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Il sonno del paguro di Margherita Tirelli

Mi allietava il cuore l’idea di trascorrere l’estate a Palinuro, tra sentieri rocciosi e spiagge sabbiose, bagnate da un mare ricco di vita e di leggende, le cui onde cullavano da sempre il corpo mai trovato dell’epico nocchiere di Enea. E dunque era plausibile la disperazione del fantasma e il suo vagare tra i flutti alla ricerca di quelle spoglie insepolte.
Intanto le mie mani setacciavano granelli di sabbia, schivando lucertitudine al sole e strategiche conoscenze in spiaggia; l’estate era sinonimo di escursioni, libri e conchiglie.  Un’attrazione irresistibile mi spingeva a studiarne i gusci, unici e autentici, che rivelavano un mondo antico di forme perfette, di volute e spirali coloratissime, di un lucido nero o di un rosso porpora, di sfumature come se ritoccate da un pennello o incise da un bulino.  Era il lavoro incessante del mare.
Una tinozza di legno ne diventava il laboratorio di studio; e proprio all’interno di essa si verificò una esperienza singolare e bizzarra: un minuscolo crostaceo rosso vagava tra le conchiglie; un paguro, sbarcato lì, chissà come, in quella tinozza, epitome dei suoi guai futuri! Forse era stato tradito dal sonno, come il nocchiere di Enea.  Caduto dalla sua confortevole abitazione ambulante, ora vagava senza pace provando rifugi temporanei in quegli involucri colorati e salati. Ma ne usciva dopo un po’, con tristezza, immaginavo.
Si allontanava da quegli usci che risultavano troppo stretti o troppo larghi per il suo addome; o peggio, se erano già rovinati. E in un drammatico silenzio si ritirava in un angolo scalfito e così distante dalla sua ampia culla marina. Impensabile. Un paguro privato della sua conchiglia è come una clarissa senza convento.
Mi sembrò doveroso tentare un aiuto, seppur minimo, da offrire a quel piccolo essere che lottava per sopravvivere. Se non altro per alleggerire anche il mio senso di colpa.
Con tatto le mie dita si muovevano per avvicinargli e offrirgli nuove conchiglie da visitare di volta in volta; d’altro canto i suoi instancabili rientri ed uscite mi confermarono una nostra impercettibile intesa per una mèta comune. A volte delusa, altre volte incoraggiata dai suoi movimenti sicuri e veloci, continuai ad accostargli conchiglie, per un tempo che mi sembrò infinito.
Finalmente trovò la conchiglia giusta che lo accolse. Una casa perlacea, con scure volute e venature rosee. Una perfetta armonia tra il nuovo nicchio e il suo corpo.
L’audace piccolo paguro la provò ripetutamente, e solo quando, una volta entrato, le sue zampette blindarono l’uscio della sua nuova dimora, compresi che non l’avrei più rivisto.
Avvertii il peso vitale di quella conchiglia sul mio cuore mentre scendevo in spiaggia guidata dalla luce della luna.  Di sicuro il suo prezioso ospite si sarebbe assopito cullato dal mare.