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Addio a Don Michele Cogliani, custode di arte e memoria

Si è spento, lo scorso sabato, don Michele Cogliani, figura di parroco intellettuale, attivo soprattutto nella Baronia. Don Michele era ben noto ai nostri lettori ma anche alla nostra redazione dove spesso si recava per salutare e comunicare le sue imprese. Nacque il 24 gennaio del 1934, a Castel Baronia da famiglia di umili contadini, fu battezzato nella parrocchia di Sant’Euplio Martire. Fin da piccolo mostrò propensione per la vocazione religiosa così da ragazzo entrò nell’ordine dei Padri Mercedari nel santuario di Carpignano. Nel 1959, a 25 anni, venne ordinato sacerdote, a Roma, subito dopo celebrò la sua prima messa nel santuario della Modonna delle Fratte a Castel Baronia, con grande acclamazione del popolo. Tornò poi a San Felice in Circeo, presso Roma dove svolse attività apostolica vicino ai giovani dei campi. In seguito lasciò l’ordine monastico ed entrò nella diocesi di Lacedonia, divenuta poi diocesi di Ariano Lacedonia nel 1982. Fu vicario parrocchiale per alcune parrocchie della diocesi. Il primo agosto 1980 divenne parroco di Trevico. Nello stesso anno il terremoto danneggiò molti beni della cittadina, ma grazie al sisma, don Michele scoprì l’esistenza della cripta sotto la cattedrale. Subito si adoperò per far partire i lavori di ristrutturazione, che furono agevolati da una donazione di 70 milioni di lire, da sua sorella Teresa Cogliani, residente in America. A Trevico ricordano il parroco intento a rimuovere le pietre per aiutare i cittadini e gli operai, tra le macerie. La cattedrale fu riaperta al pubblico il 1998. Intanto per la celebrazione creò la chiesetta-baracca, di Santa Lucia a Molini, si fece poi donare altri prefabbricati, trasformandoli in chiese: una a Farullo intitolata al Cuore Immacolato di Maria e una al Sacro Cuore di Gesù e San Gerardo, a Lungarella, dove poi creò l’oratorio per i giovani. Comprendeva che con la neve i fedeli non salivano il monte per l’ascolto della santa messa, c’era quindi bisogno di un luogo più comodo per ogni contrada. Nel 1982, con altri intellettuali irpini tra cui il giudice Cuoco, fondò l’Associazione Mancini con una sua rivista “Vicum”, per la quale ho avuto onore di scrivere per molti anni. A dirigere questa rivista è stato il prof. Salvatore Salvatore. Don Michele è stato anche insegnante di religione in scuole medie e superiori. Il 2003 fu un anno di preparativi per il diciassettesimo centenario della morte di Sant’Euplio martire catanese e patrono di Trevico. Fu l’occasione per iniziare una serie di ricerche che facessero luce sulla figura del santo, creò quindi il Centro Studi Eupliani cui erano iscritte grosse personalità del mondo accademico, anche io, nella mia piccolezza, ebbi questo onore. Intensificò i rapporti con la Sicilia, con gli studiosi del culto, con esperti di università, filologi, storici, antropologi, fino ad ottenere il permesso e i proventi per una ricognizione scientifica delle sacre reliquie presenti in Trevico. Ma la vita gli riservava una grande prova che, il buon Dio e il suo Sant’Euplio, gli permisero di superare. Un incidente mortale, sulla strada che lo portava a casa da Trevico, lo ridusse in fin di vita. Restò schiacciato per tre ore sotto la sua auto finchè non arrivarono i soccorsi. Costretto in ospedale per mesi non potette assistere ai festeggiamenti agostani per Sant’Euplio. A Ottobre tornò in parrocchia e mise a punto la chiusura dell’Anno Eupliano con la ricognizione che avvenne nel febbraio del 2005, effettuata dal dott, Francesco Mallegni dell’università di Bologna. Gli studi finali condussero alla certezza quasi assoluta che le ossa appartengono al santo catanese. Anche la ricerca storica condusse a risultati confacenti. Don Michele ha sempre appoggiato le attività culturali e quanti fanno cultura. Dal 2004, anno in cui l’ho incontrato, ho sempre visto in lui un personaggio tenace, arguto, attento al momento storico e alle sue pecorelle, sempre aperto a comprendere la spiritualità del prossimo. Una volta mi disse: “Tu non sarai una cattolica fervente ma hai una profonda spiritualità” e rispettava il mio pensiero. Mi affidava sempre incarichi importanti ed amava tenermi al suo fianco presentandomi come “la giornalista” perché per lui quel titolo era significativo. Sapeva benissimo che attraverso la mia penna poteva comunicare al mondo le sue iniziative fossero esse di carattere religioso, come la venuta a Trevico della copia della Sindone, o culturali come i festeggiamenti per Parzanese, perfetto sconosciuto se non lo si fosse ripescato dal dimenticatoio. Lui amava radunarci nei locali della parrocchia e sentirsi attorniato da cultura e affetto, spesso era presente il prof. Paolo Saggese con i poeti del Sud, altre volte erano protagonisti i pittori e toccava a me organizzare l’estemporanea o la collettiva. A Natale bisognava andare ad allestire il presepe, e qualche Trevicano si è chiesto perché dovevo andare proprio io da Benevento a fare questo lavoro, con tanti capaci in paese. Non saprei dirvi, mi chiamava ed io andavo per amore di Trevico, dove mi sentivo più vicino al cielo, per Vicum, la prima rivista per cui ho scritto seriamente, per l’Associazione Mancini pur non sopportando molto il risorgimentale personaggio cui era dedicata. I cento chilometri di andata e ritorno non mi son mai pesati, finchè don Michele ha chiamato sono andata. Continuammo a frequentarci, anche quando diede le dimissioni da Trevico, ormai la salute gli impediva di proseguire nel suo ministero. Ogni tanto gli facevo da autista, si andava ad Anzano per la Madonna dei Quattro Confini, o si andava a Lagopesole a trovare suor Cristina di Gesù Crocefisso, nel suo santuario costruito tutto sotto la sua direzione. Si mangiava insieme e poi si rientrava. Altre volte, in comitiva, col giudice Roccia, Antonio Bianco, Gerardo Solimine ed altri amici, si proseguiva per Acerenza, Pietragalla, o sulle tracce di Parzanese verso il Laceno. Qualche volta la nebbia era così fitta sul monte che potevi tagliarla come il pane, ma bisognava andare, una volta perché era la Madonna della Libera, un’altra il compleanno di don Michele, un’altra l’anniversario del sacerdozio. Anche lui si avventurava con la sua panda e veniva a trovarci in azienda ma non si fermava mai a pranzo, a differenza ci voleva assolutamente suoi ospiti, per consigli sulla conduzione del terreno, per difficoltà col pc, per la venuta di Teresa dall’America. Negli ultimi anni il suo carattere spigoloso si era accentuato, anche l’età faceva la sua parte, qualche volta non comprendevo quello che mi chiedeva e mi arrabbiavo, ma lui metteva subito tutto a posto e rinnovava l’invito per andare a pranzo in Valle Ufita. Aveva conquistato anche la stima del mio consorte che coi preti non ha avuto mai un gran rapporto. L’ultima volta che andammo a Castel Baronia cucinammo insieme mentre mio marito provvedeva a mantenere accesa la vecchia fornacella. Dopo il caffè ci portò a fare il giro dell’azienda e della casa mostrandomi le pareti tappezzate coi quadri che negli anni mi aveva commissionato. Mi teneva ancora il muso per quei due pezzi donati al comune di Castel Baronia, “Le lavannare di fontana Mancini” e il “Mascherone”, li voleva lui e me li avrebbe pagati come tutti gli altri. Si, perché don Michele non ha mai approfittato del lavoro di alcuno, sia esso uno scritto, un disegno o un quadro, una scultura. In questi anni ha usufruito di tutte le mie capacità professionali riconoscendole come non altri. Se dovessi giudicarlo oggi direi che è stato un grande mecenate, amante del bello, della cultura, fosse anche essa atea, perché sapeva confrontarsi, era un intellettuale di spessore, le sue conoscenze erano profonde, basate su studi filosofici, teologici, storici. Gli accademici che lo hanno approcciato riconoscevano in lui una grande cultura, quella classica, uomo di larghe vedute, intuitivo, precursore dei tempi. In Sicilia lo hanno ricordato con belle parole in articoli, messe e cerimonie di commemorazione in più luoghi, là dove era arrivato con le ricerche per l’amato Euplio. Nessuno è profeta in patria tanto meno chi è molto attivo, rischia sempre di farsi fraintendere, di attirare invidie. Don Michele aveva esagerato, voleva realizzare troppe cose, in un periodo, inoltre, quello post terremoto, che pullulava di faccendieri, mazzette e approfittatori. In questo guazzabuglio lo confusero i malpensanti convinti che avesse a cuore il denaro e i propri interessi, io che gli sono stata vicino abbastanza ho conosciuto in lui una persona sempre in cerca di aiuti ma non per se stesso o per la sua famiglia, lui indossava sempre lo stesso pantalone e lo stesso berretto, la sua casa era umile e a volte cucinava anche sulla fornacella a legna. L’aiuto che cercava era per ristrutturare le chiese di Trevico, pubblicare dei testi, aiutare qualche pittore acquistando i suoi quadri, comprare una nuova statua della Madonna, in legno di cirmolo, lassù in Trentino. Se incontrava qualcuno che poteva essere di sostegno ai suoi progetti lo portava subito a Trevico e gli mostrava gli affreschi nella cripta, la cattedrale, la chiesa di Mulini da finire. Nessuno più di lui si è adoperato per valorizzare il paese nel giro di trent’anni. Lo hanno fatto i sindaci nei loro mandati, ricordo la pazienza di Antonio Picari nei continui battibecchi, lo ha fatto Mariangela Cioria con le sue ricerche di antropologia e la sua associazione “Irpinia Mia”, ma don Michele, col suo apostolato ha coperto tutti gli aspetti del vivere civile e religioso lasciando numerose testimonianze. Trevico dovrebbe trovare un modo per ricordarlo.