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Il Grano, sacralità cristiane e pagane

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IMG_20170406_103521.jpgIl grano nella civiltà mediterranea.
Antonietta e Carmela Mottola detentrici di un’antica conoscenza.

Nelle civiltà mediterranee il grano è una delle sacralità primordiali, dopo la Grande Madre c’è lui, sotto varie sembianze.
Il grano che subisce una “Passione”,  seviziato, battuto, messo a morte, è la prima divinità che risorge, è il grano che inaugura il triduo della passione-morte-resurrezione, traslato poi a nuovi dei, dalla Mesopotamia all’Egitto, poi la Grecia e infine arrivò il nostro Cristo.

L’uomo preistorico scoprì l’importanza del grano, prese coscienza del fatto che dal cereale dipendeva la qualità della sua vita e lo eresse a divinità per propiziare il raccolto ed esorcizzare la paura di una possibile scomparsa. Tutte le cure stagionali, però, non perdonavano il gesto finale  della mietitura, e la desolazione dei campi vuoti diventò motivo di ansia [1]. La precarietà della vita alimentare nelle civiltà cerealicole del mondo antico è indirettamente documentata dalle catastrofiche descrizioni del vuoto vegetale che accompagna la scomparsa del nume della vegetazione.[2]   I lamenti funebri alle varie divinità, fino all’Antico Testamento con i lamenti di Geremia[3] e Gioele[4], offrono scenari terrificanti della sospensione della vita del mondo vegetale .

L’uomo, secondo la lezione di De Martino, si scoprì procuratore di morte e come tale tentò di riscattare il suo peccato per riabilitarsi al giudizio divino[5].

Nelle messi mature, lo spirito del grano si muoveva in modo ondoso  seguendo lo spirare del vento e sfuggiva alla falce dei mietitori, finché anche l’ultimo covone era mietuto. Sembra che i mietitori delle origini, dall’Egitto all’Asia Minore, per placare l’ira dello spirito del grano gli offrissero il sacrificio di un uomo legato in un covone. [6]

Il grano che muore per produrre fu il primo simbolo di passione causata dall’uomo e tutto il mondo antico accompagnava la mietitura con pianti cerimoniali in cui il lamento vocale era reso scenografico dalla specifica gestualità del cordoglio[7].

Con il ciclo del grano e più propriamente della natura nell’area mediterranea, s’identifica tutto il sistema religioso e culturale del mondo agrario, sistema che  la civiltà contadina ha mantenuto gelosamente fino al secolo scorso quando la sfrenata ricerca della modernità ha tentato la ricollocazione di tutto quanto appariva vergognoso alla società post-moderna determinando, in tal modo,  il ripudio del sé identitario.

Pur essendo in una fascia temperata dove le stagioni si susseguono naturalmente, nel numero di quattro, il ciclo stagionale popolare si riassumeva nella dicotomia caldo-freddo: Il caldo e il freddo rimangono elementi essenziali dei calendari popolari, evidenziando il contrasto tra una stagione di pienezza come l’estate, ed una di attesa e di ritiro come l’inverno. Tale contrasto corrisponde alla dicotomia che oppone da un lato abbondanza e forza vitale e dall’altro malessere e crisi esistenziale.[8]

Il viaggio segue un andamento circolare, dalla nascita, al cammino terreno, fino alla morte  configurata nel ritorno alla terra, contemplando la passione necessaria per effettuare il passaggio a vita nuova nella rinascita o resurrezione.

Il chicco che dorme nel buio della terra, durante la stagione fredda, dà origine ad una piantina nuova, occorrono, non a caso, nove mesi perché il frutto maturi e possa esser immagazzinato nella stagione calda.

I primi riti che celebravano la passione, la morte e la resurrezione erano legati alle divinità Tammuz della Siria, Attis della Frigia, Osiride dell’Egitto e Adone della Grecia. Tammuz moriva ogni anno per discendere sotto terra ma, a primavera, Istar, sua sposa o sorella, lo resuscitava risvegliando le forze rigenerative della natura, per questo fu eletto a dio dell’agricoltura.[9] La versione frigia del mito di Attis riportata da Arnobio[10], racconta che questi nacque da Nana, dea della generazione, e morì per autoevirazione il giorno delle nozze, ma resuscitò a vita nuova il 25 marzo, inizio della letizia. In tale occasione i fedeli e i sacerdoti si flagellavano spargendo il loro sangue. La Catabasis celebrava la discesa del dio nel regno dei defunti ed era seguita da una veglia e da un digiuno che preparava gli adepti alla resurrezione.[11] Macrobio[12] descrive il ciclo stagionale regolato dai movimenti apparenti del sole e interpreta il mito di Attis, paragonandolo a quello greco di Adone. Secondo Ovidio, Adone era figlio incestuoso di re Ciniro e sua figlia Mirra, divenuto adulto s’innamorò di Afrodite ma Ares, trasformatosi in cinghiale, lo uccise. Sceso nell’Ade, fece innamorare Persefone, per intercessione della musa Calliope, gli fu concesso di trascorrere metà dell’anno nel regno dei morti e metà sulla terra con Afrodite.[13]Anche Osiride, dio della vegetazione, subì una sua passione essendo stato ucciso e fatto a pezzi dal fratello Set, ma sua moglie, Iside, ricompose i pezzi e, con un grande atto d’amore, lo fece risorgere per avere da lui un erede[14].

Nell’Antico Testamento l’offerta del sangue era abbinata a quella del pane con il dono al tempio del primo covone mietuto.[15]

Questo passaggio è significativo, non si trattava più dell’ultimo covone in cui si nascondeva lo spirito del grano ma è il primo covone come primizia offerta alla divinità in segno di ringraziamento. Nel Nuovo Testamento si ebbe un altro passaggio, il simbolismo si perfezionò ed il grano comparve come Corpo di Cristo  e sua conseguente, quotidiana presenza sulla mensa attraverso il simbolo del pane.

Il nume che periva e poi riappariva, come sistema mitico-rituale, permetteva la destorificazione del vuoto vegetale riabilitando l’uomo al cospetto della divinità.

L’uomo, dunque, dopo aver tranquillizzato il suo animo nella fede, sviluppò il rito come momento destoricizzato attraverso il quale poteva instaurare un rapporto diretto con la divinità. Il rito diventò un momento carico di magia e simbolismo, un tempo fuori dal tempo in cui si rendeva possibile l’incontro umano-divino.

L’antica rete simbolica presto si offrì come base alla ritualità cristiana, la simbologia arcaica fu investita di nuovi valori, Cristo diventò il nuovo Orfeo. Maria assunta a madre della comunità cristiana sostituì la Grande Madre. La differenza fondamentale non era nella simbologia ma nella struttura della religione stessa, da circolare, cioè ciclica, diventa rettilinea, verso un compimento, escatologica. La prima è religione del mondo inferiore, la successiva è celeste, del mondo superiore.[16]

Ma il meccanismo resta sempre lo stesso: l’uomo cerca conforto e sostegno, anela certezze da contrapporre alla sua precarietà. Tali certezze non può trovarle in nessun contesto storico, solo una metastoria immobile ed inattaccabile può profilare un orizzonte mitico verso cui orientarsi, il luogo della sua tranquillità psicologica dove  trova spazi a sua dimensione. La fede in quel qualcosa che è oltre la sua precarietà valorizza la sua esistenza, lo supporta nelle difficoltà e ne permette la reintegrazione dopo qualsiasi episodio di assenza.

L’innalzarsi di un orizzonte mitico previene dal disfacimento individuale e sociale e  assicura alla comunità il rinnovo dei valori che costituiscono la struttura morale della classe subalterna.[17]

Il grano, primo stereotipo di dio soggetto a passione, trovò la sua perfetta collocazione nell’ambito della nuova fede cristiana. Cristo stesso nelle sue parabole vi faceva spesso riferimento.[18]

Il grano dunque entra a pieno titolo nella vita comunitaria della chiesa e si offre in tutti i suoi stadi. Lo troviamo a Pasqua ad addobbare il sepolcro di Cristo morto. Qui la metafora è eclatante, le piantine cresciute al buio per mancanza di clorofilla appaiono gialle come bianco appare il corpo di Gesù nel sepolcro. E ancora a Pasqua lo troviamo battuto e spogliato per preparare i dolci, Cristo spogliato e battuto alla colonna prepara la salvezza dell’umanità. Lo ritroviamo mietuto ed offerto a spighe nei vari momenti folklorici che caratterizzano vari paesi dell’entroterra irpino.

Ad Andretta, l’ultimo sabato di maggio, la Madonna della Stella Mattutina è portata in processione su di un carro trainato da buoi, l’accompagnano verginelle vestite di bianco recanti in mano ceri, mazzetti di fiori e tenere spighe di grano.

Troviamo il grano in chicchi nei mezzetti[19], sulle teste di donne in processione. E’ trasformato in dolci per varie ricorrenze sacre, ancora sotto forma di pane è presente in vari riti cristiani, ed infine trionfa quotidianamente col pane sulla tavola  come sull’altare il corpo di Cristo.

A Greci , durante i funerali, sulla bara che esce dalla casa, ma anche sul cadavere, si usa buttare manciate di grano come augurio di rinascita spirituale, in sintonia col processo germinativo dei chicchi. Sempre a Greci, per il 2 novembre si prepara il “Cickuett” con grano e granone a chicchi interi, raccolti presso varie famiglie e messi a cuocere in una grande caldaia all’ingresso del cimitero. Questo cibo, misto a sale o zucchero o miele, è offerto ai visitatori e simbolicamente anche ai defunti.[20]

Sull’isola greca di Kalymnos ritroviamo lo stesso rituale. Il grano preparato per i funerali o per il giorno dei morti è detto Kollivo. Tale preparazione rientra nei costumi di tutta la Grecia ed è considerata uno dei momenti di maggiore comunione di tutta la famiglia.[21] Il Cickuett di Greci divenuto cicci cuotti[22] per gli Irpini, è un costume che i primi coloni importarono in Italia e seppero tramandare ai posteri.

Il grano, come elemento magico, rientra nei riti popolari di guarigione. Ad esempio, a Villanova per eliminare i puorri[23] bisogna raccogliere un numero di steli di grano pari alle verruche, tagliarli in modo da avere dei segmenti con un solo nodo centrale. Poi cercare un luogo fangoso dove piantarli singolarmente. Le verruche scompariranno quando gli steli saranno marciti, se però si ripassa da quel luogo si corre il rischio di riprendere la malattia.[24]

I racconti popolari trattano spesso del grano. (Tratto da “Miti e riti della Campania interna” Franca Molinaro, Rivista Storica del Sannio).

 

Dunque il grano era sacro, almeno fino a qualche tempo fa, quando il contadino non perdeva una spiga e non buttava una mollica di pane. Oggi i riti sono scomparsi, il grano è stato totalmente svalutato e il pane è buttato nella spazzatura. Eppure c’è ancora qualcuno che mantiene qualche tradizione, con mia grande gioia e sorpresa, oggi ho assistito le mie vicine che preparavano i “cicci” per Pasqua.

A Calvi Carmela e Antonietta Mottola, due giovani signore, ogni anno compiono un rito antichissimo e perpetuano l’antica costumanza. Ecco la ricetta:
I chicchi di grano duro sono messi a bagno per 24 ore, passato questo tempo se ne prendono poche manciate per volta, si inseriscono in una sacca di tela doppia, possibilmente di canapa bianca, si pone su una superficie resistente e inclinata e si inizia la battitura. Una donna versa l’acqua bollente e un’altra batte a lungo la sacca con una clava di legno. Dopo la battitura i chicchi sono stesi su una tavola di legno coperta da una tovaglia di canapa, qui vengono massaggiati a lungo per eliminare la crusca poi si lasciano asciugare. Una volta asciutto, il grano viene ventilato per eliminare ulteriore impurità poi viene lavato, messo in una capiente pentola e coperto con il doppio di acqua. Si approfitta del forno caldo dopo aver cotto il pane, per cuocere il grano. Il grano così cotto può essere messo in barattoli e conservato sotto vuoto per sei o sette mesi. Intanto per Pasqua questo grano viene condito con formaggio e uova, messo in tegamini e cotto in forno oppure utilizzato per fare la pastiera e il ripieno per i “casatielli”.

[1]Cfr.  E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 221.

[2] E.  DE MARTINO, Op. cit., p. 218.

[3] Geremia, 14, 1-6.

[4] Gioele, 1, 4-12.

[5] E. DE MARTINO, Op. cit., p. 215.

[6] E. DE MARTINO, Op. cit., p. 231.

[7] E. DE MARTINO, Op. cit., p. 232.

[8] A.M. DI NOLA,  Scritti rari, I. BELLOTTA (introduzione a), vol.I, Edizioni Amaltea, Rivista Abruzzese, Corfinio,  2000, p. 30.

[9] AA.VV., Dei e Miti, dizionario di mitologia, p. 34.

[10]  ARNOBIO, Adversus nationes, V, 5-7.

[11] A.M. Di Nola, Misteri Eleusini- I miti di Cibele e Attis, in Enciclopedia delle religioni, vol. II, pp. 152-153

[12] A. MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia, 1, 21

[13] ANGELA CERINOTTI, O.c., pp.12, 195

[14] A.A.  Nuova Enciclopedia Universale, A. Peruzzo Editore, Cremona 1976, vol. 9, p.2783.  Cfr. F. CARDINI  La cultura folklorica, a cura di, F. SALERNO Viaggi ad oriente della morte, i riti sacro-folklorici della settimana santa nell’Italia Meridionale.

[15] Deuteronomio, 16, 1-8 e Levitico, 23

[16] C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, Biblioteca del pensiero moderno, longanesi & C., Milano, 1980, p. 143.

[17] Cfr. E.De Martino, O.c.

[18] Matteo, 13, 1-9, 24-30. Marco, 4, 1-9. Luca, 8, 5-15.

[19] Tutti i termini dialettali sono accompagnati dalla nota di traduzione. Non c’è omogeneità di dialetto perché le interviste sono state fatte in diversi paesi con differenti sfumature linguistiche.

Mezzetto= Unità di misura per aridi corrispondente a 25 Kg. Può indicare anche una misura di superficie e corrisponde ad 1/6 di ettaro cioè a mezzo tommolo.

[20] PAOLA SILANO Pulcherino, terra, acqua e antichi sapori a Villanova del Battista. Delta3 Edizioni, Grottaminarda, 2004, p.22.

[21] A.A., Slow, Rivista Internazionale di Slow Food, anno VII, agosto-ottobre 2003, D. Sutton, Kollivo, p. 104

[22] Grano cotto.

[23] Verruche.

[24] PAOLA SILANO, O.c, p, p. 21.


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