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Il melograno delle dee franca molinaro

Punica granatum


Girando per vecchie masserie e borghi agricoli notiamo che non v’è abitazione sprovvista di un alberello addossato a un muro esposto a Sud. Questo albero di straordinaria bellezza è il melograno, Punica granatum, della famiglia delle Lythraceae.  I Romani lo chiamavano Malus punica, e Plinio lo definiva appunto mela di Cartagine, egli scriveva:  “I melograni crescono vicino a Cartagine e ne hanno preso il nome” (XIII. 19). Il latino punicus deriva dal greco e signifiva rosso scarlatto, il colore che i Cartaginesi e i Fenici commerciavano sul Mediterraneo, lo stesso colore che troviamo nei fiori del melograno. In realtà la pianta proviene dall’Asia ma in tempi molto antichi conquistò l’aerale dell’ulivo  acclimatandosi bene grazie alle temperature miti. Nel nostro entroterra, con temperature invernali più fredde, si tende a proteggerlo piantandolo in luoghi soleggiati e riparati dalla bora, ecco perché lo troviamo contro i muri. Il melograno, ranato in dialetto dell’entroterra, è un albero spinoso deciduo, a primavera si copre di gemme rosso ruggine che piano piano trascolorano in un bel verde lucente. In giugno compaiono i fiori, quelli fecondati si trasformano in frutto, chiamato balausta.  Da noi, in passato il melograno era impiegato soprattutto nella preparazione dei cicc cuott nel giorno dei morti mantenendo quel legame arcaico che lo pone tra i due regni in segno di rinascita ciclica. I frutti intatti si appendevano alla pertica insieme alle altre derrate e lì si lasciavano fino a Natale per consumarli in compagnia dei propri cari, augurio di prosperità come la ricchezza che mostra il melograno aprendosi, simile a centinaia di piccoli rubini raggruppati regolarmente. Il proverbio teorese, riferito da Emidio Natalino De Rogatis recita: : Ind a nu scat’lin’ è chin’ r’ rubin’ so’ fauz’ e so’ chin’, russ’ r’ culor’ si adduin si nu dottor’. Dentro una scatolina è pieno di rubini sono falsi e son pieni, rossi di colore se indovini sei un dottore.
  E la melagrana è veramente una ricchezza ma per la nostra salute. Già Ippocrate (460-377 a.C) ne aveva intuito le potenzialità medicamentose, oggi ben documentate dall’attuale letteratura scientifica. Si è confermato infatti che tutta la pianta, dalla radice al succo, agisce su varie problematiche che possono affliggere il nostro organismo. In particolare si è rivelato utile contro l’invecchiamento grazie ai suoi principi antiossidanti presenti soprattutto nel succo. Ma veniamo alla simbologia di questo frutto che io ho voluto deporre nelle mani di mia figlia il giorno delle nozze. La melagrana è un attributo delle grandi madri e con esse è arrivata tra le mani della Vergine Cristiana.  Con le Madonne la troviamo ritratta in più opere, dalla Vergine della Granada del Beato Angelico alla Madonna della Melagrana di Jacopo della Quercia, passando per la Madonna del Magnificat di Botticelli, poi il Pinturicchio, fino alla più anonima Madonna del Granato di Capaccio Vecchio a pochi chilometri dal Museo di Paestum dove una Era del VII secolo garantisce la continuità iconografica e sacrale. È incredibile come abbia potuto resistere al susseguirsi dei culti restando sempre nella mano destra di una nuova Madre. La sua forma, la sua bellezza, la coroncina regale che porta in sommità, i circa 600 semi strettamente contenuti e protetti dalla buccia coriacea, il rosso sanguigno del suo succo, ne fanno un attributo femminile che nessuno ha potuto spodestare anche se, con la cristianità, la melagrana tende ad identificarsi anche con Cristo e il suo atto di amore infinito nell’immolarsi per l’umanità. Molti miti legati alla nascita del melograno sono al femminile ma quello che coniuga definitivamente il frutto con le caratteristiche delle Grandi Madri è il mito di Persefone, la bella fanciulla rapita da Ade e pianta disperatamente da Demetra tanto da ritirare la vegetazione da tutta la terra. Persefone nel regno dei morti mangiò i chicchi di melagrana offerti dallo sposo e questo atto la condannò a tornare periodicamente sotto terra per riattivare il miracolo della rinascita primaverile. La melagrana, con i suoi numerosi semi, ben coesi l’un l’altro, interpreta la rigenerazione annuale e cosmica, la vita insomma, e i sui semi sono i figli degli umani ma anche i figli della Madre, le numerose creature che periodicamente si svegliano dal grembo buio e germinano portando nuovi fiori e frutti. Questa interpretazione mi è validata dalla testimonianza di una cara amica sposata in Grecia, la quale, al primo capodanno trascorso sul suolo gentile si ritrova ad assistere ad una cerimonia sconcertante per una padrona di casa impeccabile.

Maria Felicia Di Pietro

Quando la suocera entrò nella casa degli sposi la notte di capodanno, con violenza lanciò sul pavimento una melagrana, lasciando che il frutto si aprisse e i chicchi ne uscissero succosi e sanguigni. Sbigottita  Maria Felicia non commentò e serbò in cuor suo questo gesto che doveva essere sicuramente beneaugurale perché, mi spiegava, ovunque in Grecia trovi raffigurata la melagrana, nei dipinti, negli oggetti che si regalano, nelle sculture. In verità, questa usanza che si contempla con qualche variante in altri luoghi del Mediterraneo, in Turchia è la sposa a lanciarla, indica fecondità e i chicchi rappresentano i figli che nasceranno. Veniamo ora a qualche consiglio utile a chi ha un melograno in giardino o una varietà nana in vaso sul terrazzo. In primavera, appena inizia ad aprire i primi fiori compare l’afide del melograno, un piccolo insetto che vive in colonie e succhia la linfa al povero albero riducendolo appiccicoso e stentato. Per risolvere il problema in modo naturale è possibile mettere a macero del tabacco, Nicotiana tabaccum, chi non ha piante prenda il tabacco contenuto in sette sigarette e lo metta a macero in un litro d’acqua per circa 48 ore. Filtri poi questo macerato e lo nebulizzi su tutta la pianta fino a bagnarla. Se l’infestazione dovesse persistere ripeta il trattamento dopo quindici giorni. Attenzione a questo macerato che può risultare tossico per bambini e animali domestici.

La melagrana – Lidia Santoro

Quando chiedevamo a nostro padre quanto fosse stato duro crescere solo figlie femmine, dapprima restava un momento in silenzio a riflettere se dire tutta la verità o solo quello che volevamo sentirci dire, poi  rispondeva che non vi erano stati problemi. Solo su insistenza confessava che fin dal momento della nascita aveva sentito il bisogno di proteggerci, perché temeva per la nostra incolumità o per eventuali errori incancellabili, che avrebbero avuto ripercussioni anche sulle altre sorelle. Con i maschi ci sarebbero stati meno pensieri, per noi avevasempre provato un profondo senso di impotenza davanti ai nostri dolori, alle scelte future, agli incontri. Avevamo dovuto aspettare di essere adulte  per sentire quelle parole; ci guardavamo compiaciute, pensando che in fondo lo avevamo educato bene. Per questo ci aveva insegnato a guidare la macchina, a usare il suo fucile da caccia, a difenderci dai pericoli. Con me che ero l’ultima e lui si sentiva già vecchio, non è stato protettivo, sapeva di non poter essere sempre presente al mio fianco, ma ha sempre voluto che sapessi difendermi, che non avessi paura, che non conoscessi la timidezza. Io ero orgogliosa di accontentarlo e nascondevo bene le mie ansie. A Natale in campagna, dopo aver acceso un grande falò che doveva essere visibile fino alle  colline circostanti, al posto dei botti si usava il  fucile. Era più pesante di me, ma riuscivo a tenerlo tra le braccia, a prendere la mira e premere il grilletto. Ricordo ancora il leggero dolore alla spalla nel momento dello sparo.

 Non c’erano mai soldi per i capricci, per i vestiti di lusso, per  quelle scarpe in vetrina che sognavo ogni volta che tornando da scuola passavo per il corso. Miracolosamente poi, senza problemi,potevo comprare il vocabolario o il libro di testo o seguire il corso d’inglese. Era orgoglioso dei nostri successi scolastici e desiderava per noi il lavoro e l’indipendenza economica. Si infastidiva se scopriva qualche amoretto o se qualche ragazzo frequentava casa senza un motivo palese.

Mia madre…Il mattino della befana trovavamo come regalo lenzuola ricamate, coperte di  filet, tovaglie da dodici o gomitoli di filo per lavori a uncinetto. Lo stesso accadeva ai compleanni e una baule custodiva gelosamente queste sue speranze…Il suo obiettivo era il corredo, il matrimonio, la sistemazione. Mio padre l’assecondava malvolentieri, perché davanti ai suoi occhi si materializzava il giorno in cui ci avrebbe perse. Per lei dovevamo sapere impastare, dal pane in poi , saper svolgere qualsiasi incombenza domestica, ci voleva vicino quando preparava una torta, anche se poi impiegava il doppio del tempo. Spesso noi eravamo distratte o interessate ad altro, lei sbuffava infastidita  che non avremmo mai imparato niente e che così continuando non ci saremmo sposate! Non è stato un facile rapporto, anche perché aveva ardentemente desiderato il maschio, l’erede, il nipote tanto atteso dal nonno. Noi forse ai suoi occhi rappresentavamo il suo fallimento.Mina, Lalla, Anna e Gianna hanno pochi anni di differenza, anche solo mesi. Per me, ultimo estremo tentativo, ben dieci anni. Non mi è mai stato chiaro se veramente fossi un tentativo o un errore, alla mia domanda cambiava ogni volta discorso o la spiegazione era sempre diversa. Erano i tempi in cui ancora non era ben chiara la “responsabilità” maschile  del genere del nascituro. Si sarebbe potuta riscattare solo con dei buoni matrimoni e si adoperava perché fossimo delle mogli perfette e soprattutto delle madri!

Alla vigilia delle nozze delle mie sorelle mio padre era nervoso e assente, lei attenta che fosse tutto impeccabile, orgogliosa mostrava i regali, il corredo, i preparativi. Conoscevo i suoi pensieri, sperava che tutto filasse liscio, che il grande giorno fosse perfetto, ma  soprattutto che l’unione fosse allietato da figli. Noi che eravamo cresciute  con una educazione quasi laica, con valori positivi, con uno stile di vita  indipendente da condizionamenti borghesi e ancestrali, grazie al rapporto complice con nostro padre, tolleravamo per rispetto e educazione i riti propiziatori di nostra madre. La mattina delle nozze, alla presenza di tutti i membri della famiglia, mia madre donava alla figlia una melagrana, come simbolo di fertilità, recitando una sorta di preghiera, rivolgendosi alla Madre e  le augurava una vita  feconda e sana.“Madre amatissima, ho guidato fino a oggi i passi di mia figlia, nel bene, nell’amore per il prossimo e nella ricerca dei veri valori della vita. Fa’ che i miei insegnamenti siano sempre ricordati, nella fedeltà per il suo sposo, nell’amore reciproco e nell’educazione dei figli che tu vorrai donare a questa coppia.  Fa’ che condividano, fino alla fine dei loro giorni, l’amore, le gioie e i dolori. Ora non è più mia, ma tu continuerai a essere la sua Madre, che tutti nutre e tutti protegge” Mia madre aveva scritto tutto su un foglietto, ma se qualche pensiero le sfuggiva, improvvisava, trovando nuove parole, sempre appropriate e toccanti. Lei non era l’attrice che recitava la parte, ma l’autrice del copione e si poteva permettere di aggiungere o di cancellare.I nostri sorrisetti irriverenti e divertiti la indispettivano; ci guardava severamente come delle atee impenitenti. I matrimoni delle mie sorelle sono stati allietati da diversi figli….

Durante gli studi classici scoprii con piacere e stupore che il saluto che gli anziani della mia famiglia rivolgevano all’Uria, quando rientravano in casa, era un ricordo dei Penati romani, i Lari, i protettori delle mura domestiche e che la cerimonia della melagrana aveva origini ancora più antiche: le ateniesi durante i riti della fertilità ne mangiavano il frutto e ne bevevano il succo in onore di Demetra, la Dea Madre.

Al mio matrimonio rifiutai il rito, né mia madre insistette molto: ormai le altre si erano “sistemate”, ero l’ultima, il suo compito lo aveva portato quasi a termine, un insuccesso non avrebbe invalidato il suo lavoro.

Ho avuto il primo figlio quasi dopo due anni di attesa agitata e nervosa. Quante volte in quei due anni ho pensato e ripensato, con rimpianto,  a quella melagrana rifiutata, a quella preghiera alla Dea Madre “che tutti nutre e protegge”, quante volte!

Mappatura dei poeti dialettali e dei ricercatori della provincia di Benevento

Amorosi
Apice
Carmela D’Antonio di Benevento, lavora nel Fortore ( Sannio).  Maestra di scuola primaria, curiosa di antropologia e ultimamente affascinata dai legami tra riti antichi e scoperte di epigenetica e fisica quantistica, approccia la ricerca con interesse e rispetto tanto da poter immaginare in lei il prosieguo della generazione andata.
Apollosa
Arpaia
Arpaise
Baselice
BENEVENTO
Sonia Boffa è nata a Roma da genitori campani; sua madre, con i suoi numerosi familiari era di Benevento, dove Sonia ha trascorso, da bambina e non solo, le sue estati e le feste, ascoltando le storie di famiglia. Laureata in Lettere Moderne, ha svolto a Roma attività di ricerca e di insegnamento anche in un istituto penitenziario. Trasferita a Bracciano svolge attività di lettura (laboratori di lettura, letture ad alta voce in occasione di eventi etc.). Le è sempre piaciuto leggere, scrivere, ascoltare e raccontare storie.

Paola Caruso:
Adriana Pedicini, vive a Benevento. Già docente di lettere classiche nei Licei, e referente di teatro classico, scrive da tempo. Ha pubblicato una prima stesura di racconti e tre sillogi di poesie. Ha curato “Da Europa all’Europa” dispense didattiche sul teatro antico e sull’origine della civiltà occidentale, attraverso il mito di Europa e gli archetipi del pensiero, del diritto, dell’arte, della letteratura su incarico del MIUR per conto dell’IRSAE. Ha conseguito premi con opere inedite in vari concorsi nazionali e internazionali.
Lidia Santoro, docente di Scienze Naturali, si occupa di divulgazione scientifica. Collaborando con riviste nazionali ed emittenti radiofoniche internazionali. Sulla collana online Hevelius. Tra il 2008 e il 2014, sono state pubblicate le sue interviste con uomini e donne di scienza.
Maria Ivana Tanga è giornalista professionista. Editorialista per i ‘Taccuini storici’, rivista multimediale on line. Responsabile della ‘Soul&Food’ del ‘Leone verde’ , casa editrice di Torino.
Console per l’ area mediterranea dell’ Accademia gastronomica storica. Autrice de ‘I Malavoglia a tavola’; de ‘Il pane e il miele’ (ricerca socio-antropologica sulla cucina greca moderna’), tradotto in lingua neo-greca, per la Okialos di Atene. Autrice di ‘Fiore sardo’ e de ‘Il canto del pane’ (il pane in letteratura da Omero ai nostri giorni’. Di prossima uscita le poesie.
Bonea
Bucciano
Buonalbergo
Calvi Franca Molinaro, Aldo Colucciello
Rita Frusciante è nata a Benevento e vive a Vicenza, con il fuoco del meridione
che le scorre nelle vene. Per qualche tempo ha fatto parte di un salotto
letterario online, negli ultimi anni ha partecipato ad alcuni concorsi di
poesia classificandosi tra i primi posti. Quando la fantasia chiama la penna
risponde.
Carolina Molinaro di Calvi (BN) vive tra gli Stati uniti e l’America Latina. É laureata in Ingegneria Civil, Mencion Via di Comunicazione,
specializzazione Post Grado e Maestria in Marketing, docente di Diseño
presso Università José Maria Vargas di Caracas. Spirito tenace e inarrestabile, ha realizzato la sua carriera nel mondo della moda senza trascurare la famiglia e l’insegnamento.
Campolattaro
Campoli del Monte T.
Casalduni
Castelfranco in Miscano
Castelpagano
Castelpoto
Castelvenere
Castelvetere in Val F.
Cautano
Ceppaloni
Cerreto Sannita
Circello
Colle Sannita
Cusano Mutri
Dugenta
Durazzano
Faicchio
Foglianise
Foiano di Val Fortore
Forchia
Fragneto l’Abate
Fragneto Monforte
Frasso Telesino
Ginestra degli S.
Guardia Sanframondi
Silvio Falato, nato a Guardia Sanframondi (BN), vive a Telese (BN). Laureato
in Lettere a Indirizzo Classico con Tesi Sperimentale in Glottologia sul
dialetto e sulla cultura di Guardia Sanframondi, insegnante di Materie Letterarie,
ha pubblicato diversi testi di ricerca dedicando tutto il suo tempo alla
conservazione del dialetto e delle tradizioni del suo territorio.
Limatola
Melizzano
Moiano
Molinara
Montefalcone di Val F.
Montesarchio
Morcone
Paduli
Pago Veiano
Pannarano
Paolisi
Paupisi
Pesco Sannita
Pietraroja
Pietrelcina
Ponte
Pontelandolfo
Puglianello
Reino
San Bartolomeo in Galdo
San Giorgio del Sannio
Mariano Bocchino:
Nicola Boniello:
Antonella La Frazia, ha trovato la sua concreta ispirazione poetica ed anche un notevole successo, in età matura. Ha pubblicato di poesia e prosa affacciandosi anche alla tradizione popolare. Operatrice culturale instancabile ha una forte personalità che le permette di realizzare desideri e progetti.
Antonio Vincenzo Nazzaro:
 Prof emerito della Federico II Napoli, professore in Paleografia Diplomatica e Dottrina Archivistica, Lettere classiche, Letteratura Latina, Letteratura Cristiana all’Università di Calabria, Patrologia e Storia della Chiesa Antica; Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia alla Federico II, ecc. Bibliografia:
Pietro Paolo Parrella:
Gerardo Pedicino:
Giuseppe Romano: Storico, scrittore, fine poeta, vanta una bella produzione di testi storici. Bibliografia:
San Giorgio La Molara

Luigi Blasco è  muratore pensionato di San Giorgio La Molara (BN). Nominato cavaliere per l’impegno che mette nel tenere viva la memoria dei luoghi che gli sono cari, cura un museo degli “ardegni sangiorgesi” (attrezzi sangiorgesi)  e ha riprodotto a grandezza naturale  e secondo metodi antichi un “pagghiaro” in prossimità del lago di San Giorgio La Molara.
San Leucio del Sannio
San Lorenzello
San Lorenzo Maggiore
San Lupo
San Marco dei Cavoti
San Martino Sannita
Giuseppe Collina:
Francesco Di Ieso è nato a San Martino Sannita, nell’antica frazione di Cucciano. Docente di educazione tecnica, ha insegnato per un breve periodo. Ha lavorato per circa quarant’anni come cancelliere della sezione penale del Tribunale di Benevento. Attualmente è consigliere al Comune di San Martino Sannita, con delega alla Cultura. Sin da giovane ha coltivato la passione per  la poesia, sia in lingua italiana che in vernacolo ottenendo notevoli apprezzamenti.
San Nazzaro
San Nicola Manfredi
Vincenzo Domenico Panella di S. Nicola Manfredi, (BN). Di origini contadine, all’età di sei anni segue la famiglia a Napoli dove si innamora dei luoghi e dell’aria della capitale partenopea. Ha pubblicato di poesia e si è classificato tra i primi in diversi concorsi letterari. Promuove l’organizzazione e la realizzazione di eventi culturali, E’ stato ospite di programmi televisivi dove ha letto alcune poesie ed ha presentato le sue pubblicazioni. 
San Salvatore Telesino
Sant’Agata de’ Goti
Giancarlo Chierchia di Valstagna (VI), risiede a Sant’Agata dei Goti (BN). Da sempre coltiva la passione per la poesia che declama in ogni occasione allietando gli ascoltatori con i suoi versi carichi di ironia e sentimento. La sua poesia semplice tocca le corde dell’anima con argomenti di riflessione sull’umanità e sulla quotidianità della vita.
Sant’Angelo a Cupolo
Sant’Arcangelo Trimonte
Santa Croce del Sannio
Sassinoro
Solopaca
Telese Terme
Tocco Caudio
Torrecuso

Concetta Iannella,e’  nata a Torrecuso e vive a San Giorgio del Sannio. Diplomata ragioniera, ha lavorato come impiegata presso le poste. Ora pensionata e nonna impegnata. Ama scrivere racconti e filastrocche per bambini.
Vitulano

“Cazzi malati” e dolci autunnali – franca molinaro

Dalle nostre parti, nelle valli irpine e sannite ci si prepara alla vendemmia dei rossi, i vini bianchi son già in cantina da un pezzo. Con la vendemmia si rinnovano i riti antichi dei dolci tradizionali, ogni regione, ogni paese ha i suoi. Tutti sono legati al mosto naturalmente, questo liquido dolcissimo che ubriacò Bacco e gli svelò il segreto della vinificazione. Partiamo dai tarallini più famosi in Irpinia, la fama sicuramente gli è conferita dal nome che ha chiare allusioni falliche. Questi dolci antichissimi, probabili uroboro dedicati alla Grande Madre, qualcuno traduce in “azzimi mielati” perché non hanno lievito e son dolci come il miele, nel nostro dialetto sono chiamati precisamente “cazzi malati”. Ora, non per essere volgari, ma il nome popolare rende perfettamente l’immagine di questi piccoli taralli dal colore livido. In qualche paese li chiamano invece “cazzi ‘mpalati”, che tradotto sta a significare “fallo eretto”, ma questa seconda opzione mi sembra molto arbitraria perché non vi si riscontra nessuna somiglianza se non una atavica funzione apotropaica, utile ad allontanare i demoni o il male in genere, come accade tutt’ora in alcune culture etniche, tipo nel Bhutan himalayano. Ma torniamo ai nostri tarallini ritiratisi per anni nelle masserie di anziani contadini e riscoperti oggi nell’Irpinia del vino. È bene sapere che un tempo erano poche le dolcezze che circolavano per le case modeste, e quelle poche erano tenute in considerazione al pari delle medicine. La dolcezza più economica e auto producibile era quella data dal mosto bollito, il cosiddetto “vino cotto”. Di solito era la padrona che si dedicava alla preparazione di questo liquido pregiato, tenuto tanto da conto perché usato spesso come medicamento per uomini e bestie, d’inverno poi, su una ciotola di neve dava origine a un gelato genuino, infine si impiegava nella preparazione di alcuni piatti in agrodolce, memoria forse della cucina di Apicio. Anch’io, ogni anno mi dedico a questo rituale per la gioia della famiglia e del vicinato, perché, come tutte le ricorrenze calendariali, anche questa prevede la condivisione del cibo. Per preparare il vino cotto bisogna prendere il mosto appena esce dalla pigiatrice, prima che inizia la fermentazione. Si mette a bollire in una pentola capiente e quando giunge a bollore, con una schiumarola si eliminano le impurità che salgono in superficie. A questo punto la massaia prepara la spianatoia posizionandosi vicino al liquido in ebollizione. Impasta la farina di grano duro con il mosto bollente e lavora il composto quanto basta per renderlo liscio ed omogeneo, poi comincia ad allungarlo riducendolo allo spessore di una sigaretta. Man mano che allunga la pasta la taglia e ne fa dei tarallini che subito butta nella pentola. Una breve cottura, poi li estrae e li pone in una zuppiera. Quando avrà finito tutta la pasta taglia a spicchi  mele cotogne o annurche e le lascia cuocere. Il vino cotto sarà pronto dopo circa tre ore di cottura, deve ridursi a un terzo e deve lasciare un solco denso se lasciato colare in un piatto asciutto. Una parte di liquido andrà a coprire i tarallini e la frutta posti in barattoli di vetro, un’altra parte sarà conservata in bottiglie chiuse, la sedimentazione sarà utilizzata per preparare il pane scaunisco, perché nell’economia contadina non vi sono scarti.

Al fondo di vino cotto si aggiungono noci, nocciole, mandorle, fichi secchi, farina di mais, a piacere buccia di limone o arancia, solo la parte esterna,si lascia cuocere ancora un poco sul fuoco, la pectina delle mele cotogne cotte precedentemente nel mosto aiuterà ad addensare il composto.  Infine si stende su una carta da forno dell’altezza di un centimetro e si lascia essiccare. A questo punto si può tagliare a rombi e conservare per un certo periodo. Quando non c’era la carta da forno si usavano come base le foglie di castagno, si poneva poi nel forno caldo dopo aver estratto il pane. E a proposito di mele cotogne non possiamo dimenticare la cotognata di cui i cugini Pugliesi vantano la paternità ma è cosa conosciuta anche altrove. Per questo ennesimo dolce povero occorre un chilogrammo di mele cotogne pulite, 700 grammi di zucchero, due bicchieri d’acqua, il succo di un limone. Si cuoce la frutta con acqua e limone, a fuoco lento e quando è cotta si passa al setaccio, si aggiunge lo zucchero e si continua la cottura. Quando risulta bella consistente si stende su carta da forno e si lascia essiccare. Infine si taglia a pezzetti e si serve come dessert o come marmellata. Ogni regione ha i suoi frutti e dalla Sicilia mi arriva la ricetta della “mostarda” di fichi d’India, da una nostra autrice, Nunzia Zingale. Un dolce tipicamente siciliano in cui si può sostituire il mosto ai fichi d’India, quindi con radici comuni. Si cuociono  per un’ora e mezza i fichi d’india sbucciati e pestati, poi si passano al setaccio per dividere la polpa dai semi, e in un colino per purificare il succo; si aggiungono due cucchiai di amido per ogni litro di succo, si rimette al fuoco e si porta a bollore. Appena si addensa si versa in un piatto leggermente bagnato e si cosparge di nocciole tostate sminuzzate. Sostituendo il mosto ai fichi d’India l’operazione risulta più semplificata non dovendo eliminare i semi dal composto. In Sicilia usano mettere il composto dentro formine di porcellana, in sostituzione si possono usare stampi in silicone per dolci. Sono questi i dolci dell’autunno, dal sapore deciso, difficile da dimenticare, autentico come tutte le cose vere della nostra terra.  

Pane scaunisco