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SAN GIOVANNI TRA MITO E RITO Di MARIA IVANA TANGA

download Dal 21 al 24 di giugno  il sole è in un’ apparente  posizione di stasi, fermo nel punto più vicino alla Terra, nella sua massima inclinazione rispetto all’ asse terrestre. La parola ‘solstizio’ (dal latino ‘sol stitium’) significa, proprio, ‘sole fermo’. Un fenomeno che dà luogo a lunghe giornate di luce e di calore. Nelle tradizioni precristiane, dal ‘mithraismo’ allo ‘zoroastrismo’, passando per i culti ‘solari’ greci, celtici e druidici, le luminose giornate ‘solstiziali’ erano ritenute sacre e per questo celebrate con grandi festeggiamenti. Presso gli antichi Romani le feste solstiziali erano dedicate al dio Giano, in qualità di somma divinità. ‘I giorni solstiziali erano sentiti come delicati e decisivi momenti di passaggio, gravidi di incertezza e di mistero’ afferma Gian Luigi Beccaria[1]. In particolare, la notte tra il 23 e il 24 di giugno, la più corta dell’ anno, era ritenuta magica, carica di energie, sia telluriche che cosmiche. Secondo un’antica credenza, in questa epoca dell’ anno, il sole (fuoco), al massimo delle sue energie, si sposa con la luna (acqua): da qui l’ usanza dei falo’ e della rugiada, presenti nella tradizione contadina, ma anche il protagonismo delle piante e delle erbe che, nel breve arco di tempo ‘solstiziale’, vengono caricate di particolare forza e potere dall’ energia solare.

Nel passaggio al cristianesimo, queste tradizioni saranno inglobate  nei rituali dedicati a San Giovanni Battista, in cui, come osserva Ernesto De Martino, magia, fede e superstizione sembrano ancora oggi intrecciarsi e fondersi, dando vita ad una vasta ed affascinante cultura popolare ricca di riti e strane credenze’.

In particolare, a Vallata, la festa del Battista è segnata da speciali rituali divinatori, a conferma che la data del 24 giugno, nel calendario ‘ciclico’ contadino, sia da intendersi come un ‘capo d’anno’, inizio di un nuovo passaggio stagionale, e per questo, carico di auspici, di segni, di pronostici per il futuro. Uno di questi rituali, in voga ancora oggi, vede protagonista un pezzetto di piombo, che, una volta fuso, viene versato in una bacinella ricolma di acqua fredda. A seconda delle forme che il piombo prenderà a contatto dell’ acqua, sarà possibile dedurre il futuro lavorativo del marito o fidanzato. L’ altra usanza riguarda una delle piante ‘solari’ tipiche del Santo: la sera del 23 giugno si usa bruciare i petali di un cardo in fiore (Carduus oppure Onopordum sp. detto ‘spina di San Giovanni), che poi viene lasciato sul davanzale della finestra ad impregnarsi di rugiada ‘magica’, benefica. Se, durante la notte, questo rifiorisce è segno di buon augurio, di prosperità.

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Carduus nutans

‘Il cardo ha questa funzione nei giorni solstiziali perché – spiega Alfredo Cattabiani – l’ involucro che circonda il suo capolino ricorda i raggi solari’[2].

Onopordum illyricum subsp. horridum (Viv.) Franco.JPG

  Onopordum illyricum subsp horridum

Come non pensare a San Giovanni come a un benefico ‘dio solare’, gravido di luce, di energia positiva, festeggiato al culmine dell’ energia del Sole, in quei magici giorni del ‘solstizio’ estivo?!

Mentre appare abbastanza strano il connubio tra il Battista e il noce, ritenuto l’albero simbolo del Santo. Legato alle potenze luciferine, in particolare alle streghe, in passato, soprattutto in epoca romana, ha incarnato il ruolo di albero magico, fatato. Pensiamo al mitico noce di Benevento, intorno al quale danzavano il ‘sabba’ le streghe riunite a convegno proprio nella mitica notte di San Giovanni.

Del resto, il rapporto fra noce e magia è molto antico. Nell’antica Grecia era legato al mito di Karia, una ninfa amata da Dioniso e da questi trasformata in albero di noce. Dedicato ad Artemide, il suo legno sarà utilizzato per scolpire le statue del Partenone, perciò chiamate ‘Kariatidi’. Non a caso, il nome greco dell’albero di noce è ‘karidos’, mentre ‘karidia’ sono chiamate le noci.
Nel processo di cristianizzazione il noce ha subito una metamorfosi, trasformandosi da albero funesto in pianta benefica, associata, addirittura ad un Santo che, per molti aspetti, ricorda la Grande Madre mediterranea, ‘domina herbarum’ , ‘signora delle erbe’ e della vegetazione.
Tanto che le noci raccolte nella notte di San Giovanni avevano una funzione propiziatrice. Dalle noci fresche raccolte nella mitica notte, a Vallata, le novelle Medee ricavano un liquore, il cosiddetto ‘nocino’ o ‘nocillo’, ritenuto una panacea per tutti i mali. Nella zona di Altavilla irpina, le donne che desideravano un bambino erano solite accovacciarsi sull’ erba bagnata di magica rugiada, all’ ombra di un albero di noce.

L’immagine di fanciulle biancovestite che, alla luce della luna, raccolgono, in silenzio, piante ed erbe nella notte del solstizio d’estate, ci riporta, come d’incanto, al passato remoto dell’umanità. Dopo millenni, in questa misteriosa notte, nelle campagne italiane si ripete, tal quale, la mitica raccolta. ‘Erbe di San Giovanni’ sono chiamate l’artemisia, la verbena, la ruta, la salvia, la lavanda, il rosmarino, il biancospino, la menta, l’iperico. Quest’ultimo, secondo la leggenda, sarebbe sbocciato proprio dalle gocce di sangue del Santo. Tutte piante odorose, in grado di scacciare demoni  e streghe, ma anche di tenere lontano i malefici, malocchio compreso. ‘I fiori e le piante di ‘mezza estate’ – osserva l’ antropologo James Frazer – erano ritenuti in grado di trasferire agli uomini parte dello splendore e del calore del sole, che li investiva, per un certo periodo, di poteri straordinari che consentivano loro di curare le malattie, ma anche di smascherare ed evitare tutti i mali che minacciano la vita dell’uomo’.

‘Nell’ Europa cristiana i vegetali sono stati largamente demonizzati o santificati’ afferma Beccaria, e questo perché si è sentito il bisogno di conferire una nuova dimensione a Madre Natura, una dimensione pervasa di ‘sacro’, in cui le piante venissero a svolgere un ruolo di difesa, di protezione contro le forze del male. Tanto che, ‘prima il mondo pagano divinizzò la flora, poi il mondo cristiano la santificò’[3]. Tra mito e rito, tra sacro e profano, tra fede e natura, si dipana la millenaria storia dell’ Occidente misterioso.

 

[1] GL. BECCARIA, ‘I nomi del mondo’

[2] A. CATTABIANI, ‘Florario’

[3] G. L. BECCARIA, ‘I nomi del mondo’

VITO, SANTO CONTADINO di Maria Ivana Tanga

downloadSan Vito martire, grande, grandissimo Santo ‘contadino’. Idolo di generazioni di braccianti e zappaterra, insieme a San Rocco e a San Gerardo, domina il Pantheon popolare irpino. Un universo politeistico, popolato di numerosi, veneratissimi ‘dei loci’, divinità locali potentissime alle quali le popolazioni rimettevano il proprio destino, affidandosi nei momenti difficili, di crisi esistenziale o in caso di malattia. Sarà proprio la precarietà esistenziale e materiale delle plebi meridionali a fare la fortuna di quei Santi ‘minori’, il cui patronato si estende a protezione della comunità locale, garantendone la sopravvivenza materiale, nonché l’ esistenza sociale. Un potentato personalizzato sicuramente meno dogmatico, più umanizzato, più concreto, e perciò più vicino ai problemi e ai bisogni della gente comune.   ‘Più di Dio e di tutti i Santi, per le plebi rustiche, da secoli lontani, vale il Santo che gli abitanti di un borgo si sono scelti come patrono’ riflette Emilio Sereni in un passo de ‘Il capitalismo nelle campagne’.

Nel caso di San Vito, la religione ‘popolare’ gli attribuiva indiscusse facoltà taumaturgiche. ‘Uno dei tratti caratterizzanti la religiosità popolare è la ricerca di guarigione e la salute è la grazia per eccellenza’ osserva l’ antropologo Marino Niola nella sua ricerca sui Santi patroni. In particolare, si credeva che San Vito proteggesse dal morso dei cani rabbiosi e da quello della tarantola. Ragno diffuso soprattutto nelle regioni meridionali e molto temuto dai contadini per quella stranissima patologia provocata dalla sua puntura, conosciuta come ‘ballo di San Vito’ (‘chòrea’ in gergo medico). Oggetto di studio della medicina e dell’antropologia, questo misterioso morbo provoca nel ‘tarantolato’ un frenetico, spasmodico moto isterico, simile ad una crisi epilettica, che si placa soltanto con la danza. Danza terapeutica, conosciuta con il nome di ‘pizzica’ o ‘tarantolata’, durante la quale viene invocato in continuazione il nome di San Vito. Un rituale che viene ad assumere i caratteri di un vero e proprio rito di esorcizzazione, come ha ben evidenziato Ernesto De Martino nel suo studio ‘Sud e magia’. Nella tipica espressione vallatase, ‘Che tin’ santu Vitu’, riferita a persone agitate o iperattive, che non stanno mai ferme, emerge, in tutta evidenza, il rapporto tra il Santo taumaturgo e gli stati emotivi o fisici caratterizzati da iperazione, da agitazione.

Mentre il legame tra il beato martire e il cane (animale che compare di frequente al guinzaglio del Santo nella statuaria e nell’ iconografia medievale) è più sommerso, dai tratti decisamente simbolici. Come fa notare Ernesto De Martino, il dies natalis di San Vito (15 giugno) coincide con l’ apparire nel cielo della costellazione del Cane[1], portatrice del caldo, della calura estiva. Calura che rappresentava una grave minaccia per le messi e i raccolti in via di maturazione. Di qui la nascita di quei numerosi ‘culti agrari’ volti a placare le forze negative della Natura, incentivando il buon esito dell’ annata agricola. Con l’ avvento del Cristianesimo, nell’Italia meridionale, il culto di San Vito venne a sostituire i rituali pagani dell´ ‘augurium canarium’ (festività che conclude il ciclo delle cerimonie ‘lustrali’ dedicate all’agricoltura nell’ antica Roma, ndr.), secondo quel processo ‘sincretico’ messo in atto dai primi Padri della Chiesa, consapevoli dell’ impossibilità di sradicare totalmente gli antichi culti a favore della nuova teologia[2].  ‘La Chiesa non ha vinto il paganesimo greco-romano, ma il paganesimo ha vinto la Chiesa’ afferma lo studioso protestante Theodor Trede. ‘Sotto le apparenze del culto cristiano, i riti ancestrali perduravano quasi in filigrana, o, addirittura coesistevano con esse’ osserva Jean-Claude Schmitt in ‘Medioevo superstizioso’. Ed è questo il caso di San Vito. Il Beato Martire che tiene al guinzaglio il cane sta a simboleggiare il controllo esercitato sul ‘cane astrale’, apportatore di calura, di siccitá, di morte. ‘E’ facile scorgere nella religione del contadino gli elementi pre-esistenti di una religione ‘naturale’ che ha la sua sorgente nel sentimento di impotente dipendenza nei confronti delle potenze naturali’ riflette Emilio Sereni. E così che Vito diviene il Santo protettore, per eccellenza, dei contadini e dei campi, in un’ epoca dell’ anno particolarmente critica come quella estiva. Non è un caso se le cappelle e le piccole chiese a lui dedicate siano, nella maggior parte dei casi, situate al di fuori dei centri abitati, vicino ai  campi coltivati, quasi a voler sottolineare il ruolo di guardia, di custodia del Santo.

Oltre ai cani e alle tarantole, sotto la ‘giurisdizione’ di Vito  rientrano tutti quegli animali che sono legati intrinsecamente al mondo contadino, quali mucche, buoi, cavalli, asinelli, pecore, capre, galli e galline.  Tanto è vero che, nel giorno della sua festa, il 15 di giugno, a Vallata, nell’ Irpinia d’ Oriente, va in scena una inedita processione a quattro zampe, composta da un nutrito ‘bestiario’, la quale compie i rituali ‘tre giri’ propiziatori intorno alla cappella campestre dedicata al Santo martire. Va ricordato come il rito dei tre giri[3]  intorno alla chiesa che ospita la statua del Santo affonda le radici nella ritualità pagana: pensiamo alla ‘circumambulazio’ (detta anche ‘turniata’), praticata dagli antichi pastori appenninici, i quali facevano girare, a scopo propiziatorio, il proprio gregge attorno ai santuari campestri del dio Silvano[4]. Le ragazze nubili, nel compiere i tre giri, chiedevano al Santo di far incontrare loro un buon partito, ‘Santu Vite meje, mannammelle nu bellu maret, bell’gione cumm’ a te’. Un rituale, questo dei ‘tre giri’, volto ad assicurare salute, abbondanza, prosperità e che ritroviamo anche a Calitri, ad Aquilonia, a San Gregorio Magno e a Ricigliano, nel Cilento. Nei tempi passati, durante i ‘tre giri’, i devoti vallatesi cantavano in coro: ‘San Vito liberaci tutti dalle serpi velenose, dai cani rabbiosi, dall’ ira del Signore e dalle male lingue’. Insomma, San Vito liberatore da tutti i più temibili mali del mondo,‘deus ex machina’ del dolente, tormentato mondo contadino.

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Pane di San Vito di Trevico- foto Mariangela Cioria

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Inoltre, all’ interno della chiesetta vallatese è usanza allestire un grande tavolo, una sorta di ara pagana, sul quale i contadini, in segno di devozione, depongono le offerte in onore di San Vito. Semplici omaggi della terra e del lavoro agricolo, quali spighe di grano, uova, ricotta, formaggio fresco di giornata, la cosiddetta ‘pigliata’ o ‘cagliata’, nel solco di una tradizione che rimanda ad antichissimi ‘culti agrari’, che concepivano i doni della Natura come tramite con la sfera divina. E sempre in ricordo di un qualche ancestrale rito che i più benestanti offrono in dono dei gallinacei appositamente allevati per il Santo, i cosiddetti ‘gallucci ‘r Santu Vitu’. Anticamente, il gallo, presso le culture mediterranee, incarnava una delle tante personificazioni  dello ‘spirito del grano’ (James Frazer, ‘Il ramo d’ oro’).

Come non intravedere il profilo, in filigrana, di un possente nume della Natura, della Vegetazione, in un’ epoca dell’ anno di massima esplosione vegetativa!

Del resto, tutte queste usanze relative al culto di San Vito a Vallata ci rimandano con la memoria a quel fecondissimo alveo mediterraneo, pre-cristiano. Nella Creta minoica, alfine di propiziare i raccolti, era abitudine donare alla Grande Madre pennuti e volatili di ogni sorta. In tutto il mondo mediterraneo, prima della mietitura era uso sgozzare un gallo o una gallina e, quindi, aspergere il campo da mietere con il sangue dell’ animale. E questo perché, secondo la mentalità primitiva, il sangue di un animale ucciso si credeva fosse vivificante, in grado di incentivare le forze germinative della Natura (vedi James Frazer, ‘Il ramo d’oro’).

Oltre che sugli animali, il protettorato di San Vito, si estende anche sulle messi. E non poteva essere altrimenti! Non per niente la sua festa cade alla vigilia della mietitura, a ridosso del ‘solstizio’ d’ estate (21 giugno). A questo punto, il legame tra il Santo ‘contadino’ delle montagne irpine e le tante deità della Natura pre-cristiane è del tutto palese: San Vito come Demetra, come Cerere, come Cibele, come tutte quelle Signore della vegetazione, potenti Grandi Madri del grano e dei raccolti, che, per millenni, hanno dominato, incontrastate, la spiritualità mediterranea. Un’ analogia, questa, che, ancora una volta, sta a dimostrare come la mitologia pagana abbia costituito il sostrato più profondo, l’ anima segreta di quel cattolicesimo popolare, meridionale e mediterraneo, impastato di magìa e superstizione, di credenze e di fede viva, di passionalità e di spiritualità.

Ed è proprio in omaggio a San Vito, quale emulo del ‘dio del grano’, che, ogni 15 giugno, in diversi paesi dell’ Irpinia, si ripete, da tempo immemorabile, la tradizionale processione delle ‘panelle’, piccoli pani azzimi, incisi a croce. Giovani fanciulle portano in corteo le ‘panelle’ che verranno benedette in chiesa, in canestri riccamente addobbati con nastri e fiori, vero inno alla natura finalmente ridestata. Una volta benedette, le ‘panelle’ vengono distribuite in chiesa, equamente, a uomini e bestie, in particolare ai cani. Un’ usanza, questa del pane ai cani, che trae origine da un’ antica leggenda. Una donna avara, avendo rifiutato del pane ai poveri, provocò l’ ira di Nostro Signore, che punì l’ umana cattiveria distruggendo il grano. San Vito, allora, intercesse presso il Signore, affinchè fossero risparmiati i chicchi da poter ricavarne almeno il pane per i cani. Da allora, i chicchi di grano vanno a ricoprire soltanto l’ estremità dello stelo.

Simbolo di abbondanza, di fecondità, i pani di San Vito fungeranno anche da talismano contro malattie ed avversità, per questa ragione vengono gelosamente custoditi dai fedeli per tutto l’ arco dell’ anno. ‘Il pane campeggia in primo piano come magico talismano apotropaico  – osserva Piero Camporesi – come sostanza vitale, simbolo della luce solare’. Ricordiamo come, presso tutte le culture mediterranee, il pane è segno e simbolo, ‘imago mundi’ dalla forte valenza positiva, gravido di valori decisamente qualificanti.

[1] Dalla costellazione del Cane deriva il termine ‘canicola’, termine usato per definire il caldo torrido dell’ estate

[2] Nella ‘Lettera a Mellito’, papa Gregorio Magno afferma che bisogna distruggere gli idoli, ma poi costruirne degli altri

[3] Ricordiamo come il numero ‘tre’ sia un numero magico che incarna la perfezione, mentre il giro che si compie intorno alla chiesa simboleggia il ruotare dell’ esistenza

[4] Un rituale, questo, che trae origine dalla ‘lustratio’, un rituale propiziatorio praticato dagli antichi romani, consistente nel girare intorno ad una stele di pietra, alfine di risvegliare le forze germinative di Madre Natura

Storia del Concorso internazionale “Echi di tradizioni”

Dalla poesia alla ricerca etnografica, una scelta vincente                   franca molinaro- Quotidiano del Sud, 2  giugno 2019

Quando, una decina di anni fa, iniziai ad occuparmi di dialetto, in seno al Centro di Documentazione sulla  Poesia del Sud, con Paolo Saggese riuscimmo a mettere insieme una dozzina di poeti irpini che, timorosi, ci affidavano i loro componimenti. Gli scrittori dialettali erano timidi e non avevano il coraggio di confrontarsi con i poeti in lingua, rispettati, osannati e pluripremiati. A insistere sul dialetto mi incoraggiarono i numerosi premi ottenuti con versi in dialetto bonitese. La ricerca, prima tra gli Irpini, poi nel resto d’Italia, così ambiziosa e impensabile, fu appoggiata ancora da Paolo Saggese che, come esperto del linguaggio poetico, non era parco di suggerimenti. Il primo seminario che organizzammo a Bonito cominciò a connotare meglio l’espressione dialettale, i raduni annuali poi, hanno dato spazio e opportunità di scambio tra i partecipanti. Il concorso, infine, con la sua antologia, estese il contatto a tutto il mondo dialettale italiano conferendogli, con gli alti patrocini ottenuti, tra cui l’Unesco e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dignità di lingua poetica. Il concorso, con nomi differenti, nacque insieme alle esperienze fatte in seno al CDPS, furono queste, in seguito, a maturare la consapevolezza che occorreva un organo autonomo per la ricerca etnografica sul territorio, un organo che si muovesse nel rispetto dei principi fondamentali: l’amore, la Terra, la cultura, la tradizione.
Intorno a questi principi e al concorso dialettale nato da poco, nacque il Centro di ricerca tradizioni popolari la Grande Madre, con le stesse persone speciali, capaci di sentire nel profondo sentimenti ispirati dal’amore per la terra e l’umanità. Da allora, gli anni sono passati, la famiglia è cresciuta, qualcuno si è perso non sentendosi in linea con le nostre idee, il lavoro si è moltiplicato, le esperienze si sono susseguite e i campi di azione si sono ampliati. Si è però sempre in cerca di nuovi ambiti in cui migliorarsi, perfezionarsi, nuovi ambienti in cui portare il messaggio, nuovi proseliti da formare, cui affidare, in futuro, il prosieguo di una attività tanto frenetica quanto indispensabile per recuperare ancora qualche stralcio di memoria. Dopo sei anni di poesia dialettale, nel 2017, ci rendemmo conto che la poesia non bastava, era utile solo al recupero del dialetto e non sempre si trattava di buona poesia, arrivavano componimenti  che con la poesia avevano poco in comune, erano solo scrittura dialettale, questo implicava un lavoro enorme con dispendio di energie e risultati insoddisfacenti. Bisognava voltare pagina, crescere, rischiare ma inoltrarsi in un campo più utile e più intelligente, bisognava che i concorrenti inappropriati si autoescludessero risparmiando tempo. Come Centro di ricerca sulla tradizione popolare, l’unico passo da fare era andare in questa direzione, verso la nostra vocazione, dovevamo plasmare un concorso sulla ricerca etnografica. Così interpellammo l’amico scrittore e antropologo Claudio Corvino, forti dei suoi suggerimenti rettificammo il tutto e trasformammo anche il titolo che divenne “Echi di tradizioni”. Creammo delle sezioni che abbracciassero tutto il campo dell’etnografia dando spazio alla ricerca e alla prosa. Da annuale, trasformammo il concorso in biennale, fare ricerca non è come scrivere di poesia, occorre tempo e indagine, occorre incontrare le persone, saper catturare la loro confidenza. All’inizio eravamo un po’ preoccupati, era la prima volta che si formulava un bando con queste richieste, chi avrebbe risposto a questo insolito e unico concorso? Diffuso il  bando, iniziarono le telefonate dei poeti che da anni partecipavano alle nostre attività. Quelli più impegnati compresero subito che la poesia stessa poteva essere strumento per raccontare, altri nuovi chiamavano per capire meglio le regole. Un’anziana poetessa siciliana cominciò ad intervistare le amiche più vecchie, in chiesa, e mi chiamava ad ogni novità. Intanto feci girare il bando tra gli amici naturalisti sperando di arricchire la sezione di etnobotanica, sezione che andava ad arricchire le mie personali ricerche. Sono stati due anni intensi, di contatti nuovi, di arricchimento. Abbiamo messo insieme notizie inedite, abbiamo aperto nuove finestre che potranno essere scrutate nei tempi a venire. Io stessa, nel mio ultimo testo, prossimo alla pubblicazione, ho citato molti autori per gli aneddoti riportati in antologia. Ora siamo al capolinea, bisogna organizzare la giornata di premiazione.  Quest’anno abbiamo spostato la location, da Bonito ci siamo trasferiti a Rocca San Felice, non abbiamo tradito la nostra sede legale, semplicemente vogliamo coronare l’intensa attività svolta in quest’anno a favore della mefite. La giornata di premiazione è stata fissata al 27 luglio, una intera giornata in cui, i poeti provenienti da tutta Italia e dall’estero, potranno visitare la mefite e incontrarla nei suoi svariati aspetti. Riteniamo che il turismo di nicchia, in questo caso turismo culturale, sia quello più adatto a un luogo così esclusivo e speciale.