lentamente e sempre continuando a rimestare il composto.
È pronta.
Per la merenda si possono intingere anche del biscottini o dei bruscolini di pane.. 

                                                                                   

‘DONNA QUARESIMA’ Di Maria Ivana Tanga

images.jpg‘Caraesema’, ‘Quaraesema’, ‘Quarantana’, ‘Quaremma’, ‘Quadraggesima’: sono diversi, da luogo a luogo, i nomi della Quaresima irpina. Un nome che deriva etimologicamente dal tardo latino: ‘quadragesima dies’ ovvero ‘quarantesimo giorno’ prima di Pasqua. Un periodo di penitenza e di digiuno, dopo i bagordi del Carnevale. Sia nel mondo islamico che in quello cristiano il ‘quaranta’ è un numero simbolico che viene ad incarnare un tempo di purificazione. Quaranta giorni durò il diluvio universale; quaranta giorni digiunò Mosè sul monte Sinai; quaranta furono i giorni di digiuno e di preghiera di Gesù nel deserto.
Nella tradizione cristiano-orientale, per raggiungere uno stato di purezza totale, era uso digiunare tutti i quaranta giorni che precedevano la Pasqua, escluse le domeniche. E ciò perché, secondo la dottrina della ‘Luce del Tabor’ enunciata da San Gregorio di Palamàs, il digiuno è ‘una via verso l’illuminazione interiore’. Una regola di vita che diverrà vessillo degli asceti della Tebaide e dei monaci della Chiesa orientale, come athoniti (i monaci del Monte Athos) e basiliani, seguaci di San Basilio.
Un’usanza, questa dell’ astinenza, ripresa dal cattolicesimo romano, che fa iniziare questo periodo dal ‘mercoledì delle ceneri’. Un giorno, questo, di digiuno stretto, osservato a Vallata con grande rigore. Severamente proibite le carni e i grassi, si pasteggiava a base di verdure e legumi scarsamente conditi, mentre, pane e acqua era la dieta dei più ortodossi. ‘Di Quaresima poi agli e cipolle e pastinache e non più carne siccome a Santa Chiesa piacque e volle’ ci ricorda il poeta fiorentino Antonio Pucci. ‘Caraesema secca secca, mangia pane e fico secco’ recita un adagio di Fontanarosa, paese in cui l’ usanza della ‘Caraesema di Fonzina’ è ancora molto viva.
Nella iconografia medievale la ‘Quaresima’ è rappresentata come una vecchia rinsecchita che brandisce un’ aringa essiccata. La tenzone tra ‘cucina grassa’ e ‘cucina magra’ è raffigurata plasticamente nell’opera pittorica ‘La battaglia tra il Carnevale e la Quaresima’ di Pieter Bruegel il Vecchio. Nel ‘Libro del buon amore’, l’autore, l’abate castigliano Juan Ruiz, descrive una immaginifica battaglia tra ‘don Carneval’ e ‘donna Quaresima’ che terminerà con la vittoria di quest’ultima grazie ad una straordinaria carrellata di cibi di ‘magro’. Dalla semplice aringa all’aragosta, la lista dei cibi penitenziali stilata da don Ruiz contempla ogni specie di pesce, compresa la ipercalorica balena, tanto cara ai Baschi e ai Cantabrici. Un modo allegorico per scongiurare povertà, sciagure e miseria.
Un’ epoca, questa, segnata, oltre che da una dieta severa, anche da un grande rigore morale e da rituali di purificazione, in ricordo di quelle ‘feriae sementinae’ che, in quest’epoca di passaggio, prevedevano l’aspersione dei campi con del sale. In omaggio a Februa, la dea romana che ha dato il nome al mese di febbraio (dal verbo ‘februare’, purificare), nell’antica Roma si impastavano delle focacce al sale senza lievito, che si consumavano in segno di penitenza nell’arco di quaranta giorni. Come si può notare, il numero ‘quaranta’ ritorna, come un leit-motiv, nel periodo tra il Carnevale e la Pasqua.
A Calitri, fino a qualche decennio fa si confezionava la ‘Quarantana’, un fantoccio di stracci, dall’ aspetto di una vecchia strega vestita a lutto, con sei penne nere infisse nella pancia, tante quante erano le domeniche di Quaresima. La ‘Quarantana’, nel giorno delle ‘Ceneri’, viene appesa a balconi e finestre, come simbolo dell’ astinenza e delle privazioni di questi quaranta giorni ‘ponte’ tra l’ inverno e la primavera. Una delicata fase di passaggio dalle ombre alla luce, dai rigori invernali alla rinascita primaverile.
Un’ usanza analoga a quella calitrana era in voga a Vallata fino a qualche decennio fa. Il ‘mercoledì delle ceneri’, presso ogni abitazione vallatese, durante tutti i ‘quaranta’ giorni di astinenza, veniva appesa alla finestra una bambola vestita di nero, detta ‘Quatraggesima’, con in testa ‘lu maccatur’, il tipico fazzoletto indossato dalle nostre contadine. Il fantoccio vallatese aveva in vita una patata pavesata da sei penne di gallina, simbolo delle sei settimane che mancavano alla Pasqua, mentre nella mano recava un fuso. Fuso che richiama il mito delle Parche, divinità che presiedevano al destino umano, al fato.  In questo si sente forte l’ eco di un’ arcaica religione della Natura, che associa ‘Quadraggesima’ ad una ‘Grande Madre’ che tutto può e tutto governa, che dà e toglie la vita al mondo vegetale, come a quello umano. Filtrata attraverso la cultura ‘cattolico-romana’, la ‘pupa di pezza’ del periodo quaresimale veniva ad incarnare la vita morigerata, il vivere parco, tanto che si diceva: ‘Carnual face li ribbet e Quatraggesima ‘l paha’, ‘Carnevale fa i debiti e Quaresima li paga’.
Durante la Quaresima, a Vallata, si respirava un’ atmosfera di grande mestizia, tanto che si era soliti riunirsi nelle case per la recita collettiva del ‘Rosario’. Una pratica, questa, che tendeva a cementare rapporti amicali e parentali, in una corale di umana condivisione, nell’ attesa della rinascita pasquale.