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In ricordo di don Carlo Graziano, dal testo di Emanuele Grieco per gli ottant’anni dell’amico sacerdote

Don Carlo docet di Franca Molinaro

Avevo 24 anni quando iniziai il mio calvario di interventi, chemio, radio, con una sentenza del medico “Signora lei muore”. Due bambini piccoli, spesso affidati a mia cognata Flora. A quell’epoca non si aveva idea di cosa fosse un devastante tumore, lo scoprimmo in seguito a mie spese. Mia suocera, santa donna, ebbe il giusto sentore che solo un aiuto divino avrebbe potuto salvarmi; fece voto a Sant’Antonio di far indossare il saio alla mia bambina se io non fossi morta, allora Marianeve aveva quattro anni. Io non volevo imporle questo sacrificio, non mi sembrava giusto infliggerle altre prove e avevo proposto di indossare io l’abito del voto ma non ci fu verso. Venne il tempo di assolvere alla promessa. Era il periodo della tredicina di Sant’Antonio e con mio marito e mia suocera portammo Marianeve davanti al Santo per la vestizione. Ricordo perfettamente il bel sacerdote venuto, come ogni anno, dall’America, da lui ci confessammo e io espressi il mio disappunto. Lui mi disse precisamente: “Il voto non vale, è come fare il regalo a qualcuno con i soldi di un altro”. Avevo conosciuto don Carlo. In seguito ebbi modo di confermare le prime impressioni su quel bel misterioso sacerdote che in due parole aveva confermato il mio disappunto. Mia figlia indossò il saio per un anno, don Carlo tornò in America, io continuai la mia guerra col cancro. Le giornate spese tra ospedali e sala d’attesa, mi riportarono a studiare, fu allora che immaginai di scrivere un testo su Morroni e venderlo ai Morronesi, per poi donare il ricavato per la ricostruzione della chiesa della Madonna della Neve. Naturalmente, tranne un paio, nessun Morronese fu mai interessato a leggere il mio testo. Fu interessato però Aldo Grieco che seppe del lavoro e volle conoscermi, mi consigliò di incontrare don Carlo per confrontarmi sullo scritto. Anche la mia giovane amica Adele Barbieri mi fece il suo nome, mi parlò molto bene di lui come studioso e mi indusse a cercarlo. Io, alle prese con il mio testo storico-antropologico, una sorta di enciclopedia sulla piccola contrada, una cosa che nessuno si era mai sognato di fare, senza un maestro reale, solo come esempi i testi consultati, ero desiderosa di consigli, di approvazioni, di rettifiche. E fu così che, accompagnata da mio marito, finalmente fui ricevuta da don Carlo; grazie all’intercessione di Aldo Grieco, lesse il primo brogliaccio, un dattiloscritto steso di notte, con l’attenzione di battere piano sui tasti perché gli altri dormivano. Ero timorosa di lui conoscendo i miei limiti, ero alla prima esperienza editoriale, ma avevo una bella faccia tosta e lo affrontai subito per permettere un rapporto tranquillo e trasparente. Gli dissi: “Caro don Carlo io son qui perché voglio sottoporvi il mio lavoro, ho bisogno dei vostri consigli”. Da allora ci frequentammo spesso e lui non fu parco di consigli, suggerimenti, indicazioni, dritte. Ancora oggi, quando scrivo, mi risuonano in testa le sue regole, mi ripeteva: ”Le note, non dimenticare di citare la fonte in ogni passaggio, ogni volta che riporti notizie, idee, date, tratte da altri autori, devi sempre citare la fonte: Autore, titolo del testo, casa editrice o tipografia, anno e luogo di stampa”. Nel tempo poi, gli amici ricercatori mi hanno confermato la teoria dimostrando che un testo è tanto più importante quante più note possiede. Ci vollero anni perché il mio testo avesse una forma decente, e poi anni perché ottenesse consensi dalle amministrazioni comunale e provinciale e vedesse la luce. Don Carlo mi sostenne sempre, dall’inizio fino alla correzione delle bozze, a volte anche in modo molto critico, ma aveva ragione. All’epoca non avevo il computer, non c’era posta elettronica, ci scrivevamo lunghe lettere con indicazioni, consigli, ma anche confidenze, era diventato un amico confessore in un clima che non era dei migliori per uno spirito ribelle ed anticonformista come il mio. Tornava in estate e c’erano tante novità da raccontarci, interrogativi su cui confrontarci, ipotesi storiche ed anche fantasie di certi personaggi. Ricordo che andavo definendo il capitolo sulla storia della chiesa della Madonna della Neve, le ipotesi sulla tela che i Morronesi definivano “bizantina”, pur avendo più volte riportato alla loro mente la storia dell’arte di quel periodo. Don Carlo scrisse anche uno dei suoi opuscoletti cercando di spiegare la leggenda e la storia del luogo, le caratteristiche del quadro, ebbene, quando distribuii il libricino ci attirammo l’inimicizia di alcuni e sollecitammo altri a costruire la storia dell’esercito di cavalieri ricoverati nella chiesa di campagna. Battaglia persa naturalmente, a lavar la testa all’asino si perde acqua e sapone, è per questo che nessuno è profeta in patria, né Cristo, né don Carlo, né io che, ahimè mi permetto questa presunzione. La distanza era enorme e rappresentava un grosso handicap per chi ha bisogno di interloquire, l’America era avanti in fatto di tecnologia e don Carlo mi esortava a comprare un pc per poter usufruire della rete e della posta elettronica, ce ne volle un po’, ma appena potei compare un computer per mio figlio approfittai subito per imparare. La connessione a Morroni arrivò più tardi ma finalmente era più facile scambiarsi notizie e messaggi. Ogni tanto lui stampava degli opuscoli sulla storia, le tradizioni, le chiese di Bonito, e le inviava a me per la distribuzione, ne ho regalati centinaia ma non so quanti sono stati letti e soprattutto quanto il popolo Bonitese è riconoscente allo storico più attendibile del paese. Ricordo quando scrisse sul convento di Sant’Antonio, allora non era ancora in programma la ristrutturazione, mi mandò tra i rovi a fare il sopralluogo, ricostruire la pianta, osservare e misurare gli ambienti, c’era un passaggio tra le spine e la prima cosa che trovai fu una cucciolata di bastardini, poi tutto lo stupore di un complesso monumentale in abbandono. Lui è stato sempre più avanti col pensiero, ha sempre studiato con rigore scientifico e immaginato cose cui noialtri siamo arrivati in seguito. Questo è comprensibilissimo perché uno spirito vivace, assiduo allo studio e messo in contatto con realtà differenti, apre velocemente i propri orizzonti spaziando agevolmente oltre i colli angusti e intuendo verità superiori. Poi arrivarono gli interventi al cuore, l’attacco alle torri gemelle, gli anni che pesano su ogni essere umano, don Carlo cominciò a temere una venuta a Bonito, la mancanza di strutture mediche confacenti al suo problema lo preoccupavano, lo spavento degli attentati, non è più tornato in paese. Per fortuna, a un certo punto arrivò Emanuele, la sua intraprendenza, il suo amore smisurato per Bonito, l’ammirazione per il grande studioso, portò a rendere sempre più popolare la figura di don Carlo. Gli ultimi testi curati da Emanuele hanno contribuito a mettere a punto tutti i particolari della storia di Bonito, il punto di riferimento però, resta sempre quella storia scritta tanti anni addietro, conservata nei cassetti della sua casa ‘mmiezz’a la chiazza, è quello il testo cui si fa riferimento in ogni occasione, è quello il testo che io più volte ho suggerito al Comune di acquisire per disporne ogni volta che arrivano forestieri a Bonito. Questo paesino di poche anime, grazie a don Carlo è stato tra i primi ad aver una storia scritta con cura, con dovizia di documenti, riferimenti su cui approfondire. Dopo il testo di don Carlo altri ne sono nati, rimaneggiamenti, aggiunte, rivisitazioni, ma la via su cui camminare resta sempre quella, la più precisa, la più scientifica, quella che non lascia spazio a fantasie o rivisitazioni storiche per puro campanilismo. Chi scrive di storia deve essere obiettivo e senza partigianeria che induce ad osservare con occhi velati, ma don Carlo, con occhi attenti ha studiato con amore il suo paese tanto da dedicargli gran parte del suo lavoro. Ora tocca a noi procedere nella strada da lui tracciata con la capacità di riconoscere la sua vera personalità.

Menesta asciatizza, a tavola con le piante spontanee dell’Appennino Centromeridionale, franca molinaro, La Bancarella Piombino- errata corrige

alle seguenti pagine si parla di:
pag. 48 Althaea officinalis
pag. 52 Asparagus acutifolius
pag. 55 Picris hieracioides ed Helminthotecha echioides
pag. 59 Arctium lappa, Borrago officinalis
Pag. 77 Crepis sancta, setosa, vesicaria
pag. 91 Leontodon rosanoi
pag. 99 Ulmus minor
pag. 105 Quercus sp.
pag. 110 Rosa arvensis
pag. 111 Rubus sp.
pag. 116 Succisa pratensis
pag. 119 Taraxacum sp
pag. 127 Ridolfia segetum
pag. 134 Satureja hortensis, Thymus longicaulis

“La Zoccolara”, una inquietante presenza nel cuore di Benevento, una testimonianza raccolta da Margherita Tirelli – Franca Molinaro

 A Benevento, nel centro storico, precisamente al Triggio, tutti conoscono l’inquietante e sonora presenza della Zoccolara. Son in molti a giurare di averla sentita passare nella notte battendo gli zoccoli di legno sul basolato della strada. Alcuni giurano di aver visto la sagoma presto inghiottita dalla nebbia, qualcuno dice che cavalca un cavallo e il rumore prodotto è quello degli zoccoli equini, altri ancora raccontano che batte lo zoccolo sull’inferriata del teatro romano. Ultimo caso è raccontato da Paola Caruso in “Santi, spiriti, streghe ed altre figure della storia e del folclore beneventano”, Edizioni realtà sannita, Benevento, e risale al 1990-91. Fu un giovane a vederla appoggiata a un muro, alta, magra e vestita di nero, credendola in difficoltà si avvicinò per soccorrerla ma la figura scomparve.  Tentare un’interpretazione di questa figura è cosa complessa considerata l’antichità dei culti presenti in Benevento e il loro accavallarsi. La demonizzazione di una Grande Madre primigenia, sia essa Ecate, Diana, o Iside molto di casa nella città, ne ha permesso la materializzazione. La Zoccolara appare come la sedimentazione di più culti pagani demonizzati dalla nascente religione cristiana. Ascoltando il popolo si ottengono diverse interpretazioni, qualcuno asserisce che la Zoccolara è lo spirito di una “erbaiola” morta in circostanze misteriose, per altri è una strega, una delle tante streghe della ben nota tradizione beneventana, qualcuno asserisce che tale strega aveva un difetto, era zoppa. Qualcuno più pratico invece, spiega che nella zona del teatro romano vi erano delle meretrici che ricevevano di notte nelle loro casette e, per evitare che in quelle strade vi circolasse troppa gente inventarono la storia della Zoccolara. Una spiegazione troppo semplicistica per giustificare un mito così radicato e importante. In Abruzzo, curiosamente, il termine Zoccolara indica l’esponente di un gioco di gruppo, ne scrive Antonio De Ninno in . Un circolo di bambine curve si toccano con le teste e non vedono cosa accade alle loro spalle. Una bambina esterna al circolo, la Zoccolara, ha in mano uno strofinaccio legato come un grosso topo, la “zoccola”, che consegna a una del circolo. Chi riceve la zoccola dà un colpo sulla spalla della compagna che la precede, la quale fugge perseguitata dalla Zoccolara. Dopo un poco rientra nel cerchio e il gioco riprende.
Ma torniamo alla nostra Zoccolara con una testimonianza di pochi decenni or sono. Il racconto che segue è una testimonianza raccolta da Margherita Tirelli presso la mamma di una sua coetanea:

Me lo avevano raccontato ma non avevo mai voluto crederci. Tutte fantasie, solo per metter paura. Questo pensavo. La mattina del nuovo 1960, a Benevento, pare che anche  il Signore del Cielo avesse dimenticato di voltare pagina al calendario. Di buon’ora,ancor prima dell’alba, col fiato grosso e con l’alito sulle labbra per il freddo sferzante, percorrevo il Triggio per imboccare Via San Filippo.  Una fitta nebbia che mi impediva di vedere anche i piedi, un freddo bagnato le cui gocce contavano tutte le mie ossa,mi spingevano ad affrettare il passo e ad avvolgere più forte il lungo scialle attorno al corpo. Comare Filomena mi stava aspettando per la siringa.  Diceva che avevo una mano di fata e non solo, ma anche il dono della delicatezza e della pazienza.  In cambio, poi , lei mi dava il lievito per il pane, per i taralli, per le zeppole. Così i miei pensieri si affollavano, si incrociavano, si mescolavano in un tumulto silenzioso come la strada vuota che avevo davanti. Il selciato era umido e a tratti debolmente illuminato dalla luce fioca dei lampioni; tutto intorno un silenzio gelido, disturbato solo dal rumore ovattato dei miei passi. E fu allora che accadde…

Ebbi sentore di uno scalpitìo in lontananza. Più si avvertiva vicino, più si faceva frenetico. Allungai il collo e aggrottai le sopracciglia nel tentativo di mettere a fuoco qualcuno, o qualcosa. Ma meritavo di ricevere solo il gelido bianco del freddo e la nebbia intorno.    Un cavallo, pensai.  Ma subito mi resi conto che non poteva essere.  Il cavallo  “fa un rumore a quattro zampe”.  E poi la presenza di un animale l’avrei percepita subito, per istinto.  Sentivo il rumore più forte, più vicino. Ma nessuna presenza. Aspettavo incuriosita. All’improvviso, in un lampo che squarciò anche la nebbia, scorsi una sagoma deforme, scura,più nera della terra dei morti. Un brivido mi corse per tutto il corpo. Anche i denti tremavano. Come un sortilegio riuscito,  ero pietrificata. Un improvviso silenzio innaturale mi gelò il cuore. Il mio  sguardo era fisso su un volto livido, su occhi spiritati e lucenti e su un naso sfuggito dalla grazia del Creatore.  La vidi, funerea da capo a piedi. Mi fissò, malefica,arcigna e mi sputò il suo veleno. ” Che vuoi? Che mi guardi?”  gracchiò  perfida e sprezzante.  E mi sputò tutto il suo veleno,le sue maledizioni. Una litania macabra, accompagnata dalla musica dei suoi zoccoli. Avvertii la terra tremare sotto i miei piedi. Chiusi gli occhi per annientare l’immagine di quella figura spettrale davanti a me. Ora capivo e credevo a tutte quelle dicerie. La Zoccolara non era una fandonia. Tutto nel giro di pochi attimi! Fui grata al suono dei suoi zoccoli, frenetico ma debole . Si stava allontanando.  E come in un sogno inquietante, sparì nella nebbia. Solo allora riaprii gli occhi. Tutto si era ricomposto secondo Natura: la nebbia, il freddo, il silenzio, la terra sotto i piedi. Ultimo, solo il suono degli zoccoli in lontananza, più lento,come il rintocco di una campana a morte.