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L’Ofanto dai flutti ruggenti, franca molinaro

L’Ofanto presso Lioni (AV)

L’Ofanto dai flutti ruggenti                                           di franca molinaro
Da ormai oltre cento anni le montagne irpine inviano acqua in Puglia, la sorella flagellata dalla penuria di falde acquifere accessibili. Un orgoglio, la generosità degli Irpini, che in questi ultimi anni sta mettendo in ginocchio l’ecosistema delle valli fluviali. Questo problema lo sollevavano gli amici Montellesi discutendo delle sorgenti del Calore, e ancora turba gli amici pescatori coi quali amo girovagare. Proprio una pescata sul fiume Ofanto ci ha confermato le preoccupazioni iniziali spingendoci a indagarne lo stato di salute. Partendo dalle sorgenti, passando per l’invaso di Conza, poi per quello di San Pietro, sotto Monteverde, fino a Rocchetta, abbiamo trovato una situazione ambientale ai limiti del sostenibile. Ecco l’Ofanto, dai “flutti ruggenti”, citato nell’Encyclopedie di Diderot e D’Alambert, già noto ai classici, Polibio, Orazio e poi Virgilio, come Aufido, un corso d’acqua dalla portata “taurina” in riferimento al fragore della corrente in questa fase giovanile. È il fiume Aufido che raccolse il sangue dei popoli antichi, Osci, Irpini, Sanniti, Romani, belligeranti, sempre pronti alla pugna pur di difendere la terra e la libertà. I Romani conquistatori, poi, lo domarono cavalcandolo con diversi ponti a schiena d’asino, meraviglie dell’ingegneria del tempo; ponti che, come tutti i ruderi antichi, conservano custodite tra le campate novelle di briganti e diavoli. Oggi, le sue acque hanno subìto le sorti della sua gente e, come per il fiume Calore, così per l’Ofanto, è restata solo la gloria stampata nei cuori nostalgici di chi ama e studia questa terra, dei pescatori che rammentano ogni pietra, ogni insenatura. Costeggiamo il fiume dalle sorgenti. Già nella fase torrentizia, nel tratto da Torella a Lioni, il fiume è ridotto a ruscello, il letto è invaso da erbe che avviluppano le sponde, l’acqua è coperta da Lemna minor, la  lenticchia d’acqua, una tra le spermatofite più piccole esistenti. La sua presenza indica il rallentamento della corrente e la stagnazione dell’acqua. I ciottoli, bianchi ai margini del letto, sono coperti di alghe filamentose dove quel poco d’acqua che scorre è raggiunta dai raggi del sole. Queste tallofite prolificano quando la temperatura dell’acqua aumenta e diminuisce l’ossigeno, anche l’inquinamento con sostanze organiche favorisce il loro aumento, fluitano o si aggrappano ai sassi, a ramaglie secche, a tutto ciò che incontrano. Sugli argini, rigogliosa cresce la gramigna d’acqua, o Panico acquatico, Paspalum distichum, si distingue per la spighetta distica, per il bel verde tenero. Piccoli insetti corrono sulla superficie disegnando cerchi e piccoli solchi che si richiudono all’istante. Non c’è segno di rane o di pesci, qui, dove un tempo si poteva pescare la trota. L’aria sa di stagno, di materia vegetale in marcescenza. Zanzare assetate di sangue insinuano la pelle scoperta, si accaniscono e ci scacciano.

Lemna minor
Anodonta anatina
Spongilla lacustris

  Ci allontaniamo percorrendo l’Ofantina, la strada che costeggia il fiume, una delle più belle d’Irpinia, fa da confine tra regioni, di là è la Basilicata, Monticchio, il Vulture. Di qua le zone più verdi della provincia di Avellino, tra le più belle. C’è Conza vecchia sul monticello, abbandonata tra il verde e i cumuli nembo del cielo estivo. Una volta si specchiava nell’acqua dell’invaso, oggi guardiano silente del lago degli orrori. Ed è questa la seconda tappa del nostro sopralluogo, l’invaso di Conza; qui la situazione è a dir poco spettrale. Il fondo della diga emerge con i numerosi cumuli di sassi, come se un caterpillar si fosse divertito a scavare casualmente nel letto di un fiume. Alberi scheletriti, riemergono grigi, adornati dalle formazioni di Spongilla. I gabbioni di sostegno sono mura oscene che disegnano elementi geometrici tra fango e acque melmose. La vecchia strada cementificata abbandona i prefabbricati e si getta a capofitto nell’acqua, là dove è ancora profonda. Non si vedono uccelli, non c’è più l’airone, nemmeno acquatici o falchetti, si vedono però i pesci fare piccoli voli sull’acqua. Tutt’intorno  un infinito prato verde costituito esclusivamente da Xanthium italicum circonda la diga oltre la fascia limosa. La nappola  italiana è una maledizione per gli animali al pascolo specialmente per gli ovini ai quali attacca i catoclesi uncinati come espediente riproduttivo. Ma anche lei ha la sua croce, ovunque è infestata da Cuscuta campestris, una parassita che vive a sue spese rubandole la linfa con i suoi organi micidiali. Lungo le sponde fangose si notano nette le orme dei cinghiali venuti all’insoglio o a bere, lasciano il segno delle unghie fesse, profondo nel limo degli argini, lasciano buche aperte dove si rotolano per liberarsi dei parassiti. Loro conoscono il potere terapeutico del fango. A riva, qualche carcassa di pesce morto indica le dimensioni degli abitanti di queste acque.
Valve enormi di Anodonta anatina, giacciono spiaggiate, questi molluschi sono importantissimi per l’ecosistema, filtrano grandi quantità di acqua e la purificano. I tronchi secchi, i sassi, la rete dei gabbioni, sono colonizzati dalla Spongilla lacustris, ormai fuori dall’acqua, morta forse o in quiescenza, aspettando che il livello dell’acqua risalga. Le Spongilla Lacustris appartengono al regno animale, sono spugne d’acqua dolce che preferiscono acque poco profonde. Si trovano comunemente in stagni, laghi e acque a movimento lento. Si trovano sia al riparo dal sole sotto rocce e tronchi, sia su canneti e rocce dove c’è maggiore esposizione, possono assumere forme diverse secondo l’ambiente, in questo caso hanno un aspetto inquietante, sembrano munite di strani tentacoli porosi, creste e filamenti.
A monte, un boschetto insolito di Gleditsia triacanthos, lo spino di Giuda, mostra le belle, enormi silique brune molto simili alle carubbe, ma scoraggia ogni saccheggiatore con le sue spine aguzze. Da verde questo baccello è commestibile, non so qui a Conza se  si usa mangiarlo, non so nemmeno se sono indigene o sono arrivate qui chissà come. Anche Amorpha fruticosa è presente sulle sponde dell’Ofanto, il falso indaco, una pianta americana che si comporta da infestante cercando di sostituirsi alla Robinia pseudoacacia, di cui è cugina. La pianta è molto amata dalle api che la bottinano quando sfiorisce l’acacia producendo un ottimo miele.
Incontriamo un pescatore locale e chiediamo qualche informazione, pare che negli ultimi mesi il livello della diga sia sceso di dieci metri, ma la quantità di acqua che continuiamo a mandare in Puglia è sempre la stessa. Si legge su “Agronotizie”: “L’Acquedotto Pugliese paga l’acqua 4 centesimi al metro cuboe la rivende ai consorzi di bonifica, dopo la potabilizzazione, a 80 centesimi al metro cubo”. Questo mentre in Campania l’acqua viene razionata e le valli fluviali inaridiscono. Occorre prendere provvedimenti, subito. A valle c’è un depuratore ma non è chiaro se l’acqua che depura è inviata in Puglia o scorre nel fiume, decidiamo quindi di continuare lungo il corso per capire meglio. Sotto Cairano scendo di nuovo nel fiume, qui il letto è largo forse quattro cinque metri, lo attraverso con le scarpe senza bagnarle, vi scorre un centimetro di acqua. La vegetazione è molto interessante, belle entità idrofite, come Potamogeton nodosus, Veronica beccabunga, una simile alle graminacee, forse Nanozostera, annaspano nella corrente. Entità da sponda affollano rigogliose gli argini conferendo al luogo una singolare bellezza, Alisma lanceolatum, Lycopus europeus, Bidens tripartita. Resterei qui a lungo per studiare queste entità assenti nei tratti di fiume che normalmente frequento, ma dobbiamo proseguire per completare il sopralluogo.
Ci dirigiamo a Monteverde, sull’invaso successivo, qui negli anni scorsi si metteva in scena un bello spettacolo sull’acqua. attraversiamo la pineta e ci avviciniamo a quelle che un tempo erano le sponde. La nappoli ci ostacola il passo ma qui è più piccola e si può attraversare. Colonie di Erigeron sumatrensis e bonariensis, Simphioticum scquamatum, disegnano chiazze di colore diverso. Una bella colonia di Linaria vulgaris è ancora in ottima forma e mostra i suoi bei fiori gialli.

Lago San Pietro, Monteverde (AV)

Del lago v’è poca acqua e  si concentra presso la chiusa, il resto del letto è fango, fitta vegetazione da sponda affolla tutto il fondale fangoso disegnato da profonde fessure geometriche. Orme di cinghiali e forse di lupi, considerata la forma e la dimensione, sono impresse nel suolo molle. Ruderi di masserie emergono dal verde brillante del letto, su una fiancata un arco rudimentale ma ancora perfettamente in piedi, occulta un orifizio, forse un comignolo formato da quattro pietre che si auto reggono, meraviglie di una civiltà cancellata inutilmente. Ora il territorio è abbandonato, non è più agricolo, non è più lago, solo una distesa di incolti dove le spontanee più coraggiose colonizzano, le altre si difendono.
È qui che ho segnalato la prima stazione di Alisma lanceolatum in Campania, ora l’ho cercata in lungo e in largo tra la fitta vegetazione, fino a ritrovarla: due soli individui e uno lungo il fiume. Speriamo reggano la siccità. Col cuore a pezzi e i commenti rancorosi degli amici pescatori si rientra scuotendo dai vestiti i frutti della nappola; un ramarro verdissimo resta immobile nascosto tra fiori di Linaria vulgaris, mi fermo per fotografarlo, vorrei spostare le erbe ma so che lo molesterei e potrebbe esser pericoloso. Resto per un po’ ad ammirare il suo corpo verdissimo, i muscoli scattanti sotto la pelle rugosa, i suoi occhi fissi nei miei, capisco che ci sono dei limiti da rispettare. Il sole rosseggia dietro il bosco di Aquilonia e spande lievi riflessi sull’acqua increspata, un guizzo in superficie indica un grosso pesce. Racconto del granchio alieno, Callinectes sapidus, un granchio gigante avvistato nel basso Ofanto che fa man bassa della fauna ittica, un’altra sciagura d’importazione, anche lui pronto ad attentare all’ecosistema del fiume. I pescatori scuotono la testa ricordando i bei tempi, a quarant’anni fa quando il fiume era ancora ricco di acqua, di pesci, e tantissimi uccelli nidificavano lungo le sponde, allora era possibile incontrare anche la lontra tra le canne.

Alisma lanceolatum

Aldo Colucciello: “Una persona generosa, dotata di calda umanità” franca molinaro

Aldo Colucciello ci ha lasciato sabato scorso, prematuramente, tutto il mondo della ricerca lo piange. “Una persona generosa, dotata di calda umanità”, così l’antropologo Claudio Corvino ricorda l’amico ricercatore, postando sui social una foto scattatagli a fine agosto, proprio in Calvi, il suo paese, dove i due si erano dati appuntamento. La stessa foto pubblichiamo qui perchè ci sembra perfetta per ricordarlo.  Come tutte le anime sensibili, anche Corvino era colpito dalla grandezza di cuore dell’amico Aldo, dalla sua sincerità e straripante dolcezza, sempre modesto, occultato in un angolo ad osservare ed ascoltare. ”Io” non era un pronome abusato da Aldo, infatti pochi conoscono la mole di attività condotte dal ricercatore, la quantità di studi svolti, articoli pubblicati. La sua dolcezza era espressa nei suoi occhi profondi e tristi. Un dolcezza e un fascino il suo che gli era conferito anche dagli studi sull’India, un mondo dalla spiccata spiritualità. Da dietro l’occhio meccanico della sua fotocamera e telecamera sapeva cogliere quei particolari che narrano senza l’ausilio delle parole. L’ho conosciuto forse una ventina di anni fa, entrambi nella squadra del prof. Pierluigi Rovito per la Rivista Storica del Sannio, ma io ero una ricercatrice in erba, lui con una mole di esperienza, correggeva le bozze con gran delicatezza, evitando di urtare la suscettibilità di chiunque. Nel 2019, col prof Rovito stava organizzando un seminario internazionale sul cibo per il quale mi contattò come esperta di erbe spontanee, poi arrivò la pandemia e tutto è sfumato. Di lui un amico avrebbe tanto da dire, e me lo ha confermato la telefonata di Florindo Cirignano, in lacrime, per il compagno di pellegrinaggi a feste insolite. Ma non è questo il luogo per un memoriale, voglio ricordare solo le più importanti attività condotte dall’antropologo laureato all’Istituto Orientale di Napoli con una tesi su “The Holi Festival: Two Worlds in Opposition Between Order and Chaos”, e con Dottorato in Etnoantropologia presso La Sapienza di Roma. Vincitore del dottorato “Asia Orientale e Meridionale” presso l’Orientale di Napoli.  Molte le attività di ricerca: con il Prof. SM Pandey curatore del dizionario Hindi ~ Italiano, a cura del Centro Studi Lessicografici dell’IsIAO di Roma e Istituto Universitario Orientale di Napoli; in Storia dell’India contemporanea e moderna presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli; specialista e collaboratore del Prof. Marino Niola in Temi Antropologici presso l’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli; responsabile del progetto “Laboratorio di Rituali e Pratiche Festive”, Università degli Studi di Napoli – Suor Orsola Benincasa; socio Generale IsIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) di Roma; collaboratore come Antropologo e Addetto Stampa al Museo delle feste e tradizioni popolari di Casertavecchia; membro del Comitato Scientifico della “Rivista storica del Sannio”; membro del Laboratorio di Antropologia Sociale dell’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli;direttore della Rivista on-line “Note a margine” sul sito www.museodellefeste.it.; membro generale della Gujarat Studies Association; socio Generale AISEA (Associazione Italiana Studi Etnoantropologici); coordinatore delle attività del Progetto di Studio “Le immagini e la memoria” a Rocchetta Sant’Antonio (FG). Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Macerata, Hindi Culture and Litterature; coordinatore delle attività del Progetto di Studio del CeSMu – museo e Centro Studi Fiume Medio-Calore – zone di Benevento / Avellino; coordinatore delle attività del Progetto di Studio per i Beni Culturali dell’Associazione Officine Koiné (Salerno); curatore della mostra fotografica sul Country Side Life Style a Montefusco (Avellino) presso il Carcere Borbonico nell’autunno 2002; curatore della mostra cinematografica: “Me, Us, the Other … Representations of Identity”; collaboratore al Florence Indian Film Festival “River to River” . Numerose le sue pubblicazioni. Poliglotta, parlava portoghese, inglese, indiano. Aveva fondato B.R.I.O. (Visual Anthropology-Applied) un festival di documentari di carattere antropologico e contribuito alla nascita di Intimalente. Con Antonio Martone collaborò per radio 3 alle “feste del grano” e “Arrefresca l’anema ro’ priatorio”, tre puntate sul cimitero delle Fontanelle. Sempre con Martone realizzò quattro puntate sui Briganti e brigantesse nell’unità d’Italia. Moltissimi i progetti in fieri che non vedranno più la luce. Purtroppo Aldo, come la maggior parte di noi, non è stato profeta in patria, una persona del suo spessore, oltre che un vanto per il territorio, era una risorsa, bastava solo dargli spazio e possibilità di lavorare dignitosamente; ma la ricerca antropologica per il nostro entroterra sembra essere roba da perdigiorno, non fa economia, è solo per studiosi “folli” o per una élite, quella stretta cerchia di amici che ora lo piange. La cosa si spiega facilmente, il mondo ormai ha preso la sua direzione, denaro a tutti i costi e sempre più velocemente per battere la concorrenza, tutto gira intorno a questo, non vi è più umanità ma numeri, percentuali, reddito, il tutto supportato da una politica che non guarda al bene della comunità ma alle personali escalation. Così non comprendi come mai un progetto serio, culturale o scientifico, non è preso in considerazione mentre si sperperano i fondi pubblici per cosette incomprensibili. Caro Aldo ho espresso il mio pensiero che era anche il tuo. Ora che sei lassù, nel “mondo della verità” come si dice qui da noi, forse troverai risposte a tutte quelle domande cui non eravamo capaci di darne quaggiù. Ora tu sei nella luce, mentre noi siamo qui a chiederci l’ennesimo perché, ad annaspare tra l’insufficienza per non essere sopraffatti. A presto amico, che la Grande Devi ti accolga tra le sue numerose braccia e ti culli donandoti tutto l’amore che meriti.

Claudio Corvino, l’antropologo che ascolta la terra irpina di franca molinaro

Quotidiano del Sud, domenica 30 agosto 2020
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Alcuni anni fa, l’antropologo Claudio Corvino, mi confidò che desiderava approfondire un tema insolito. Immaginava di misurare suoni, voci, rumori, chiacchiericcio, tutto in decibel, e con questa scala di misurazione, studiare la storia e la vita delle persone. La confidenza restò tale e tanto meno tornammo più sull’argomento. A dicembre scorso la sorpresa, pubblicato dalla Newton Compton Editori, esce il suo volume: “Napoli come non l’avete mai sentita, Le voci della strada, le musiche della tradizione, i rumori di una città pulsante di vita”, 364 pagine di racconti, storia, di antropologia del sonoro, dall’inconfondibile Via Rua Catalana al fastidioso rombo delle motociclette, dal fischio del treno alla musica sparata da un’auto in corsa, tutto rientra nel paesaggio sonoro indagato dal nostro amico nonché presidente di giuria in “Echi di tradizioni”, per La Grande Madre. Corvino, Napoletano a Roma, ben noto per la mole di ricerche condotte, per la sua straordinaria sensibilità e umanità, allievo di Alfonso di Nola, è uno studioso dell’entroterra ed in modo particolare dell’Irpinia, tant’è vero che proprio in questi giorni sta lavorando sul nostro territorio. Io ho avuto il piacere di accompagnarlo nelle sue ricerche, poi, davanti a un bicchiere di vino, prima che il sonno ci cogliesse, ci siamo raccontati a lungo, così ho indagato su quest’ultimo testo e ora posso condividere le sue riflessioni con i miei lettori.

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“Claudio, come sei arrivato a questa pubblicazione?” – In realtà l’idea del libro è stata una logica conseguenza dei miei studi di antropologia storica, una disciplina sempre più attenta alle mentalità e alla vita quotidiana dell’uomo, quindi al suo ambiente e ai suoi paesaggi, che non sono solo visuali ma anche sonori.” – “Non basta quindi registrare le storie o i vissuti che ci raccontano i nostri informatori?” – “No, assolutamente. Perché una società non è fatta solo di testi e monumenti, di cunti e scambi matrimoniali, ma anche di suoni e rumori, frutto e produttori di cultura quanto tutti gli altri aspetti materiali, elementi che, a saperli interrogare, potranno dare un mare di informazioni, che siano gli zoccoli di un cavallo sul rivestimento ligneo della Firenze medievale, il tintinnio delle bottiglie  del lattaio del secolo scorso o le grida scomposte, le scampanate, urlate sotto la finestra di un coppia di anziani risposatisi in seconde nozze. Anzi, a dire il vero è forse proprio durante le mie ricerche di dottorato in Irpinia sulle seconde nozze e i rituali cosiddetti di charivari, che ho iniziato ascoprire il paesaggio sonoro. Non a caso, è stato più o meno in quegli anni che ho scritto un breve saggio sul Paesaggio sonoro in Irpinia, ancora immaturo e inedito.Ricordo quanto mi colpì allora la sirena della fornace Clemente-Malanga di Sant’Andrea di Conza. Una laica memoria elettrificata che era diventata con gli anni quasi un elemento naturale del paesaggio, una tonica, uno di quei suoni creati dalla geografia e dal clima di una determinata zona: l’acqua, il vento, gli alberi, le colline, gli animali. Suoni che si imprimono così profondamente nell’animo delle persone che li ascoltano, da influenzarne il comportamento e la stessa quotidianità, al punto che una vita senza di essi viene percepita come un reale impoverimento: come sarà la vita di un Santandreano lontano dalla sua sirena?” –“Allora possiamo dire che se questo capolavoro è venuto alla luce un po’ lo devi alle emozioni provate in Irpinia?” – “BEH, CAPOLAVORO! GRAZIESi, certo., fu allora che scoprii la particolarità del paesaggio sonoro irpino, soprattutto se comparato a quello urbano di Napoli: fu così che, molti anni dopo, cominciai a prendere appunti e registrazioni tra le strade e i vicoli della città.” –“Cosa hai colto nel paesaggio sonoro irpino?”–“Mentre il paesaggio sonoro urbano è offuscato da livelli d’intensità ambientali sempre più elevati, le toniche irpine sono contraddistinte da elementi naturali e da un relativo silenzio. Cani che abbaiano a parte, ovviamente.In Irpinia non solo ho riscontrato competenze acustiche insospettabili, non comuni, forse grazie anche a un immediato dato sociale, che vuole che tra gruppi umani sparsi, diradati, e nei piccoli gruppi, i suoni ed i rumori non si affastellino l’uno sull’altro ma siano circondati da un alone di quiete e silenzio. Questo fa sì che in Irpinia ogni suono sia un evento sonoro, e come tale possa essere interpretato; ogni rumore sia un indizio delle modificazioni dell’ambiente, analizzate da quel potente sismografo che è l’orecchio. A Napoli, come hai visto nel libro, le cose sono leggermente diverse, anche se non mancano in città luoghi cuscinetto tra i due mondi, in cui quello che noi definiamo natura ha ancora una sua impronta. Oltre che alle profondità del Golfo, in quel mondo sottomarino che ho scoperto molto più rumoroso di quanto mi aspettassi. Come scrivo nel libro, il dire muto come un pesce è un’affermazione assolutamente sbagliata, o almeno antropocentrica.” – “Il Corona virus ha stravolto il paesaggio sonoro immagino!”–“Durante il trascorso lockdown, almeno nella sua prima fase, ci siamo tutti stupiti di fronte a quelle sonorità domestiche che fuoriuscivano da balconi e finestre di un’Italia in sordina e terrorizzata rimasta muta di fronte alla violenza di un virus sconosciuto e invisibile, silente, che pure mieteva tante vittime. Lo stesso Soundscapeitaliano improvvisamente cambiava, fatto oramai da strade silenziose dove solo gli animali sembravano ritrovarsi a proprio agio e provare piacere. Fino a quando il panorama sonoro era saturo di suoni, al balcone si mettevano bandiere silenziose e colorate, ma quella cappa di silenzio forzato ci ha fatto spostare le casse dello stereo fuori dalle finestre, musicisti professionisti e gente comune hanno segnalato la loro presenza con trombe, chitarre, voci, e si sono affermate musiche identitarie (queste sì significanti, piacevoli, assolutamente non campanilistiche o sovraniste) come Pino Daniele, O mia bela madunina, Crêuza de mä di De André…”- “Cosa vuol dire Soundscape?” – “Il Soundscape, termine derivato da sound, suono e landscape, paesaggio, è una qualsiasi porzione di ambiente percepibile con l’udito. La differenza con il normale concetto di paesaggio sta nel fatto che mentre questo può essere rappresentato con un’immediatezza da fotografia polaroid, istantaneamente o sincronicamente, il paesaggio sonoro si svolge in diverse fasi e momenti, in modo dinamico e diacronico. È per questo che quando se ne parla si applicano tecniche e metodi utilizzati in musica, utili a decifrare lo sviluppo di un’opera nel tempo e valutarne la successione temporale. Il paesaggio sonoro, inoltre, ha una sfumatura ancora diversa da quella semplicemente acustica: è una costruzione soggettiva e mutevole, che varia da soggetto a soggetto in dipendenza dall’attitudine all’ascolto, dalla capacità auditiva, ma anche dalla cultura ed estrazione sociale”.Mi viene naturale concludere: “Solo tu, con la tua sensibilità affinata potevi partorire un simile testo, la Grande Madre è onorata delle tue collaborazioni”. Naturalmente attendiamo il Paesaggio sonoro irpino.