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IL SIMBOLISMO DEL CIBO NATALIZIO di Maria Ivana Tanga

Già nel 3.600 a. C., in Persia e nell’ area mediorientale, in Siria, in Mesopotamia, in Egitto il 25 dicembre era un giorno speciale, un giorno di festa che celebrava la nascita del dio Sole, il ‘dies Natalis Solis Invicti’. Una festività che segnava la rinascita dell’ astro solare, dopo la stasi solstiziale. La parola ‘solstizio’ viene dal latino ‘sol stitium’, ossia ‘sole fermo’. Pare, infatti, che dal 21 al 24 dicembre il sole sia come in uno stato di ‘stasi’ apparente, per poi ricominciare il suo cammino dal 25 dicembre. Da festa solare, il Natale e’ stato trasformato, nel 330 d. C., in ricorrenza cristiana per iniziativa dell’ imperatore Costantino. La più suggestiva ed importante festività del calendario cristiano. Dunque, Gesù come il dio Sole, fonte di vita, fonte di luce!! Come tutte le feste che si rispettano è caratterizzato da grandi abbuffate, da grandi scorpacciate, tipiche di un tempo eccezionale, di un tempo sacro, coincidente con il ‘solstizio d’ inverno’. Un’epoca di passaggio, in cui il sole è al suo minimo astrale, nel punto più lontano dalla terra. Inoltre, per sconfiggere le tenebre, il buio , quel senso di morte che segna gli ultimi giorni di dicembre, si è pensato di reagire con un eccesso di vita. Di qui, l’ abitudine di allestire banchetti, convivi luculliani. In questa prospettiva, il Convivio natalizio viene ad assumere i contorni di un vero e proprio banchetto rituale, caratterizzato da cibi ben precisi. Cibi che sono diventati dei veri e propri simboli dalla forte valenza propiziatoria. Pensiamo al panettone, agli struffoli, alle lenticchie.
Nel ‘mare magnum’ delle tradizioni natalizie gastronomiche, abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione sulla mandorla, un frutto che, da sempre, simboleggia l’energia vitale, il potere germinativo del cosmo, evocante la luce del sole. Simbolo solare, per antonomasia, per la sua forma ovoidale, essa è collegata all’uovo cosmico, motore dell’universo, materia prima fecondante. Ricordiamo che il mandorlo è il primo albero a fiorire alla fine dell’ inverno, per cui viene ad incarnare il potere fecondante, germinativo di Madre Natura. Va osservato come il frutto del mandorlo costituisce un vero e proprio ‘filo rosso’ , un ‘fil rouge’, in grado di collegare il nord e il sud, l’ est e l’ ovest del bacino Mediterraneo. Pensiamo al pane dolce farcito di mandorle e miele che si usava confezionare nell’ antica Persia durante il ‘solstizio d’inverno’ o al xristopsomo’ o ‘pane di Cristo’ della tradizione ortodossa, nel cui impasto viene nascosta una mandorla con il guscio, a simboleggiare il corpo di Cristo. Pensiamo anche ai ‘kourabiedes’ della tradizione gastronomica ellenica, deliziosi biscottini farciti di mandorle e profumati di acqua di rose, ai baklavas turchi, ai ‘daktila kirion’, ‘dita di Apostolo’ ripieni di mandorle, tipici del Natale cipriota. Restando in area mediorientale, va citata l’ asoures’, della cucina ‘palaziale’ dei Sultani di Costantinopoli., una profumatissima zuppa di grano e mandorle, aromatizzata con acqua di rose, dal chiaro potere propiziatorio. In area magno-greca, incontriamo una miriade di preparazioni a base di mandorle, pensiamo alle paste reali, ai marzapani, alla frutta di Martorana della Sicilia, al pesce di marzapane della tradizione pugliese. Mentre nelle zone di influenza etrusca incontriamo il ‘pangiallo’, farcito di mandorle e frutta secca, e il ‘serpentone’ umbro, interessantissimo reperto gastronomico, risalente agli antichi etruschi. Continuando il nostro viaggio lungo le coste mediterranee, sulle orme della mandorla, ci imbattiamo nei ‘polvorones’ e nei ‘mantecados’ della tradizione natalizia iberica, retaggio della gastronomia arabo-andalusa. Tutti dolci tipici delle festività natalizie che costituiscono dei veri e propri ‘scrigni di vita’, evocanti la luce solare. Nonostante i modelli consumistici, nonostante la globalizzazione del gusto, sulle tavole del Natale italico compaiono, ancora oggi, dei prodotti che sono dei veri e propri ‘fossili viventi’, frutto di una tradizione gastronomica che affonda le radici nel passato remoto pagano. Pensiamo al serpentone umbro, meglio conosciuto con il nome di ‘torciglione’ o al pesce di mandorle della tradizione pugliese. Il serpente e il pesce, due icone della religiosità mediterranea che sono stati al centro dei più importanti culti del mondo antico. Il primo, grazie alla sua capacità di cambiare pelle,
di rigenerarsi ogni anno, incarnerà la vita, la rinascita. La sua forma attorcigliata, la spirale che disegna, richiama la ciclicità del tempo, dell’anno che muore e rinasce. Un ‘imago mundi’ che, nella civiltà etrusca, sottende al mito di Agdistis, figlio di Giove e Gaia, la Terra. In occasione del solstizio d’inverno, le antiche popolazioni umbre della zona del Trasimeno avevano l’abitudine di preparare un dolce votivo di mandorle e zucchero, in forma di serpente, da offrire al dio Sole, nel suo ‘dies Natalis’. Il pesce di marzapane della Puglia è, senza dubbio, uno dei più interessanti ed originali esempi della tradizione dolciaria natalizia del sud d’Italia. Secondo le religioni arcaiche, il pesce era simbolo di vita proprio come l’elemento acquatico, in quanto nato dall’uovo primordiale. Inoltre, da rigorosi calcoli astronomici è emerso come Gesù sia nato proprio nell’era dei Pesci. Di qui, la nutrita simbologia cristiana e proto-cristiana avente come emblema il pesce-Cristo. Dal primo secolo dopo Cristo, i Cristiani formularono l’acronimo della parola “IXTUS” che significa ‘pesce’ in lingua greca: Iesous Christos Theou Yios Soter, (ICTYS) che tradotto significa: GESU’
CRISTO FIGLIO di DIO SALVATORE. Inoltre, i primi cristiani, per riconoscersi tra loro, disegnavano un pesce stilizzato all’ingresso delle catacombe.

LA ZUPPA DI SANTA LUCIA di Maria Ivana Tanga

Dagli albori della civiltà  il grano è in stretto rapporto con il sacro, protagonista di numerosissimi ‘culti agrari’. Da Iside, alla Potnia minoica, da Demetra a Cerere, il ‘sacro’ frutto ha sempre dominato la scena cultuale delle ‘grandi madri’ mediterranee. In particolare, per favorire il raccolto, gli antichi greci offrivano, ogni anno, a Demetra, una zuppa di granaglie bollite, la cosiddetta “panspermìa”. Da Eleusi al mondo cristianizzato, la ‘sacra’ zuppa è passata quasi indenne attraverso i rivoli della storia, tanto che la ritroviamo, ancora oggi, tra le frange della ‘liturgia’ popolare.
Le zuppe di grano, nella tradizione contadina, erano considerate beneaugurati, tanto che venivano consumate, soprattutto, nel periodo invernale, cioè, in quella fase calendariale di “crisi” vegetativa. Sono tipiche zuppe “solstiziali”, evocanti le forze produttive della Natura. Una di queste è la cosiddetta ‘cuccìa’ che le massaie siciliane preparano il 13 dicembre in onore di Santa Lucia. E’ interessante notare come, nell’antico calendario, la festa della Santa cadesse proprio il 21 dicembre, giorno del ‘solstizio’ invernale. E’ lecito, dunque, dedurre che dietro la festa cristiana riviva l’eco di un ben più antico ‘culto solare’ di matrice ‘solstiziale’. A prova di ciò sta il fatto che la martire siracusana sia la protettrice della vista, senso che è legato intrinsecamente alla luce del sole. Del resto, lo stesso nome ‘Lucia’ rimanda al termine “lux”, “luce”.
La ‘cuccìa’ siciliana è, dunque, una zuppa ‘solstiziale’ offerta in onore della cristiana ‘Signora della luce’.
Nell’ antica Roma, il 13 dicembre si festeggiavano la dea Cerere e la dea Tellus, la Terra, in qualità di protettrici dei raccolti. Ciò spiegherebbe l’ offerta di cereali bolliti, in questo giorno che, tra l’altro, coincide con la fine delle semine autunnali. I semi del grano giacciono, oramai, nel grembo della terra, sotto l’ ala protettrice di Tellus e Cerere. Nel consumo rituale della cuccìa si vengono a sovrapporre, dunque, diversi mitologemi, tutti risalenti all’ antico, fecondo alveo mediterraneo.
A Palermo e Siracusa, la ‘cuccìa’ si prepara con grano cotto misto a ricotta, zucchero, cioccolata e zuccata, mentre la ‘cuccìa’ trapanese, oltre al grano, vede la presenza dei ceci e del mosto cotto. Un’ antica filastrocca trapanese recita: ‘Svegliatevi che è tardi, accendete la pentola per preparar la cuccìa, e se non me ne date, che vi possa scoppiare la pentola’. In Calabria, la ‘cuccìa’ di Santa Lucia, a base di grano e ceci lessati, veniva offerta ai poveri gratuitamente.
Gli occhi di Santa Lucia sono dei taralli pugliesi tradizionali, tipici della città di Bari. Vengono preparati per  il giorno di Santa Lucia. Sono piccoli taralli dolci confezionati con farina, olio d’oliva e vino bianco. Una volta cotti vengono ricoperti con una glassa a base d’acqua e zucchero chiamata ‘sclepp’. Anticamente la glassa veniva fatta con gli albumi, insaporiti con l’aggiunta di anice o vaniglia.

Riflessioni al tempo del COVID di Andreina Solari

Ci mancava il grande spavento cagionato dal virus del pipistrello, a mandare all’aria il mondo intero, a turbare le rare aperture d’azzurro di questi tempi, e rammentarci la precarietà della vita già tanto in ansia per le preoccupazioni che le spengono il sole, le accendono il dolore. Pare non ci dobbiamo aspettare niente di buono, così ci sono progetti che sfumano in un batter d’occhio. Tanto ci ha tolto, libertà compresa e ci fa pensare di frequente se ci sarà un domani. Infatti da quando è scoppiata la nuova pandemia, siamo tutti portati a ragionare sulla precarietà della vita, poiché questo nemico invisibile si cela e serpeggia ovunque, e ci può colpire a sorpresa, ci rende insicuri, costringendoci a vivere in isolamento e in solitudine.

Non è cosa da poco andare a dormire, lasciare il mondo che ruota come sempre, sognare… ma niente che somigli a ciò che è capitato. Fantascienza, fantascienza pura. Il mondo imbrattato ovunque dal virus e tutti in apprensione! Quanti scoppi di rabbia, malcontenti, risvegli con l’anima rabbuiata! Ma il tempo corre. In qualche modo diventeremo tutti meno timorosi. Con questa clausura abbiamo tempo per riflettere, approfondire e riscoprire la bellezza delle piccole cose e del creato, compreso il valore del tempo.

Per alleggerire la fatica di questi quattro passi incerti d’avvenire e confortare il cuore, cerco di stimolare la voglia d’affrontare la giornata con la filosofia della nonna che mi diceva: “Prendila come viene la vita!”
A fatica scendo dal letto. Dischiudo le persiane davanti a un quadro “en plein air”. Cielo che adagio si schiarisce e muta in sereno, a tratti rosa e giallino, sino a fondersi più in là col blu del mare. A vista d’occhio la collina di ulivi che arpeggia nella brezza, mostra filigrane imbevute del primo sole che mutano in riflessi grigio-verdi, grigio-celestini.

Ma come si fa a restare in casa ora che l’emergenza covid è stata allentata?
Mio padre con i suoi cent’anni guarda la vita passare attraverso i vetri della finestra. E’ l’uomo che ha combattuto la guerra d’Africa, ha lavorato, tirato la cinghia, ne ha passate di cotte e di crude. Si accontenta di poco, e il poco è sempre troppo. Chi gliela racconta questa nuova storia, lui che alla vita ci tiene ancora tanto? Io cerco di alleggerire, di spiegargliela alla mia maniera. Mi fa mille raccomandazioni se esco di casa.
“ Pà, non ci pensare, non ti preoccupare, passerà anche questa.”
“Un bel dire il tuo, non leggi, non guardi la televisione? Non vuoi capire allora!”
Queste parole mi ricordano che il primo passo, il più pericoloso, è quello della soglia. Con tutta l’attenzione, nell’uscire di casa non sappiamo cosa ci aspetta, potremmo imbatterci nella cattiva sorte. Ma io quello che sento è la necessità di fuggire dal frastuono della città, trovare un angolo dove respirare senza l’obbligo della mascherina.

Così nel pomeriggio mi concedo una sosta. Esco per i fatti miei, voglio colorare i pensieri. M’incammino nel sole che dispiega fiero, indora le facciate colorate delle case, s’adagia su strade e viali, s’intrufola negli angoli più reconditi. Salgo in controluce, come spesso accade, tra il verde della macchia mediterranea. Dimentico il lungomare e le strade che conducono ai soliti vicoli e alle piazze della mia città. Salgo sul sentiero scosceso che conduce sull’altura dove bazzico ogni tanto. Laggiù blueggia il mare. Tremola, sbatte, spande brezza marina. Ascolto la voce del suo brontolare negli anfratti di scogliera che a tratti copre lo scalpiccio dei passi che frantumano sassolini, foglie, fuscelli, aghi di pino. Respiro odore d’erba umidiccia e terra boschiva. Faccio attenzione a dove appoggio i piedi per evitare inciampi e bestioline. Nello stormire di fronde, un gorgheggiare vicino e lontano d’uccelli che sale, a momenti sovrastato dai richiami dei gabbiani. Sulle gote carezze di fresche brezze che spandono nella boscaglia aggrovigliata di lecci, corbezzoli, roveri, ginestre, pini. Giungo agli ultimi gradini dove spalanca l’ariosa piazza col santuario delle Grazie. Da qui l’ampia veduta su Chiavari, conchiglia che accoglie il porto col suo molo a protezione, la spiaggia, la colonia Fara, le chiese, i campanili innalzati oltre i tetti, strade, viali, piazze, giardini, il fiume Entella, e oltre il suo argine, Lavagna. Da questo angolo di pace infinita, tutta si mostra la Riviera di Levante, dal capo di Sestri Levante sino a Portofino. Mi rassereno se penso alla confusione che vi regna, mentre qui, c’è pace smisurata. Ed è bello toccare un porto sicuro lontano dal baccano della città. E mi sento radicata alla mia terra come lichene avvinto alla pietra o alla corteccia di una secolare pianta. Ogni volta è emozionante come la prima volta, e osservo con occhi attenti ciò che mi circonda. Così accade che ritrovo me stessa e lascio svaporare quel senso di malcontento che ultimamente mi pervade.

Osservo, ma non solo con gli occhi, la bellezza di questo piccolo angolo d’infinito con la voglia di non farmi lambiccare il cervello dal tarlo della pandemia. Vedo gonfie vele scivolare di bolina. Maretta a pelo d’acqua. La brezza sale, intrisa di salsedine. So già che mi porterò a casa odore di marina. Ma siamo gente di Riviera, viviamo davanti a quest’acqua salata che a guardarla da sempre, ci ubriaca della mistura di tutti i colori del cielo e del mare. Annullo pensieri, ma fiorisco un susseguirsi di riflessioni che bussano a una porta socchiusa. In capriole di piume d’aria, la fantasia prende il volo dal sagrato all’aperto mare, pervasa da una calma estrema. Va a cercare ristoro su di una nave lontana, o su di una vela inclinata che si staglia all’orizzonte. E penso…

Riflessioni e meditazioni distratte dalla sola voce incessante del mare che sbatte sulla rena e dal suono cupo dell’onda dentro recessi di falesie. Lascio scivolare il tempo, mentre la sera spegne il giorno che tentenna tra le palpebre ormai viola, dell’ultimo sbadiglio di sole. Ascolto la voce che nasce dalla bellezza della liguritudine*, talmente suggestiva che ispira poesia. E scrivo….
Non so dove sbroglio parole per comporre rime: parole sincere da colorare sui fogli bianchi della giornata. Magia che fa tentennare tra il dire e il fare, tra il dolore e la felicità: importante è lasciare uscire il bello e il brutto, niente o tutto, qui dove il tempo trama inganni nell’ora che scende la sera. È certo: senza nicchiare e senza entrare nell’anima delle cose, non si può dare vita al desiderio che fiorisce dal cuore che dev’essere pronto come una eco, alla nascita di un’emozione che ristora.

“Sogno o sono sveglia? Di sicuro sono in una tela di Monet.
In quest’ora del tramonto, mi lascio trasportare dallo splendore della natura di quando il sole scende e sale lo stupore, e abbaglia la vita, smarrita a inseguire il giorno che muore.
Il campanile scandisce la sua ora. A malavoglia m’incammino a ritroso nell’heure bleu dell’imbrunire, in quella manciata di minuti in cui tutto il paesaggio è imbevuto da luce cilestrina, appaga lo sguardo di infinite sfumature di colori, stordisce d’immensità. Negli occhi tutte le gradazioni dell’azzurro, il cuore confuso da tanta bellezza, l’animo predisposto a vivere una gradevole sera. Così prima di dormire spargerò sul cuscino suoni e colori d’uno spicchio di Riviera, con l’orgoglio d’appartenere a questo lembo d’aspra terra tra mare e cielo, che non sarà forse niente, ma può essere tutto, se lo si riesce a sentire, a capire sino in fondo.

Liguritudine: neologismo che viene usato frequentemente come chiave di ricerca nell’web. Ha a che fare con la Liguria: un modo di guardare la nostra regione, col suo territorio, la sua storia e la sua lingua.

La lunga storia del fissinnacchio

Il Fissinnacchio di Montefusco e Santa Paolina (AV)                            di franca molinaro

Da che mi sto occupando di flora e relativi fitonimi dialettali, di cose curiose ne ho scoperte tante. Chi mastica di dialetto sa benissimo che esistono termini così unici da risultare intraducibili, in alcuni casi non esiste il corrispondente in lingua, si può solo tradurre adducendo non un solo termine ma una lunga spiegazione. Questo accade in tutti i linguaggi dialettali, una miriade di lingue diverse da paese  a paese, raggruppati per comodità in grandi insiemi che ne indicano la posizione geografica. In un termine dialettale c’è tutta una storia, un sapore, un suono, una morale, così in un fitonimo, specialmente in quelli più originali, che non hanno cioè, radice nel nome scientifico, quindi latino della pianta. Ruscio deriva dal Ruscus, antico nome del Pungitopo usato dagli scrittori latini e rimandante a rus, cioè campagna, oppure fasole che deriva da Phaseolus, in questi casi abbiamo una diretta corrispondenza tra il genere e il fitonimo dialettale. Quelli che ho definito originali, invece, son taluni termini che indicano chiaramente i caratteri della pianta, del fiore o del seme, le sue proprietà, il suo habitus. Zucamele, il Gladiolus italicus, prende il nome dal fatto che i suoi fiori sono succhiati per assaggiare il nettare che ne sgorga. Piscialietto, il Taraxacum sp., prende il nome dalla forte azione diuretica che la pianta causa. Uocchirossa, la Calendula arvensis, è così chiamata per via dei fiori che sembrano tanti occhietti rossicci sui prati. Scattauocchi, Ecballium elaterium, ha la capacità di accecare gli occhi con i suoi frutti esplosivi. Insomma, in questi casi, basta conoscere il dialetto per comprendere il carattere della pianta. Sembra troppo facile per essere vero, e difatti non è così per tutti, esistono termini dei quali non siamo venuti a capo pur consultando esperti linguisti. Prendiamo ad esempio lo scoppapiatti, Ficaria verna, non ci è stato dato di sapere perché mai questa pianta di cui non si conoscono usi alimentari, almeno nei luoghi dove porta questo nome, dovrebbe rompere violentemente i piatti. Misciarulo è un altro incomprensibile nome che non ci ha portato a nulla se non alla pianta, la Diplotaxis erucoides. Quella del fissinnacchio poi, è una storia lunghissima. Ricordavo di aver letto il termine in un testo di storia su Montefusco, capitale del Principato Ulteriore, scritto dal sacerdote Palmerino Savoia, nel secolo scorso. Lo storico spiegava che i fuselli del tombolo, i tommarielli, erano costruiti con legno di fisinnacchio. La curiosità di sapere di che albero si trattasse mi ha accompagnato per vent’anni ed ecco arrivato il momento di approfondire, gli studi per il mio prossimo testo di etnobotanica. Chiesi allora agli storici di Montefusco, compreso a chi si era occupato di tombolo, ma la risposta fu insufficiente; uno di loro mi disse che è un arbusto simile alla ginestra. Allora, conoscendo le competenze di un’amica di Capriglia Irpina (AV), Agostina Spagnuolo, le comunicai della mia ricerca. Lei subito intercettò una sua conoscente, Renata Ianuario di santa Paolina, residente a Mercogliano, la quale, essendo capace di lavorare il tombolo, aveva voluto nel suo giardino l’arbusto col quale si realizzavano i fuselli. Renata mi inviò le foto della sua pianta, chiaramente si individuava Cornus sanguinea. Non convinta interrogai la signora e la invitai a studiare bene il suo arbusto per non commettere errori, ma Renata era sicurissima di ciò che affermava. Tempo prima, il botanico Alessandrini mi aveva ricordato che i fusi si realizzavano con legno di fusaggine, da questo la pianta aveva preso il nome comune; l’appunto di Alessandrini confermava quanto avevo letto anni fa nei primi testi consultati. Per questa ragione insistevo con Renata sulla fusaggine spiegandole i frutti ecc, ma lei era convintissima del suo Sanguinello. Mi convinsi anche io di questo anche perché, un mio associato (Ciriaco Grasso di Trevico, AV) stava realizzando degli oggetti per “La Grande Madre” proprio con legno di Sanganiedd’.
Intanto il dott. Giovanni Salerno, un botanico col quale mi interagisco spesso, continuava a cercare un’etimologia plausibile per il termine e tutto portava alla fusaggine. Capii che dovevo confrontarmi ancora con altre persone del luogo. Una mia zia ha parenti a Santa Paolina, chiesi quindi aiuto a lei per investigare. Fortuna volle che un suo cognato, da giovane realizzava fuselli con il fissinnacchio, un arbusto la cui descrizione era proprio quella della fusaggine. La zia tornò per le vacanze estive e mi portò un rametto di fusaggine consegnatogli dal cognato, così mi accertai ulteriormente dell’identità del fissinnacchio. Ora, da tutta questa storia ne risulta che Giovanni Salerno ha ragione quando dice che il popolo, incredibilmente, fa confusione tra fusaggine e sanguinello, quindi tende a chiamare fissinnacchio sia l’uno che l’altro arbusto. Si utilizza, dunque, il fitonimo fissinnacchio, per quegli arbusti impiegati nella realizzazione di tommarielli. E così, dopo vent’anni ho svelato l’arcano ma non ci è stato dato di capire dove ha radice questo nome così insolito.
Dopo aver pubblicato l’articolo per il Quotidiano del Sud, mi contatta Giuseppe Silvestri presidente della Pro Loco di Santa Paolina (AV) che molto si sta impegnando per il recupero del tombolo e della sua storia millenaria. Con mia sorpresa mi racconta che una decina di anni addietro fece identificare l’arbusto al Real Orto Botanico di Napoli, quello che l’università ricevette per essere identificato era un Cornus sanguinea L.
Se avessi incontrato prima Giuseppe mi sarei accontentata della risposta e non avremmo mai scoperto che nella fattispecie di fissinnacchio rientra anche la fusaggine. Ora quindi, non finisce qua, penso che bisogna indagare oltre, perchè a tale nomazione potrebbe concorrere qualche altro arbusto nostrano, come ad esempio il Ligustrum che rientra nella tipologia di arbusto dal fusto affusolato e di legno duro e leggero. Dopotutto, i polloni di queste tre piante sono già accomunati da un altro impiego, l’intreccio di cesti rustici. E dunque si va avanti, il bello della ricerca è che non si finisce mai di imparare.