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Le tappe dell’unico disegno: vita, morte ed eternità “L’uomo nuovo” nell’accoglienza di un progetto vitale, di Salvatore Agueci

download.jpg   Sembra apparentemente che tra vita e morte ci sia una dicotomia, ovvero una contraddizione e annullamento reciproco«Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello» (VictimaePaschali Laudes); la paura della morte attanaglia ogni individuo, soprattutto nel mondo occidentale, in uno spasmodico attaccamento alla vita terrena, come se fosse stato creato solo per vivere senza fine:anche nominarla può spaventarci. Il motivo è che ci immedesimiamo con il corpo, con i beni e gli affetti che ci appartengono. Pensiamo alla loro perdita materiale e mettiamo da parte quella spirituale. Ma le cose tangibili li dobbiamo necessariamente lasciare, mentre quelle che hanno alimentato il nostro spirito: facoltà conoscitive, amore… li portiamo oltre la vita terrena.

Cerchiamoper questo di esorcizzare la morte o con riti magici, o portando addosso degli amuleti, spesso di colore rosso, o toccando ferro e quant’altro…

Di fatto il termine dicotomico indica, in questo caso, una complementarietà in quanto è la stessa identità dell’essere che si divide in duefasi, anzi si crea un terzo incluso che è l’eternità, l’immortalità. Eppure l’uomo vive questa dualità terrena come contrapposta, dimenticando che ogni essere animato o inanimato sottostà a questa duplice realtà: dove c’è vita c’è morte, si nasce per morire e si muore per “nascere”, come «nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma» (Lavoisier). Francesco Guccini in una canzone “Per fare un uomo” de INomadi dice: «E cade la pioggia e cambia ogni cosa, / la morte e la vita non cambiano mai: / l’inverno è tornato, l’estate è finita, / la morte e la vita rimangono uguali…».

C’è una correlazione intrinseca.Ne “Il fu Mattia Pascal”, Pirandello fa dire a Paleari:«Non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte! Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscire da questo labirinto, il lume insomma, deve venirci di là, dalla morte» (cap. X). Il ciclo dell’esistenza è come il mare che rappresenta la morte, la vita invece è come i fiumi che ad esso conduconoinevitabilmente. In alcuni monasteri tuttora, quando s’incontrano due confratelli, si salutano ricordandosi a vicenda il momento del trapasso perché il loro sguardo e l’impegno della vita non si allontani da esso: «Fratello, si muore!» e il confratello risponde: «Si deve morire!»

Se c’è allora questo connubio, perché vivere come se non dovessimo morire?

Non c’è fine senza inizio. Quest’avvio, che non abbiamo il diritto di stroncare, dobbiamo saperlo coltivare fino alla fine, amando la nostra esistenza e arricchendola con il nostro impegno per lasciare un mondo migliore e apportare il nostro contributo, non solo temporale. Nessun uomo è però padrone della propria vita, a lui il compito di essere gestoredei propri talenti, del suo corpo come dell’anima. Dobbiamo rispettare la nostra esistenza quotidiana come un’opportunità a spandere il bene e non creare condizioni di morte in qualsiasi fase della nostra giornata. L’eutanasia,anche se si tratta di malati terminali o cronici, non legittima affatto l’interruzione della vita a piacimento. L’unica offerta encomiabile della propria vita è il morire per un ideale, come fecero i martiri e gli eroi, e in difesa dei propri simili in difficoltà.

Se siamo artefici della nostra esistenza, dobbiamo saperla impegnare al massimo delle nostre potenzialità con consapevolezza e responsabilità. Scriveva Porfirio: «Vivere male, ossia senza saggezza né temperanza e santità, come affermava Democrate, non è solo vivere male bensì continuare a morire per un tempo indefinito». Lo stesso dolore e la morte, se opportunamente valorizzati e non sopportate con rabbia, diventano la catarsi della nostrapresenza terrena.

Se la morte fa parte del ciclo della vita di una persona, è importante accettare e avere un atteggiamento positivo nei confronti di tutto quello che la Provvidenza ci pone sul cammino.«La vita è più bella perché da un momento all’altro si può perderla». (Cesare Pavese)

Un terzo fattore che scaturisce dalla vita e dalla morte è l’immortalità. In tutte le Religioni c’è questa certezza che la vita continui: nell’antico Egitto, nella stanza del defunto, inserivano tutto quello che potesse a lui servire come se continuasse a essere in vita: viveri, attrezzi… Nel Cristianesimo il cimitero diventa il luogo della dormitio, dell’attesa e chiamato per questo Campo Santo, la preghiera diventa lavacro per chi attende l’espiazione dei mali commessi in vita.Poiché l’essere umano non è fatto per la terra se non in un tempo limitato, la sua fine è un traghettamento verso l’eternità (solo il miscredente nega questa opportunità, per lui tutto termina quando il nostro cuore s’arresta). Ma questo futuro, alimentato dalla continua speranza, si prepara a partire dal qui e ora.In vita la nostra persona, unita alle opere e al patrimonio morale e umano elargito: giustizia, amore, condivisione…per essere l’inizio di quell’immortalità che ci renderà eterni, ci deve spingere, al di là della formalità, a sviluppare un dialogo costante e sincero con la nostra anima per farla trascendere nellefasi dell’unicosublime.

Anche l’amore verso Dio e gli altri fa «risplendere l’aurora d’un avvenire rinnovato, di una completa risurrezione per una nuova vita» (Delitto e castigo di Dostoevskij, Epilogo, II) sulla terra e lassù, fino al punto da immedesimarci nell’altro. «Sonia – nel testo appena citato – viveva della vita di lui (Raskòlnikov)» e San Paolo dice di sé: «Non son più io che vivo: è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).Questo, per chi crede, è certezza di vita nuova, vissuta inuna beatitudine senza fine. Per ritornare a Pirandello, lo stesso Pilara, rivolgendosi a Meis gli dice che il lume al di là della morte deve essere la fede: «Provi ad accendervi una lampadina di fede, con l’olio puro dell’anima. Se questa lampadina manca, noi ci aggiriamo qua, nella vita, come tanti ciechi» (ib.).

Anche chi non è credente e non ha fede, può scoprire che l’anima è immortale, basterebbe percorrere un cammino introspettivo per riconoscere che una parte di noi sopravvive nei nostri figli, in ogni circostanza e ci trascende. Il desiderio di immortalità è insito in ogni essere umano. Basti pensare alle nostre aspirazioni che sono verso l’infinito (Infinito e La Ginestra di Leopardi, Foscolo) e la felicità, il bisogno di migliorare, di conoscere sempre, l’aspirazione verso il bello, lo stesso desiderio di vivere, sono una continua protesa verso l’eterno. Non dimentichiamo, poi, che al di là del nostro corpo corruttibile c’è una dimensione di incorruttibilità che è la nostra essenza e che nessuno potrà mai più annullare. Purtroppo c’è una percentuale di uomini che vivono in una opacità continua perché manca loro la capacità di saper guardare oltre la materia.

Come prepararci all’eternità? Attraverso una buona morte e questa, a sua volta, ci predispone a una vita coerente con la nostra identità di esseri subordinati continuamente e obbedienti a un volere che in parte è nostro, in parte ci trascende. Occorre alimentare quotidianamente la lampada della nostra esistenza, come fecero le vergini nella parabola del Vangelo, con l’olio del bene per non trovarci impreparati, poiché la morte arriva meno che ce l’aspettiamo. Incrementarela cultura della vita, allora, vuol dire viverla con serenità, preparandoci al nostro trapasso, per il raggiungimento del traguardo finale, senza che alcuno possa rimproverarci le omissioni, anzi ci possa offrire la corona della buona battaglia. Una buona prassi di vita èavere coscienza che la morte non è un momento eccezionale o anomalo,è saper affrontare tutti i disagi della vita, imparando a morire in ogni difficoltà che si presenta, anchevivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, senza alcun rimpianto.

Erice lì, 06 ottobre 2019

 

 

 

 

 

LA REINCARNAZIONE SECONDO IL NEO-PAGANESIMO (WICCA)   Prof. Giovanni Pellegrino & Prof.ssa Ermelinda Calabria

    s-l300.jpg In questo articolo prenderemo in considerazione la questione della reincarnazione  nel neo-paganesimo (Wicca). Tale credenza deve essere considerata una delle dottrine più importanti delle nuove correnti di pensiero legate alla “religione antica”. La Wicca attribuisce molta importanza alla reincarnazione perché la considera il mezzo attraverso il quale le anime si evolvono dal punto di vista spirituale. Come molte altre religioni la Wicca insegna che la reincarnazione è lo strumento attraverso il quale le anime si perfezionano. Una vita non è sufficiente per raggiungere questa meta ragion per cui l’anima rinasce molte volte e in ogni vita racchiude una diversa serie di lezioni finché non viene raggiunta la perfezione.

Molta importanza viene attribuita dalla Wicca alla legge del karma che stabilisce quali saranno gli avvenimenti felici o infelici che caratterizzeranno la nuova esistenza degli individui. Per comprendere in che modo agisce la legge del Karma dobbiamo tenere presente che esistono debiti e crediti karmici. Tutte le volte che un individuo compie azioni in linea con le leggi universali che favoriscono l’evoluzione della sua anima accumula crediti karmici mentre tutte le volte che compie azioni contrarie alle leggi che impediscono l’evoluzione spirituale dell’anima accumula debiti karmici. Tutti quelli che accumulano numerosi crediti karmici avranno la possibilità di vivere un’esistenza felice nella successiva reincarnazione mentre tutti coloro che accumulano notevoli debiti karmici avranno un’esistenza infelice nella loro successiva reincarnazione. Secondo i Wiccan anche il sesso, la razza, la classe economica, il luogo di nascita, le caratteristiche somatiche e gli incontri caratterizzano la vita sociale del soggetto sono determinati dalla legge del Karma.Tuttavia, i Wiccan sostengono che tale legge non deve essere considerata un mezzo per elargire punizioni dal momento che gli avvenimenti negativi che colpiscono quanti hanno accumulato  debiti karmici hanno lo scopo di favorire l’evoluzione spirituale.

Gli adepti della Wiccan cercano di acquisire informazioni intorno alle loro vite passate utilizzando varie tecniche quali la trance e la meditazione che darebbero loro la possibilità di venire a conoscenza degli errori compiuti nelle vite precedenti. Cercheremo ora di esporre sinteticamente i credo della Wicca riguardo la sorte dell’anima  dopo la morte del corpo. In sintesi, i Wiccan credono che l’anima si trovi in una dimensione diversa da quella terrena nella quale aspetta il momento adatto per incarnarsi sulla terra. Riguardo le caratteristiche di tale dimensione esiste un notevole disaccordo fra le varie correnti di neopaganesimo. Alcune di esse ritengono che l’anima viaggi verso un regno conosciuto con vari nomi (la terra delle Fate, la terra Splendente, la terra della Gioventù).

Altre correnti ritengono che la dimensione nella quale si trovi l’anima dopo la morte prende il nome di Summer Land dal momento che è una dimensione nella quale regnerebbe una eterna estate. Infine, altre correnti sono convinte che l’anima si trasferisca in un regno senza forme dove vortici di energia coesistono con la Dea e il Dio.

I Wiccan ritengono che nel periodo di tempo nella quale l’anima aspetta di reincarnarsi sulla terra rifletta sulle vite passate insieme alla Dea al Dio alfine di comprendere gli errori commessi in tale vite. Le anime devono affrontare un numero grandissimo di reincarnazione per raggiungere la perfezione. Una volta che l’anima riesce a raggiungere la perfezione non ritorna più sulla terra ma vive eternamente in una dimensione nella quale ha la possibilità di essere vicina alla Dea e al Dio (trattasi della dimensione nella quale si trovavano le anime prima di reincarnarsi per la prima volta sulla terra. La Wicca afferma che dopo il progresso ottenuto attraverso la spirale delle reincarnazioni quelle anime che hanno raggiunto la perfezione si allontanano per sempre dalla terra.

Vogliamo mettere in evidenza che esiste una notevolissima differenza tra l’escatologia della Wicca e quella della religione Cattolica (L’escatologia è quella parte della dottrina di una religione che spiega che cosa accadrà agli individui dopo la morte.) Mentre la religione cristiana sostiene che dopo la morte alcuni individui andranno in Paradiso dove avranno la possibilità di contemplare Dio e altri andranno all’Inferno dove subiranno la dannazione eterna lontani da Dio, la Wicca afferma che prima o poi tutti i Wicca avranno la possibilità di ricongiungersi alla dea sebbene il numero di reincarnazioni necessaria per ottenere questo obiettivo vari notevolmente da individuo a individuo.

In sintesi possiamo dire che l’escatologia della Wicca è molto più ottimistica di quella della religione cattolica non solamente perché non prevede la dannazione eterna per nessun individuo ma anche perché non crede che vi sarà una fine del mondo caratterizzata da eventi terrorizzanti ed apocalittici narrati da Giovanni nell’Apocalisse l’ ultimo libro della Bibbia. L’ Apocalisse deve essere considerato il libro più inquietante della Sacra Scrittura perché Giovanni afferma che gli ultimi tempi saranno caratterizzati dalla temporanea vittoria del diavolo cui seguirà la punizione divina manifestata con terribili tragedie che colpiranno l’ intero pianeta e dalla seconda venuta di Cristo che giudicherà tutti gli uomini e sconfiggerà definitivamente il diavolo, l’anti Cristo e tutti i suoi seguaci. Dopo tali avvenimenti vi saranno nuovi cieli e nuove terre.

Infine, dobbiamo dire che la credenza nella reincarnazione e nella legge del karma, sostenuta dalla Wicca, permette di dare una spiegazione ad un problema molto inquietante che solleva numerosi interrogativi. Perchè gli individui son così diversi uno dall’altro, per bellezza, intelligenza, successo? Secondo la Wicca quelli che hanno una vita felice hanno meritato tale sorte perché si sono comportati bene nelle precedenti reincarnazioni mentre quelli che hanno una vita infelice e sono colpiti da numerose malattie e dolori hanno meritato tale sorte perché si sono comportati male nelle vite precedenti. Il problema del male del dolore dell’infelicità viene affrontato in maniera diversa dalle religioni che non credono né nella reincarnazione né nella legge del karma. Anche la Bibbia cerca di dare una spiegazione al problema del male del dolore e della sofferenza che colpiscono gli individui. In un primo tempo la Bibbia propone il concetto della retribuzione terrena ovverosia che gli individui che compiono azioni malvagie vengono puniti con sofferenze dolori e infelicità nella stessa vita terrena. In un secondo momento va in crisi il concetto di retribuzione terrena perché diventa evidente il fatto che molto spesso anche individui buoni e giusti vengono colpiti da disgrazie dolori infelicità. Quindi la Bibbia passa poi al concetto di retribuzione ultraterrena che si basa sulla credenza che il bene e il male compiuti saranno puniti o premiati nella vita ultraterrena. Quindi appare chiaro che le religioni che credono nella reincarnazione danno risposte molto diverse da quelle che credono nella reincarnazione, al problema della felicità, infelicità, della gioia e del dolore tra gli uomini.

 

 

L’ATTEGGIAMENTO DI COSTANTINO NEI RIGUARDI DELLA DIVINAZIONE prof. Giovanni Pellegrino – prof.ssa Ermelina Calabria

download.jpgCostantino dopo aver sconfitto Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio si convertì alla religione cristiana anche se si fece battezzare solo in punto di morte . Costantino dichiarò che la sua vittoria su Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio era stata dovuta in gran parte all’aiuto di una “mens divina” che trascendeva le divinità tradizionali del paganesimo. Dopo questa vittoria Costantino ebbe i suoi primi contatti col cristianesimo attraverso i rappresentanti della chiesa di Roma. In seguito a tale conversione Costantino emise dei provvedimenti legislativi che riguardavano la divinazione effettuata dagli aruspici che rivestivano grande importanza nel paganesimo tradizionale romano . Il primo di tali provvedimenti legislativi proibiva agli aruspici di entrare nelle case private anche per motivi estranei alla divinazione; inoltre Costantino si spinse ancora oltre vietando ogni tipo di amicizia con gli aruspici. Le pene minacciate sono gravissime : la condanna a morte per l’ aruspice, la confisca dei beni e il confino in un’isola per quanti accoglievano nelle loro case gli aruspici . 1 (CT h 9,16 ,1) In un altro provvedimento legislativo Costantino riconfermò il divieto agli aruspici di entrare nelle case mentre concedeva agli aruspici di celebrare i loro riti nei templi pagani in pubblico. 2 (CT h 9,16,2) Come si vede Costantino pur vietando agli aruspici di entrare nelle case private permette loro di celebrare i loro riti nei templi : questa apparente contraddizione si spiega tenendo presente che la maggioranza dei sudditi di Costantino erano pagani e non avrebbero tollerato la proibizione totale dei riti degli aruspici . 3 (G. Pellegrino L’ atteggiamento di Costantino nei riguardi dei templi pagani e degli anfiteatri, centro studi la runa). Costantino in questi due provvedimenti legislativi manifesta una ostile indifferenza verso gli aruspici ma poi in un successivo provvedimento legislativo permette che siano consultati gli aruspici secondo le antiche tradizioni pagane nel caso che un fulmine abbia colpito un edificio pubblico. 4  (CT h ,16 ,10 ,1)

Riteniamo ora opportuno  chiarire chi erano gli aruspici e quale ruolo abbiano avuto nella storia di Roma per meglio comprendere la portata dei provvedimenti legislativi di Costantino . Gli aruspici erano gli indovini che nei tempi più antichi avevano il compito di predire il futuro dalle viscere degli animali sacrificati e poi si occupavano dell’ interpretazione dei fulmini e di altri fenomeni naturali . Sin dai tempi della repubblica romana gli aruspici avevano avuto un notevole prestigio e le loro parole avevano influenzato i più importanti personaggi della Roma repubblicana, ma anche sotto l’impero la situazione non cambiò e molti imperatori si avvalsero delle prestazioni degli aruspici che ricevettero incarichi di particolare importanza da parte di molti imperatori . Tutto però cambiò dopo la vittoria di Costantino su Massenzio poiché Costantino dopo la sua vittoria non celebrò i tradizionali riti pagani e scatenò per tale ragione il malcontento e le nostalgie di una città ancora in massima parte pagana. Soprattutto gli aruspici che erano soliti celebrare i loro riti nelle case private al di fuori di ogni controllo costituirono un pericolo costante per Costantino poiché andando di casa in casa potevano sobillare la popolazione contro di lui formulando profezie contrarie all’imperatore. Per evitare tali rischi Costantino vietò l’ aruspicina privata con pene tanto severe che da sole ne dimostravano la grande diffusione .Tuttavia leggi di condanna della divinazione privata non erano nuove nel mondo romano: esse erano già state promulgate da alcuni imperatori con misure di tutela nell’ordine pubblico . Tuttavia a differenza dei precedenti imperatori Costantino non si limita a colpire gli aspetti più pericolosi dell’aruspicina privata ma esprime un disprezzo del tutto nuovo verso l’aruspicina pubblica pur ritenendola legalmente lecita. Quindi Costantino mostrò di disprezzare uno dei riti più antichi della tradizionale religione pagana  5 (J. Maurice  “ la terreur de la magie au IV° siecle “ in Revuehistorique de droitfrancais et étranger VI ( 1927) , 109). Vedremo ora alcuni dei provvedimenti legislativi adottati dagli imperatori che precedettero Costantino contro l’ aruspicina privata . Secondo la testimonianza di Cassio Dioene, Augusto aveva proibito agli indovini di profetare da soli ed inoltre aveva proibito ogni profezia che riguardava la morte di qualcuno  . 6 (Dio Cas, LVI , 25 , 5) A sua volta Tiberio aveva rinnovato tale divieto come ricordava Svetonio che attribuì a tale divieto, all’indole particolarmente sospettosa dell’ imperatore il quale temendo delle vendette derivanti dal suo comportamento nei confronti dei sudditi viveva in continuo terrore. Tuttavia Costantino a differenza dei sui predecessori prese le distanze anche dall’aruspicina pubblica che faceva parte dal tempo degli etruschi della religione  tradizionale romana. Per dirla in altro modo Costantino voleva far comprendere ai suoi sudditi di essersi allontanato da questa antica tradizione romana.  Per comprendere i motivi che spinsero Costantino a prendere le distanze dalla religione tradizionale romana bisogna tener presente dal 313 in poi Costantino si fece influenzare dalle credenze della Chiesa come dimostrano altri provvedimenti legislativi da lui emanati. Dobbiamo evidenziare che i cristiani avevano sempre considerato i riti della divinazione così come quelli magici tra i loro peggiori nemici anche perché maghi e indovini avevano in passato esortato gli imperatori a perseguitarli. Volendo fare un esempio concreto Lattanzio ricorda che furono proprio gli aruspici con le loro accuse a fornire il pretesto a Diocleziano per cominciare le persecuzioni contro i cristiani . 7 (Vita Costantini II, 50). Nonostante tutto le masse cristiane non erano insensibili al fascino che la divinazione continuava ad esercitare. Infatti nella vita di ogni giorno non erano rari i casi di cristiani che accanto ai pagani cercavano di conoscere il futuro attraverso i riti della vecchia religione pagana. La Chiesa molto preoccupata da tale fatto ribadì a livello ufficiale la condanna della divinazione in ogni sua forma: nel concilio di Ancira del 314 furono puniti i cristiani che predicevano il futuro e che seguivano le pratiche pagane magiche . 8 (Concilio di Ancira , canone 24). Questa disposizione conciliare presenta singolari analogie con i provvedimenti legislativi di Costantino dal momento che in entrambi i provvedimenti vi è il divieto di ospitare indovini nelle case private . Oltre ciò Costantino disprezzava gli aruspici anche perché essi prima della battaglia di Ponte Milvio avevano emesso profezie sfavorevoli all’imperatore e favorevoli a Massenzio . Per tutti questi motivi le disposizioni di Costantino non si possono considerare semplicemente finalizzate a tutelare l’ ordine pubblico ma si devono considerare conseguenza della sua conversione al cristianesimo. Tuttavia Costantino non ebbe il coraggio di proibire l’aruspicina pubblica anche se la disprezzava. Per comprendere i motivi di fondo della prudenza dell’ imperatore riguardo l’ aruspicina pubblica dobbiamo fare alcune considerazioni di carattere generale. In primo luogo bisogna ricordare che i culti della divinazione, particolarmente nel periodo storico di Costantino erano estremamente diffusi nell’impero romano e trovavano adepti persino tra i cristiani. D’ altra parte la necessità di conoscere il futuro era conseguenza della crescente insicurezza di quei tempi: la grande crisi economica che scoraggiava ogni spirito di iniziativa; il peso di una burocrazia corrotta che rendeva impossibile qualsiasi speranza di miglioramento politico; una giurisdizione che lasciava impuniti la maggior parte dei delitti e l’ idea che l’ intera umanità fosse colpita da una decadenza irrimediabile. Tutto ciò spingeva individui ad interrogarsi disperatamente sul loro futuro e ad accogliere con favore quelle persone che come gli indovini sembravano poter diradare la caligo futuri. Inoltre secondo le credenze dell’ epoca innumerevoli presagi guidavano la vita di ogni uomo . Pertanto, gli indovini, che avevano la capacità di interpretare i presagi, godevano di grande prestigio sociale . A Roma poi le cerimonie dell’ aruspicina avevano ancora particolare rilievo presso l’ aristocrazia senatoria che si sentiva erede e custode delle tradizioni religiose della città . Per tutte queste ragioni ora esposte Costantino non ebbe il coraggio di proibire l’ aruspicina pubblica mettendosi contro “ i moss maiorum “ dell’ antica tradizione romana . In conclusione possiamo dire che se Costantino avesse proibito l’ aruspicina pubblica si sarebbe messo contro non solo le masse ancora pagane ma anche l’ aristocrazia senatoria che in quel periodo storico pur perdendo gran parte del potere politico manteneva però intatta la sua ricchezza fondiaria ed inoltre cercava di difendersi dai nuovi ceti emergenti anche sottolineando il prestigio che le derivava dall’essere essa  la  sola classe garante dei costumi e delle cerimonie religiose dell’ età classica .

 

Simposio d’autunno in Baronia

70809101_2671291066267597_7319408516232380416_n21 settembre Primo raduno degli autori della Baronia,                    franca molinaro
La luna è una palla a mezza pancia assopita nel quarto di ponente; appesa sulle colline dolci dal profilo smussato. Alla fredda luce si accentua il riverbero tra il fogliame argenteo degli ulivi. Siamo a settecento metri di altezza, di fronte, il monte di Trevico s’impone col fianco di Nord-Ovest. Sotto i piedi c’è San Nicola Baronia, annidato tra il verde dei boschi, come un selvatico addormentato. Il tappeto di Leontodon rosanoi  (il dente di Leone dedicato al botanico Antonio Rosano) non si stropiccia al nostro passo, ma tutto profuma di verzura, di erba tagliata di fresco. Mezzanotte è andata da un pezzo, nell’aria risuonano i saluti, le promesse di rivederci presto. Complimenti al padrone di casa, ai poeti, ai musicisti. C’è aria di festa spensierata, cuori leggeri, entusiasmo contagioso. Siamo a casa di Antonio Morgante, segretario UPI, in territorio di Castel Baronia; ci ha radunati qui Giuseppe Iacoviello, studioso di San Nicola e membro UPI, c’è anche il presidente UPI Michele Ciasullo, simposiarca equilibrato, mente profonda e riflessiva, grande pensatore e miglior relatore. Ci hanno riuniti in questa fiancata di collina per comunicarci un loro desiderio e noi della Grande Madre siamo giunti con entusiasmo e musicisti, si perché quando suonano i nostri ragazzi, Daniela Vigliotta e Gerardo Lardieri, ogni spirito si placa, ogni umore si acqueta, si distendono i pensieri e la membra fremono. Lo abbiamo chiamato “Simposio d’autunno” ma in verità è il primo vero raduno degli autori della Baronia con la partecipazione straordinaria dei vicini dell’Alta Irpinia e del Sannio. L’intento di Iacoviello è fondamentale e noi della Grande Madre lo sosteniamo da sempre con entusiasmo, bisogna procedere coralmente cercando il confronto, la discussione costruttiva, ma soprattutto l’umiltà di intenti. Occorre che ogni studioso venga valorizzato per la sua attività di ricerca, per il lavoro svolto a favore del territorio, è un dovere delle organizzazioni culturali e civiche rendere omaggio a chi lavora e trovargli la giusta collocazione perché occorre la collaborazione di tutti per raggiungere velocemente un obiettivo. Una prima serata dunque, informale, in cui ognuno ha espresso il proprio pensiero tecnico, ha offerto la propria esperienza, ha proposto un possibile percorso da seguire, “tenendoci per mano” sottolinea Nicola Guarino, con la trasparenza e l’innocenza di un fanciullo, perché a Teora forse è ancora possibile.  Ma è il proposito quello che conta e questi ragazzi paion esser tutti concordi. Iniziamo la serata con una passeggiata tra gli ulivi per scoprire fitonimi dialettali e metodi di cottura. Bastano pochi chilometri in orizzontale e pochi metri in verticale per trovare entità nuove e nuovi costumi. La serata procede tra regole di scrittura, poesia, musica dei Nostri cui si aggiunge il maestro Muto, ed ottimi manicaretti preparati da tutti i presenti.  Tra un intervallo e l’altro abbiamo ascoltato le declamazioni serie e i lazzi, le ironie, le malinconie, tutto rigorosamente in dialetto. Abbiamo ascoltato Rino Ciampolillo da Vallata, con piacevoli assonanze di sentimenti e tradizioni; Michele Ciasullo da Flumeri e la sua necessità di leggerezza dello spirito; Costantino Firinu da Sansossio ma originario di Pozzuoli, un dotto scrittore che da solo può reggere uno spettacolo con le sue colorite rievocazioni popolari; Emidio Natalino De Rogadis da Teora, un tuttofare che non disdegna la poesia pur concentrando la sua attività sulla ricerca storica, il teatro, lo spettacolo; Libero Frascione da Bisaccia è uno dei più completi studiosi della zona, nella sua ricerca ha registrato tutti gli aspetti delle sue contrade con una attenzione per l’etnobotanica, argomento sconosciuto e poco considerato dai ricercatori, Libero abbina alla competenza la simpatia dei suoi scritti e della declamazione. Da Teora, Nicola Guarino, architetto pittore ma anche ottimo scrittore, con il suo paese nel cuore. Ogni paese ha il suo studioso e San Nicola ha Giuseppe Iacoviello, la sua produzione letteraria vastissima raccoglie regole e storie, momenti andati ma anche di un passato prossimo. Da San Nicola Manfredi Vincenzo Panella non tradisce la lingua napoletana, scrive i suoi lunghi e fantasiosi testi usando una piacevole rima. Da Carife Salvatore Salvatore ha speso la vita per la sua terra ed ora che l’autunno s’appresta non perde la vena di amarezza che da sempre lo accompagna. Infine un poeta gentleman, Mario Vitale da Grottaminarda, la sua poesia sempre volta alla contemplazione del bello non disdegna pensieri  intimi e spirituali. Personalmente, ho apportato il mio contributo facendo risuonare i dialetti italiani dalla Sicilia alla Croazia, grazie agli autori delle antologie del nostro concorso “Echi di tradizioni”. A questa bella comitiva mancavano indubbiamente altri studiosi della Baronia che saranno sfuggiti alla lista, penso ai paesi assenti, Vallesaccarda, Trevico, Castel Baronia, Villanova del Battista, ecc. Questa mancanza andrà rettificata nei prossimi appuntamenti perché, il progetto in fieri nella mente di Iacoviello, è riunire i ricercatori in un sistema collettivo di scrittura dialettale per favorirne la fruizione anche quando i nostri testi passeranno in mano ai posteri.