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24 aprile 2017:Incontro con l’autore presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Grottaminarda”

DSC_0230.JPGAndreina Solari e “Lo schiocco del merlo”. Andreina Solari, poetessa, scrittrice, ricercatrice storica, Assessore Scuola e Cultura al Comune di Leivi (GE), in occasione della festa della “Liberazione”, è stata ospite presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Grottaminarda” diretto dall’infaticabile Drigente Scolastico Catia Capasso. L’incontro, rientrante nei programmi della “Grande Madre” come “Incontro con l’autore”, è stato organizzato con l’Istituto superiore ed ha visto  la collaborazione dell’Istituto Comprensivo “San Tommaso d’Acquino” di Grottaminarda. A coordinare il tutto la professoressa Rita Minichiello che è riuscita a coinvolgere ed entusiasmare un centinaio di ragazzi del quinto anno. Presente il sindaco Angelo Cobino che molto ha apprezzato l’impegno della scuola e della nostra associazione. Tutti si sono espressi a favore della pace ricordando gli orrori che la guerra produce, prima di tutti la professoressa Maria Antonietta Lazzaruolo, studiosa di storia e autrice di diversi testi di ricerca. Il suo accorato intervento ha evidenziato la necessità assoluta di pace tra i popoli indipendentemente dal colore della pelle o della divisa. I ragazzi dell’istituto comprensivo si sono esibiti in brani musicali, guidati dai Maestri professoressa Mariarosaria Cardinale e professor Giuseppe Giulio Di Lorenzo. A moderare è stata lo stesso dirigente Capasso che ha sbalordito con la sua attitudine al coordinamento. Presenti professori e dirigenti, esponenti del mondo culturale della cittadina irpina. L’intervento di Andreina Solari è stato tecnico ma allo stesso tempo toccante. Prima di tutto ha spiegato ai ragazzi come è nato il testo di storia in oggetto, le difficoltà a far accettare all’editore il titolo “Lo schiocco del merlo”, l’escamotage adottato, la scelta di giocare molto sui ricordi del soldato Mingo per non appesantire il lettore con le truci scene di guerra.  Tra spiegazioni e letture, il racconto di Mingo Solari si è snodato attraverso le colline dolci di Leivi, le sabbie del deserto, le sterminate pianure del Nord America, nei campi di deportazione. Non è mancato il desiderio di ascoltare una poesia in lingua genovese e, di fronte alle richieste di tutti, la Solari ha declamato i versi che la videro vincitrice di “Echi di poesia dialettale 2014”, ora quella poesia è inserita in un bel testo illustrato e introdotto da chi scrive e costituisce una dimostrazione di quanto può essere bello il dialetto se adottato  in poesia da un vero poeta.
La mattinata è trascorsa in un susseguirsi di emozioni e commozione generale, il viso dei ragazzi si è oscurato ascoltando le letture, l’attenzione è stata massima, silenzio assoluto mentre il nodo in gola coglieva tutti. Ha ulteriormente scosso gli animi la proiezione  di un filmato esclusivo, girato dall’Associazione A.R.I.D.O., Associazione Ricercatori Indipendenti Deserto Occidentale. Questo filmato concesso alla Solari in via eccezionale, fu proiettato nell’ambasciata italiana al Cairo in presenza del Presidente Napolitano in occasione del sessantasettesimo anniversario della battaglia di Al Alamein. L’associazione  ARIDO fu fondata nel 2000, da Andrea Mariotti di Falconara Marittima, trasferito in Egitto per questioni di lavoro. Ritrovandosi sullo scenario del conflitto, si appassionò ancora di più alla guerra in Africa tra giugno e novembre del 1942. Quest’associazione di volontari che si autofinanziano, tende a recuperare resti di soldati e cose, armi, automezzi, sommersi dalla sabbia; una missione pericolosissima date le insidie del deserto e i problemi politici attuali, ma questi imperterriti eroi continuano insistenti per non lasciare seppellito un capitolo importante della nostra storia.
Così lo spettro della guerra ha raggelato il sangue di tutti, il silenzio nella sala ha testimoniato il rispetto per quelle morti immature, per quelle sofferenze disumane, il tutto inscritto in un conflitto senza senso, voluto per pura follia di un solo uomo, ma che decimò il fior fiore della gioventù italiana del tempo. Ora il deserto custodisce ancora i segreti, ogni tanto il cammino delle dune restituisce spoglie, trincee, aerei e altri mezzi. Di qua dal mare le madri non aspettano più, sono morte coi loro abiti neri, resta qualche foto sbiadita appesa su vecchie mura, qualche gavetta, un brandello di divisa e musei che non sanno dire abbastanza quanto è stata terribile la guerra.
Son sicura che questi ragazzi spaventati e ammutoliti di fronte alle immagini e ai racconti delle sofferenze, non dimenticheranno questa mattinata e quando arriva il 25 aprile, oltre alla gioia per la festa scuola, ricorderanno la ragione per cui questa giornata è stata istituita.
La libertà così cara e bella, oggi è compromessa per tutti, ricordare quanto è costata può aiutare a rispettarla e conservarla.
franca molinaro

 

 

23 aprile 2017: A Bonito (AV) si ricorda la “Liberazione”

Ospite Andreina Solari di Genova               18056788_1479763175420398_8548933706517970339_n.jpg                 di franca molinaro

Il 25 aprile si va trasformando sempre più in una festa di primavera dimenticando, progressivamente, il senso di questa giornata di gioia ma anche di lutto infinito. Con l’Amministrazione comunale di Bonito, quest’anno abbiamo pensato che sarebbe stato bello commemorare la Liberazione, con gli ultimi testimoni diretti. Grazie all’impegno di Valerio Massimo Miletti e di Gaetano Di Vito, con il beneplacito e preziosa presenza del sindaco Giuseppe De Pasquale, la manifestazione di domenica 23 aprile si è trasformata in occasione di riflessione e commozione di tutti i presenti. Ospite speciale, dalla Liguria, Andreina Solari, poetessa e scrittrice, Assessore Scuola e Cultura al comune di Leivi (GE), con il suo testo storico “Lo schiocco del merlo” Ed. Thesis.
Il romanzo della Solari è la testimonianza di prima mano di Domenico Solari, soldato in Africa, prigioniero in America, reduce, fortunato per aver potuto rimetter piede sui sacri lidi patri e raccontare la sua storia. Una storia, quella di Mingo, come quelle di tanti soldati, accomunati da sofferenze e orrore nel luogo più  invivibile della terra, una depressione nel deserto del Sahara. Il racconto di Andreina, accompagnato da immagini e letture, ben si è intrecciato con le testimonianze di seconda mano dei relatori, Silvio Sallicandro, Francesca Rullo, la professoressa Sorrentino. Le testimonianze dirette poi, hanno reso ancor più satura l’atmosfera e il pathos contagioso ha conquistato ogni animo. Tutto il pubblico ha seguito con un nodo in gola le testimonianze, prima del novantanovenne  Vincenzo Merola che ha risposto alle domande della nipote Assessore Melania Masiello e del sindaco, con mente lucida e determinazione. Nella sua voce traspariva tanta amarezza e quasi un desiderio di allontanare quei ricordi. “Brutti tempi” ripeteva, “Cosa brutta la guerra”. Dalla sua veneranda età non ha potuto cancellare quelle immagini di sofferenza che ancora feriscono, ciò nonostante ha  partecipato a tutta la serata con attenzione ricevendo tanti baci anche dai più giovani. Commosso ha ringraziato di cuore nel ricevere, dalle mani di Yvonne Scherken, curatrice dei rapporti internazionali della Grande Madre, il nostro pensiero, il medaglione col serpente che rappresenta la conoscenza superiore.  Vincenzo Merola era caporal maggiore infermiere, vide tanti amici morti. La vita era triste anche se “mangiavano bene, pastasciutta, carne”. Le gallette bisognava prima bagnarle in acqua e poi si consumavano. Il tre maggio morì Raffaele Sessa, portava la comunione ai soldati, era un prete.  La prima licenza la ebbe dall’Albania, la seconda dal Montenegro. Vincenzo suonava pure le campane alla chiesetta quando si diceva la messa. Tornò l’otto settembre 1947. Michele Graziano lo fecero prigioniero i Tedeschi. Molti non tornarono. La vita è stata brutta per lui e per tutti quanti.
Antonio Pascucci ricorda che era ragazzetto, quando bombardarono si trova a Morroni, trasportavano le pietre dalla cava di San Pietro a casa di Prisco Rossetti. Al momento del pranzo videro tanti aerei che giravano, ma non pensarono a un bombardamento, da un momento all’altro udirono dei rumori, pensarono che stavano bombardando Bonito, allora partirono per andare a controllare l’accaduto perché in paese c’erano i familiari. Per strada non vedevano l’ora di arrivare, davanti da don Carlino il farmacista, la via era piena di pietre, non si poteva passare ma loro camminarono sulle macerie perché erano giovani. Arrivarono nel cuore del paese, davanti San Giuseppe dove c’erano i Tedeschi con le pistole in mano. Il professore Inglese fu obbligato dai Tedeschi a rimuovere le pietre dalla strada. Là seppero che era morta la buonanima di donna Giulia col suo bambino, arrivarono alle spalle di Inglese, c’era Assunta Ruggiero appesa tra le macerie per i capelli. Girarono per Vigna la Corte e c’erano altri morti, rimasero spaventati. In quel periodo non c’era elettricità, si riunivano sette otto o dieci persone e andavano a molire con i carri a Dentecane, a Bonito i mulini non funzionavano più.
Giosuè Santosuosso racconta che quando iniziarono a bombardare non si rendevano conto di cosa cadesse dal cielo, sembravano barili. C’erano tanti poveri soldati che non avevano soldi per comprare il pane e, sua mamma che era panettiera, lo regalava per farli mangiare un po’.  Racconta anche della violenza dei civili sui soldati. Testimonianza molto bella è la storia della gavetta: Gaetano che all’inizio della sua attività di raccoglitore si confidava con lui perché compreso, un giorno gli portò una gavetta con inciso sopra il nome di un soldato, Gaetano Moss,  e il suo indirizzo. Giosuè scambiò un vecchio piatto con la gavette e scrisse al comune di Lodi, Brindisi. Il figlio del soldato decise di venire a Bonito a ritirare il cimelio, mancavano quattro giorni al quattro novembre e si decise con l’allora sindaco Walter De Pietro di fare una manifestazione. Il giorno della commemorazione la gavetta fu consegnata al militare Moss che ebbe il piacere di riabbracciare il commilitone bonitese.
Testimonianza toccante quella di Annamaria Lombardi, di Trieste, era una bambina all’epoca ma ricorda perfettamente  l’inferno che si rovesciò sulla bellissima cittadina veneta, la fuga, con la famiglia, verso Napoli. Dalla voce di Annamaria abbiamo ascoltato una pagina del diario di Alfonso Mariano, concesso a Gaetano dalla figlia Fiorenza. Mariano fu soldato in Albania, scrisse quei momenti sul retro di fogli di carta sottratti ai tedeschi, parla della vita quotidiana, degli eventi e dei pensieri che affollavano la sua mente, una testimonianza diretta che meriterebbe onore di editoria.
La serata, arricchita dalle testimonianze di Gaetano, custode assoluto della memoria bonitese, si è conclusa con le sue delucidazioni sugli oggetti esposti, lettere, protesi, radio amatoriali, pezzi di aerei trasformati in coperchi, elementi e storie così lontane dal quotidiano e dalla nostra immaginazione.
La comunità bonitese si è ritrovata unita a condividere questi momenti intensi superando ogni divisione ideologica, stretta intorno ai propri ricordi, alle persone perdute, scomparse, mai più tornate da quei luoghi oggi di villeggiatura. La guerra è una brutta cosa, come ha detto il nonnino Vincenzo, è una gran brutta cosa e i soldati son uguali nonostante il colore diverso della divisa.

Il Grano, sacralità cristiane e pagane

IMG_20170406_103521.jpgIl grano nella civiltà mediterranea.
Antonietta e Carmela Mottola detentrici di un’antica conoscenza.

Nelle civiltà mediterranee il grano è una delle sacralità primordiali, dopo la Grande Madre c’è lui, sotto varie sembianze.
Il grano che subisce una “Passione”,  seviziato, battuto, messo a morte, è la prima divinità che risorge, è il grano che inaugura il triduo della passione-morte-resurrezione, traslato poi a nuovi dei, dalla Mesopotamia all’Egitto, poi la Grecia e infine arrivò il nostro Cristo.

L’uomo preistorico scoprì l’importanza del grano, prese coscienza del fatto che dal cereale dipendeva la qualità della sua vita e lo eresse a divinità per propiziare il raccolto ed esorcizzare la paura di una possibile scomparsa. Tutte le cure stagionali, però, non perdonavano il gesto finale  della mietitura, e la desolazione dei campi vuoti diventò motivo di ansia [1]. La precarietà della vita alimentare nelle civiltà cerealicole del mondo antico è indirettamente documentata dalle catastrofiche descrizioni del vuoto vegetale che accompagna la scomparsa del nume della vegetazione.[2]   I lamenti funebri alle varie divinità, fino all’Antico Testamento con i lamenti di Geremia[3] e Gioele[4], offrono scenari terrificanti della sospensione della vita del mondo vegetale .

L’uomo, secondo la lezione di De Martino, si scoprì procuratore di morte e come tale tentò di riscattare il suo peccato per riabilitarsi al giudizio divino[5].

Nelle messi mature, lo spirito del grano si muoveva in modo ondoso  seguendo lo spirare del vento e sfuggiva alla falce dei mietitori, finché anche l’ultimo covone era mietuto. Sembra che i mietitori delle origini, dall’Egitto all’Asia Minore, per placare l’ira dello spirito del grano gli offrissero il sacrificio di un uomo legato in un covone. [6]

Il grano che muore per produrre fu il primo simbolo di passione causata dall’uomo e tutto il mondo antico accompagnava la mietitura con pianti cerimoniali in cui il lamento vocale era reso scenografico dalla specifica gestualità del cordoglio[7].

Con il ciclo del grano e più propriamente della natura nell’area mediterranea, s’identifica tutto il sistema religioso e culturale del mondo agrario, sistema che  la civiltà contadina ha mantenuto gelosamente fino al secolo scorso quando la sfrenata ricerca della modernità ha tentato la ricollocazione di tutto quanto appariva vergognoso alla società post-moderna determinando, in tal modo,  il ripudio del sé identitario.

Pur essendo in una fascia temperata dove le stagioni si susseguono naturalmente, nel numero di quattro, il ciclo stagionale popolare si riassumeva nella dicotomia caldo-freddo: Il caldo e il freddo rimangono elementi essenziali dei calendari popolari, evidenziando il contrasto tra una stagione di pienezza come l’estate, ed una di attesa e di ritiro come l’inverno. Tale contrasto corrisponde alla dicotomia che oppone da un lato abbondanza e forza vitale e dall’altro malessere e crisi esistenziale.[8]

Il viaggio segue un andamento circolare, dalla nascita, al cammino terreno, fino alla morte  configurata nel ritorno alla terra, contemplando la passione necessaria per effettuare il passaggio a vita nuova nella rinascita o resurrezione.

Il chicco che dorme nel buio della terra, durante la stagione fredda, dà origine ad una piantina nuova, occorrono, non a caso, nove mesi perché il frutto maturi e possa esser immagazzinato nella stagione calda.

I primi riti che celebravano la passione, la morte e la resurrezione erano legati alle divinità Tammuz della Siria, Attis della Frigia, Osiride dell’Egitto e Adone della Grecia. Tammuz moriva ogni anno per discendere sotto terra ma, a primavera, Istar, sua sposa o sorella, lo resuscitava risvegliando le forze rigenerative della natura, per questo fu eletto a dio dell’agricoltura.[9] La versione frigia del mito di Attis riportata da Arnobio[10], racconta che questi nacque da Nana, dea della generazione, e morì per autoevirazione il giorno delle nozze, ma resuscitò a vita nuova il 25 marzo, inizio della letizia. In tale occasione i fedeli e i sacerdoti si flagellavano spargendo il loro sangue. La Catabasis celebrava la discesa del dio nel regno dei defunti ed era seguita da una veglia e da un digiuno che preparava gli adepti alla resurrezione.[11] Macrobio[12] descrive il ciclo stagionale regolato dai movimenti apparenti del sole e interpreta il mito di Attis, paragonandolo a quello greco di Adone. Secondo Ovidio, Adone era figlio incestuoso di re Ciniro e sua figlia Mirra, divenuto adulto s’innamorò di Afrodite ma Ares, trasformatosi in cinghiale, lo uccise. Sceso nell’Ade, fece innamorare Persefone, per intercessione della musa Calliope, gli fu concesso di trascorrere metà dell’anno nel regno dei morti e metà sulla terra con Afrodite.[13]Anche Osiride, dio della vegetazione, subì una sua passione essendo stato ucciso e fatto a pezzi dal fratello Set, ma sua moglie, Iside, ricompose i pezzi e, con un grande atto d’amore, lo fece risorgere per avere da lui un erede[14].

Nell’Antico Testamento l’offerta del sangue era abbinata a quella del pane con il dono al tempio del primo covone mietuto.[15]

Questo passaggio è significativo, non si trattava più dell’ultimo covone in cui si nascondeva lo spirito del grano ma è il primo covone come primizia offerta alla divinità in segno di ringraziamento. Nel Nuovo Testamento si ebbe un altro passaggio, il simbolismo si perfezionò ed il grano comparve come Corpo di Cristo  e sua conseguente, quotidiana presenza sulla mensa attraverso il simbolo del pane.

Il nume che periva e poi riappariva, come sistema mitico-rituale, permetteva la destorificazione del vuoto vegetale riabilitando l’uomo al cospetto della divinità.

L’uomo, dunque, dopo aver tranquillizzato il suo animo nella fede, sviluppò il rito come momento destoricizzato attraverso il quale poteva instaurare un rapporto diretto con la divinità. Il rito diventò un momento carico di magia e simbolismo, un tempo fuori dal tempo in cui si rendeva possibile l’incontro umano-divino.

L’antica rete simbolica presto si offrì come base alla ritualità cristiana, la simbologia arcaica fu investita di nuovi valori, Cristo diventò il nuovo Orfeo. Maria assunta a madre della comunità cristiana sostituì la Grande Madre. La differenza fondamentale non era nella simbologia ma nella struttura della religione stessa, da circolare, cioè ciclica, diventa rettilinea, verso un compimento, escatologica. La prima è religione del mondo inferiore, la successiva è celeste, del mondo superiore.[16]

Ma il meccanismo resta sempre lo stesso: l’uomo cerca conforto e sostegno, anela certezze da contrapporre alla sua precarietà. Tali certezze non può trovarle in nessun contesto storico, solo una metastoria immobile ed inattaccabile può profilare un orizzonte mitico verso cui orientarsi, il luogo della sua tranquillità psicologica dove  trova spazi a sua dimensione. La fede in quel qualcosa che è oltre la sua precarietà valorizza la sua esistenza, lo supporta nelle difficoltà e ne permette la reintegrazione dopo qualsiasi episodio di assenza.

L’innalzarsi di un orizzonte mitico previene dal disfacimento individuale e sociale e  assicura alla comunità il rinnovo dei valori che costituiscono la struttura morale della classe subalterna.[17]

Il grano, primo stereotipo di dio soggetto a passione, trovò la sua perfetta collocazione nell’ambito della nuova fede cristiana. Cristo stesso nelle sue parabole vi faceva spesso riferimento.[18]

Il grano dunque entra a pieno titolo nella vita comunitaria della chiesa e si offre in tutti i suoi stadi. Lo troviamo a Pasqua ad addobbare il sepolcro di Cristo morto. Qui la metafora è eclatante, le piantine cresciute al buio per mancanza di clorofilla appaiono gialle come bianco appare il corpo di Gesù nel sepolcro. E ancora a Pasqua lo troviamo battuto e spogliato per preparare i dolci, Cristo spogliato e battuto alla colonna prepara la salvezza dell’umanità. Lo ritroviamo mietuto ed offerto a spighe nei vari momenti folklorici che caratterizzano vari paesi dell’entroterra irpino.

Ad Andretta, l’ultimo sabato di maggio, la Madonna della Stella Mattutina è portata in processione su di un carro trainato da buoi, l’accompagnano verginelle vestite di bianco recanti in mano ceri, mazzetti di fiori e tenere spighe di grano.

Troviamo il grano in chicchi nei mezzetti[19], sulle teste di donne in processione. E’ trasformato in dolci per varie ricorrenze sacre, ancora sotto forma di pane è presente in vari riti cristiani, ed infine trionfa quotidianamente col pane sulla tavola  come sull’altare il corpo di Cristo.

A Greci , durante i funerali, sulla bara che esce dalla casa, ma anche sul cadavere, si usa buttare manciate di grano come augurio di rinascita spirituale, in sintonia col processo germinativo dei chicchi. Sempre a Greci, per il 2 novembre si prepara il “Cickuett” con grano e granone a chicchi interi, raccolti presso varie famiglie e messi a cuocere in una grande caldaia all’ingresso del cimitero. Questo cibo, misto a sale o zucchero o miele, è offerto ai visitatori e simbolicamente anche ai defunti.[20]

Sull’isola greca di Kalymnos ritroviamo lo stesso rituale. Il grano preparato per i funerali o per il giorno dei morti è detto Kollivo. Tale preparazione rientra nei costumi di tutta la Grecia ed è considerata uno dei momenti di maggiore comunione di tutta la famiglia.[21] Il Cickuett di Greci divenuto cicci cuotti[22] per gli Irpini, è un costume che i primi coloni importarono in Italia e seppero tramandare ai posteri.

Il grano, come elemento magico, rientra nei riti popolari di guarigione. Ad esempio, a Villanova per eliminare i puorri[23] bisogna raccogliere un numero di steli di grano pari alle verruche, tagliarli in modo da avere dei segmenti con un solo nodo centrale. Poi cercare un luogo fangoso dove piantarli singolarmente. Le verruche scompariranno quando gli steli saranno marciti, se però si ripassa da quel luogo si corre il rischio di riprendere la malattia.[24]

I racconti popolari trattano spesso del grano. (Tratto da “Miti e riti della Campania interna” Franca Molinaro, Rivista Storica del Sannio).

 

Dunque il grano era sacro, almeno fino a qualche tempo fa, quando il contadino non perdeva una spiga e non buttava una mollica di pane. Oggi i riti sono scomparsi, il grano è stato totalmente svalutato e il pane è buttato nella spazzatura. Eppure c’è ancora qualcuno che mantiene qualche tradizione, con mia grande gioia e sorpresa, oggi ho assistito le mie vicine che preparavano i “cicci” per Pasqua.

A Calvi Carmela e Antonietta Mottola, due giovani signore, ogni anno compiono un rito antichissimo e perpetuano l’antica costumanza. Ecco la ricetta:
I chicchi di grano duro sono messi a bagno per 24 ore, passato questo tempo se ne prendono poche manciate per volta, si inseriscono in una sacca di tela doppia, possibilmente di canapa bianca, si pone su una superficie resistente e inclinata e si inizia la battitura. Una donna versa l’acqua bollente e un’altra batte a lungo la sacca con una clava di legno. Dopo la battitura i chicchi sono stesi su una tavola di legno coperta da una tovaglia di canapa, qui vengono massaggiati a lungo per eliminare la crusca poi si lasciano asciugare. Una volta asciutto, il grano viene ventilato per eliminare ulteriore impurità poi viene lavato, messo in una capiente pentola e coperto con il doppio di acqua. Si approfitta del forno caldo dopo aver cotto il pane, per cuocere il grano. Il grano così cotto può essere messo in barattoli e conservato sotto vuoto per sei o sette mesi. Intanto per Pasqua questo grano viene condito con formaggio e uova, messo in tegamini e cotto in forno oppure utilizzato per fare la pastiera e il ripieno per i “casatielli”.

[1]Cfr.  E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 221.

[2] E.  DE MARTINO, Op. cit., p. 218.

[3] Geremia, 14, 1-6.

[4] Gioele, 1, 4-12.

[5] E. DE MARTINO, Op. cit., p. 215.

[6] E. DE MARTINO, Op. cit., p. 231.

[7] E. DE MARTINO, Op. cit., p. 232.

[8] A.M. DI NOLA,  Scritti rari, I. BELLOTTA (introduzione a), vol.I, Edizioni Amaltea, Rivista Abruzzese, Corfinio,  2000, p. 30.

[9] AA.VV., Dei e Miti, dizionario di mitologia, p. 34.

[10]  ARNOBIO, Adversus nationes, V, 5-7.

[11] A.M. Di Nola, Misteri Eleusini- I miti di Cibele e Attis, in Enciclopedia delle religioni, vol. II, pp. 152-153

[12] A. MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia, 1, 21

[13] ANGELA CERINOTTI, O.c., pp.12, 195

[14] A.A.  Nuova Enciclopedia Universale, A. Peruzzo Editore, Cremona 1976, vol. 9, p.2783.  Cfr. F. CARDINI  La cultura folklorica, a cura di, F. SALERNO Viaggi ad oriente della morte, i riti sacro-folklorici della settimana santa nell’Italia Meridionale.

[15] Deuteronomio, 16, 1-8 e Levitico, 23

[16] C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Biblioteca del pensiero moderno, longanesi & C., Milano, 1980, p. 143.

[17] Cfr. E.De Martino, O.c.

[18] Matteo, 13, 1-9, 24-30. Marco, 4, 1-9. Luca, 8, 5-15.

[19] Tutti i termini dialettali sono accompagnati dalla nota di traduzione. Non c’è omogeneità di dialetto perché le interviste sono state fatte in diversi paesi con differenti sfumature linguistiche.

Mezzetto= Unità di misura per aridi corrispondente a 25 Kg. Può indicare anche una misura di superficie e corrisponde ad 1/6 di ettaro cioè a mezzo tommolo.

[20] PAOLA SILANO Pulcherino, terra, acqua e antichi sapori a Villanova del Battista. Delta3 Edizioni, Grottaminarda, 2004, p.22.

[21] A.A., Slow, Rivista Internazionale di Slow Food, anno VII, agosto-ottobre 2003, D. Sutton, Kollivo, p. 104

[22] Grano cotto.

[23] Verruche.

[24] PAOLA SILANO, O.c, p, p. 21.