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Le Maggiaiole di Sant’Andrea di Conza, Donato Cassese

LE MAGGIAIOLE, SANT’ANDREA DI CONZA (AV), Sabato 27 maggio 2023

Sant’Andrea di Conza, le cui origini risalgono all’alto medioevo, è un piccolo paese situato nella valle dell’Ofanto, sul contrafforte che divide la Campania dalla Basilicata.

Qui, sabato 27, si è rinnovata la festa della “Maggiaiole”, che affonda le sue radici in antiche feste del mese di maggio, anche se in tono minore. Esse sono giovanette, “pellegrine d’amore”, che in primavera vanno ad implorare la vergine per ottenere la grazia di trovare un buon fidanzato, poi marito, come premio alle loro virtù.

Con l’annuale pellegrinaggio al Santuario mariano, le pie ragazze di Sant’Andrea perpetuano un rito penitenziale, tramandato oralmente da un antica leggenda. Si racconta che la Madonna nottetempo e all’insaputa di tutti, sia scappata da Sant’Andrea per rifugiarsi nella Chiesa di Conza, città sede dell’omonima archidiocesi metropolitana. Riportata, con le buone e con la forza, a Sant’Andrea, la “Divina fuggitiva” sarebbe nuovamente approdata a Conza. Al secondo invito dei Santandreani a far ritorno “in patria”, la Madonna avrebbe così sentenziato:

“Ho stabilito di rimanere in questo tempio metropolitano e di volere che le ragazze di Sant’Andrea vengano qui ogni anno l’ultimo sabato di maggio. Verranno le mie predilette col capo coperto da un bianco fazzoletto sul quale appunteranno una corona fatta con rametti e acini di uva spina. Se con tutti i Santandreani sarò ancora e sempre “Madre di grazie” alle “verginelle” pellegrine farò la speciale grazia di far trovare un buon compagno per la vita”.

Il pellegrinaggio si ripete, da tempo immemorabile, nel rispetto dell’antico “patto”.

Fino al sisma del 1980, si teneva nell’antica Cattedrale, sita sulla “sacra” collina di Conza <ora parco archeologico>, ma, nonostante tutti gli eventi calamitosi, con il loro dolore e i loro lutti, il “sacro accordo” non e mai stato spezzato. Quindi, di buon mattino, verso le 9:00, le ragazze si sono riunite nella Chiesa Madre di Sant’Andrea di Conza.

La statua della Madonna del Rosario scortata dalle mamme, dai giovani, dal sindaco, dai carabinieri e dal parroco del paese  ha accompagnato il corteo fino alla periferia di Sant’Andrea, dove, nella Chiesa del Purgatorio, è rimasta in attesa del ritorno delle  ragazze da Conza della Campania, paese distante solo 4 chilometri.

Lungo la strada, le maggiaiole e le loro mamme hanno rievocato, con i loro canti, la storia della fuga e le promesse reciprocamente scambiate in un lontano giorno e annualmente rinverdite.

Alla periferia della ricostruita metropoli dell’Alta Irpinia, il pellegrinaggio è stato accolto con fraterna amicizia e festosa allegria; i Sindaci dei due Comuni, Gerardo Pompeo D’Angola e Raffaele Cantarella, e i Parroci, Mons. Donato Cassese e Don Piercarlo Donatiello, dopo lo scambio rispettivamente della fascia tricolore e della stola sacerdotale, in comunione di sentimenti e di civiltà, si sono recati, in processione, alla Cattedrale, santuario della Gaggia dove, durante la Santa Messa, l’arcivescovo Mons. Pasquale Cascio ha benedetto le fanciulle, augurando loro una felice unione, così come vuole la tradizione. Alla fine della funzione religiosa, l’arcivescovo ha evidenziato l’importanza di questa tradizione e ha invitato a recarsi presso la statua della Madonna il più anziano dei presenti, una donna ultracentenaria di Sant’Andrea di Conza, e il più giovane, una ragazza di due anni di Conza della Campania.

Il corteo si è ricomposto verso le 17:00 all’ingresso di Sant’Andrea, dove la Madonna del Rosario era rimasta ad attenderlo, e ha fatto ritorno nella Chiesa Madre.

Maggio Salesiano 2023- Firenze

Arte tra cielo e terra. (Franca Molinaro)
Anche quest’anno si è rinnovato l’appuntamento con l’arte per i Salesiani di Firenze, un appuntamento giunto ormai alla tredicesima edizione grazie all’impegno dei coniugi Radassao e D’Argenio. Il Maggio Salesiano è un mese di eventi tra arte, cultura, fede, organizzati dalla Parrocchia della Sacra Famiglia in Via Gioberti, nello storico istituto dell’Opera Salesiana. Dal 4 al 30 maggio si susseguono gli incontri con autori, artisti, giornalisti, uomini di fede. Non manca la notte bianca per il 25 cm, in cui restano aperte le botteghe, la strada si anima con giochi, musica e cena all’aperto. La mostra di pittura, allestita nei locali della libreria Gioberti, è aperta per tutto il mese. Gli artisti provengono soprattutto dalla Toscana ma non mancano altre regioni. Anche le tecniche sono diverse, vanno dalla terracotta all’olio su tela, l’acquerello, l’acrilico, il legno scolpito, la terracotta. Ogni anno i redattori della mostra propongono un tema ampio da poter spaziare agevolmente tra i soggetti, ma profondo, tanto da toccare le corde più intime dell’anima. Quest’anno il tema è “Arte, tra cielo e terra”, arte come collegamento tra materiale e spirituale, tra divino e umano, così ognuno ha colto quanto la sua sensibilità ha evocato, rendendo in materia cromatica o plastica la propria idea di congiunzione degli elementi, dato che, come scrive Don Andrea Marianelli, i due elementi non vanno contrapposti “poiché l’uno illumina l’altro”. Giovanni Serafini, giovane ma esperto Storico dell’Arte, vede nelle opere di questa mostra, preghiere che l’artista eleva al Signore, egli compie una sorta di ri-creazione dell’atto primordiale. Il titolo di Madrina della mostra è toccato a una grande donna del panorama culturale fiorentino, l’artista Mara Faggioli, fine pittrice, scultrice e poetessa, presente con la sua scultura in refrattario bianco “Solidarietà”.
Ed ora vediamo i partecipanti. Roberta Caprai presenta due opere ad olio su tela, dedicate alla natura, un Carpobrotus al balcone ed una marina al tramonto, ricordando che la bellezza è infinita tra le creature di Madre Terra.
Mauro Castellani si spinge oltre la materia che trasmuta se ad animarla è il figlio di Dio, così dipinge il trittico “La crocifissione in terra e il suo riflesso in cielo”.
Filippo Cianfanelli si presenta con due opere che riassumono la sua capacità di spaziare da una materia all’altra ottenendo sempre ottimi risultati. I “Papaveri” su tela mostrano l’abilità di maneggiare i colori in modo estemporaneo e pulito, mentre la ceramica su legno “Polvere di stelle” sottolinea la sua versatilità.
Per Carla Croci è l’icona bizantina che loda il valore della famiglia tra “Paternità” e “Annunciazione”, nell’antico solco della pittura preghiera dove la materia terra grava nei toni scuri mentre il cielo tramuta in oro, luce divina.
Adriana D’Argenio, sfruttando l’antica tecnica della tempera ad uovo reinventa i soggetti e li pone “Tra cielo e terra”, romantica  memoria di Friedrich, l’uomo che si misura con l’infinito,  o l’infuocata atmosfera dell’”Annunciazione” in cui la vergine costituisce il punto di incontro tra la materia e lo spirito.
Regina de Leon è una pittrice filippina residente a Firenze, propone, attraverso le sue due opere, i due stati del Cristo, il terreno “Questo è il mio corpo”, con la sua offerta simbolica che annuncia la transustanziazione, e il Cristo Re “Fedele e Veritiero”, condottiero delle milizie celesti.
Catia Funai presenta due acquerelli di eccellente fattura, in un’atmosfera vaporosa che confonde la solidità della terra e l’inconsistenza del cielo, “Neve”. In “Papaveri”, il rosso caldo dei fiori sposa il blu freddo e plumbeo del cielo grazie a una luce sapiente che giunge da un orizzonte lontano e indefinito.
Chiara Giannoni interpreta il tema attraverso due immagini fotografiche “Ostacoli” e “Yakamoz”, la prima è una rete che imbriglia lo spirito e lo trattiene, la seconda è la risoluzione del problema, l’anima libera può elevarsi ed espandersi, compenetrare l’immensità offerta dal cielo e dal mare, nei bagliori della luna. 
Carlo Gioia, ben noto per la sua ricerca affannosa del simbolo, dell’esoterico, della verità celata tra pieghe di reminiscenza e comuni archetipi, presenta “Senex”, il viandante che persegue la sua meta sostenuto da un bastone, e “Caino”, l’uomo che ha caricato su di sé la responsabilità dell’intera umanità.
Angela Giuliani Perugi è presidentessa di “Tabula Picta”, la scuola che recupera l’antica tecnica della tempera grassa. Presenta due opere, “Autunno 2022” in cui la bellezza del paesaggio, l’armonia dei colori, la tranquillità emanata dai due asinelli in primo piano, testimoniano la serenità della sua anima. La stessa quiete si legge in “Autoritratto”, nello sguardo, nel sorriso, nella luce calda del suo studio.
Maria Luisa Manzini propone due paesaggi addolciti dagli ulivi dei poggi toscani, “Luce” e “Silenzio”. I colori sono freddi e la tecnica, seppur olio su tela, rimanda all’acquerello, un morbido stemperarsi di toni distesi che invitano l’anima alla riflessione, all’introspezione.
Elena Migliorini presenta due oli su tela, “Nuovo tribunale” è l’imponente costruzione del Tribunale di Giustizia di Novoli, una struttura moderna che si staglia contro il cielo; “Pensieri” è una coppia stesa sul prato tra terra e cielo.
Elisabetta Paci dipinge un grazioso quadretto “Lo scoiattolo” il simpatico animaletto che trascorre la vita sospeso tra cielo e terra. “Ramo di ciliegio in vaso” è un olio di squisita fattura fiamminga dove fiori e vaso si illuminano di una morbida luce capace di rendere tutta la bellezza della composizione.
Maria Luisa Pedone omaggia tre amiche con i suoi ritratti: “Adriana”, “Elisabetta”, “Carla”, scegliendo l’antica tecnica della tempera ad uovo su tela.
Carmen Radassao attraverso le foto digitali “Inno alla vita” ricorda che la bellezza è anche su questa terra se la si sa guardare, nei tramonti, nelle foglie di banano, nelle piccole cose di Madre Natura.
Pier Nicola Ricciardelli dimostra come ogni tecnica può dare ottimi risultati avendone padronanza, in questo caso i ritratti a pastello colgono la briosa espressione di una fanciulla “Tra cielo e terra il sorriso di una bimba può essere arte” e il volto pensieroso di una donna “Dalla terra al cielo”.
Angelo Rizzone propone due marine, “Ischia (Cielo di pioggia verso il sereno) dove i fotogrammi illustrano il divenire del tempo atmosferico; “Orizzonte” è la linea che unisce cielo e terra regalando all’uomo e alle altre creature del pianeta, la vita.
Marina Rotriquenz presenta una tecnica mista di acquerelli e pastelli “La Neve” capace di creare un’atmosfera irreale, così come “Tra terra, cielo e acqua”, i giochi cromatici rimandano a una dimensione onirica, fluttuante tra i tre elementi.
Infine, la mia opera, “Tra cielo e terra, l’albero cosmico”, bassorilievo su multistrato a pirografo e mordente. L’albero è uno dei più importanti mitologemi universalmente riconosciuti. Le sue radici nel suolo profondo e i rami svettanti nell’azzurro del cielo sono visibilmente il collegamento tra cielo e terra. L’umanità tutta, nei quattro angoli del pianeta, lo ha eletto ad asse del mondo, una forza strutturale che sta al centro dell’Universo e mette in comunicazione l’alto e il basso, il mondo materiale e spirituale.
Infine, il catalogo della mostra in copertina porta un dipinto di Usayk Andrey “La mia Ucraina”, un campo di grano ed una mulattiera che termina all’orizzonte, una speranza per il futuro. Sicuramente l’Ucraina che vorremmo tutti, senza guerre fratricide, senza invasori e invasati, ma una terra dove ancora può crescere il grano e maturare tranquillo sotto l’azzurro del cielo per confermare i colori della bandiera.

Daniela Di Bartolo e la violacciocca di Melito

    franca molinaro
In questi giorni mi ha raggiunto una collega raccoglitrice proveniente dall’Abruzzo, una sorella potrei dire vista la corrispondenza spirituale, l’affinità di anime. Non poteva mancare una visita alla Mefite per presentarle la nostra Genista anxantica e farle fare un’immersione rigeneratrice tra gli effluvi del luogo. Daniela Di Bartolo è una donna che vive secondo natura, rispettando ogni filo d’erba, ascoltando ogni alito, ogni vibrazione, insegna questo suo sapere a chi è interessato ed è riuscita a creare una rete internazionale cui si affiliano coloro che credono nella filosofia della Grande Madre. È venuta in Irpinia invitata a portare la sua testimonianza e l’ultimo suo scritto: Res naturae, di erbe selvatiche magie e ben essere, Edizioni Ester. Così tra una presentazione e una passeggiata di riconoscimento ha avuto modo di esser mia ospite. Non capita tutti i giorni di incontrare anime affini e quando succede è un arricchimento garantito, così, un po’ per desiderio di migliorare le mie conoscenze, un po’ per passare qualche altra ora con lei, una domenica pomeriggio, con Benito siamo andati a Melito Irpino per partecipare a uno dei suoi eventi organizzato dalla Trattoria Di Pietro. Il pomeriggio sarebbe passato tra i campi, e un aperitivo per continuare a disquisire delle entità vegetali incontrate. Mai avrei immaginato che saremmo scesi al castello diroccato, sulla riva destra del fiume Ufita. E invece Decio ci ha condotto proprio là, in quel luogo magnifico scordato dall’uomo e dal tempo dove, anni fa, per la prima volta, incontrai Matthiola incana spontanea. Il castello medievale resiste ancora all’aggressione della natura che inevitabilmente riconquista i suoi spazi. Anche la chiesa, nel timpano porta ancora la dedica a Maria Addolorata. Ma le crepe nei muri, ricordo del terremoto del Sessantadue, si allargano sempre più e, per sicurezza, il comune lo ha recintato. Non so se è meglio che questo luogo resti così o se sarebbe opportuno un buon restauro in vista dell’arrivo dell’Alta Velocità. La stazione, in questa magnifica valle è sicuramente opportunità di sviluppo per i paesi limitrofi ma è anche invasione di uno spazio selvaggio, poco antropizzato e quasi pulito dove la biodiversità può essere ancora riscontrata da chi vi si spinge ad erborizzare. Così, con l’emozione dei bambini che vanno a fare la passeggiata con la maestra, ci incamminiamo tra il verde; nel gruppo c’è Jacopo, un ragazzo di Fontanarosa, mi attrae per un magnifico cestino che porta con sé, una sezione di sfera realizzata con fusti di Clematis vitalba, un modello mai visto che il ragazzo ha appreso da un anziano del suo paese. Strada facendo penso che non potrò vedere la violacciocca fiorita dato che è ancora marzo, ma arrivata sul luogo la individuo immediatamente sul muro scalcinato della torre, è una macchia violetta che scolora nel pulviscolo del tramonto. Daniela decide che dobbiamo onorarla e visitarla per prima ma non possiamo raggiungerla da quel lato così ci attardiamo disquisendo delle erbe che incontriamo suscitando l’attenzione del gruppo. Lei racconta le sue esperienze e quelle degli avi, le piante sono delle amiche di cui ricordi il luogo dove le hai conosciute la prima volta, ne sai il carattere e i loro tempi biologici, soprattutto sono sorelle da cui si può ottenere tanto ma vanno rispettate. Daniela insegna tutto questo prima di pronunciare un complicato nome scientifico. Abbandono il gruppo sgattaiolando tra la barriera di accesso al castello e mi inoltro tra la vegetazione ruderale, la violacciocca è ovunque sulle mura, ma sul lato a Sud è molto più bella,  crea un miracoloso giardino verticale reso magico dalla pietra delle mura stonacate. Dietro di lei il cielo e la valle lontana col suo silenzio rotto solo da qualche fuoristrada. Raccolgo qualche seme dello scorso anno nella speranza di moltiplicarla nel mio giardino ma con poca probabilità perché le silique aperte mostrano solo semi vuoti, quelli fertili hanno già messo radici tra le fessure e nel pietrame fertilizzato dall’azoto delle deiezioni degli uccelli. È un’emozione indescrivibile vederla così florida, così vigorosa nel fogliame verde scuro e vellutata nei fiori, il profumo si diffonde intorno e attrae le api ronzanti e ubriache di nettare. Più in là, una piccola Ophrys difficile da identificare, si salva dai passi incauti, è così piccola che nessuno la nota e il fiore brunito, con il suo specchio riflettente fa pensare a un piccolo calabrone. Ci fermiamo ad osservarla commosse, non si finisce mai di scoprire, è una Ophrys passionis Sennen ex Devillers-Tersch. & Deviller scopro poi studiando.

Genista anxantica, ultimi successi – franca molinaro

Audentes fortuna iuvat 
Una dozzina di anni fa, studiando la flora irpina mi ritrovai a erborizzare nella Valle dell’Ansanto presso il bulicame della Mefite di Rocca San Felice. Quel luogo, com’è noto, è un habitat estremo a causa delle forti esalazioni di anidride carbonica, per questo è popolato da poche entità vegetali presenti a una certa distanza dal lago. Quella che mi colpì subito fu la larga fascia di “Cannuzza”, Phragmites australis, che circondava lo strapiombo. Allora non conoscevo le dinamiche del luogo e per questo mi lasciavo impressionare dal lugubre cartello che raffigurava la morte. Scesi però, oltre lo steccato perché notai dei piccoli arbusti malconci, mezzi secchi, quasi spinosi. Osservai attentamente per capire con chi mi stavo confrontando, feci le dovute foto e rincasai convinta che una ginestra sarebbe stata facilissima da identificare, bastava confrontarne i caratteri con tutte le specie presenti in Italia ed ottenere risposta. Non fu proprio così, nel febbraio 2011, iniziava un’avventura che mi ha condotta, con il gruppo della “Grande Madre”, per mille sentieri, a cercare individui simili di Genista, mi ha fatto contattare università, ricercatori e comuni appassionati. Non ci è mancato il supporto di ottime persone dall’Italia e dall’estero. Dopo lunghi studi sulla morfologia della Genista e su testi botanici dell’Ottocento e del primo Novecento, giungemmo alla conclusione che la ginestrella della mefite, chiamata da Tenore Genista anxantica e poi sinonimizzata in Genista tinctoria nel secolo scorso, doveva essere revisionata e protetta ad evitarne l’estinzione. Seguendo gli utili consigli tecnici e umani di Gianni Riva, un lombardo conosciuto nel forum dei botanici, e le istruzioni dell’Università di Ginevra inviateci come risposta alla nostra segnalazione, iniziammo a smuovere mari e monti per trovare ricercatori interessati alla pianta. Mi rivolsi anche a due storici uomini politici irpini molto influenti, uno parve interessarsi alla cosa citandomi in varie occasioni, l’altro dimenticò sul tavolo del ristorante la monografia della Genista che avevo appena pubblicato e gli avevo donato: “Genista anxantica Ten, proposta per elevazione a specie di una endemica senza carta di identità”. Compresi allora che dovevamo evitare queste categorie e rivolgerci agli scienziati.
Una serie di fortuite circostanze posero sul nostro cammino delle persone veramente speciali che finalmente presero a cuore la pianta: dott. Antonio Raschi, allora direttore dell’Istituto di Biometeorologia di Firenze già venuto più volte alla mefite in quanto esperto del fenomeno; dot. Giovanni Giuseppe Vendramin Direttore dell’Istituto di Bioscienze e Biorisorse, Divisione di Firenze; Matthew Haworth del CNR-IPSP Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante di Firenze, che aveva già pubblicato degli studi sull’Agrostis canina, la gramigna presente alla Mefite; proff.ssa Annalisa Santangelo, prof., prof.ssa Olga De Castro, dott. Emanuela Di Iorio, dell’Università degli studi Napoli Federico II; prof. Sandro Strumia dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. Dopo oltre tre anni di ricerca la dottoressa Di Iorio ha scritto le sue tesi sulla Genista, una tesi di laurea e di dottorato che si interessano della nostra piccolina. Intanto, hanno pubblicato l’articolo scritto dal gruppo di lavoro napoletano e la nostra Ginestrella è comparsa sul Botanical Journal of Linnean Society (https://doi.org/10.1093/botlinnean/boac052), una rinomata rivista botanica a livello internazionale. Nell’articolo è illustrato il luogo, le sue caratteristiche, le indagini di laboratorio genetiche eseguite su popolazioni di Genista tinctoria  limitrofe alla zona della Mefite e della popolazione di Genista presente all’interno della Mefite. Si rimarcano le differenze morfologiche tra le due entità, le stesse che colpirono me quando la incontrai la prima volta. Dai dati genetici ottenuti, i ricercatori hanno dedotto che la popolazione di Genista prossima al bulicame possa essere uno straordinario esempio di un processo di adattamento alle complesse condizioni ambientali in cui vive. Per poter sopravvivere in un ambiente così difficile ha dovuto modificare la propria biologia, da ciò, nel futuro si potranno apprendere molte cose interessanti. Gli autori chiudono l’articolo sottolineando il pericolo di estinzione della nostra Ginestrella: “Ad oggi, la Genista della Mefite è fortunata nel fatto che si è evoluta nel tollerare un tale ambiente estremo, poiché ciò ha limitato qualsiasi impatto antropogenico, anche se questa popolazione è tecnicamente ” estinta geneticamente” se si considera la piccola dimensione del censo. Inoltre la fragilità di questa popolazione è destinata a crescere col tempo, a causa dell’attenzione che il sito suscita sia dal punto di vista archeologico che industriale.

Quaresima 2023

Quaresima                                          franca molinaro
Mentre l’Italia raccoglie gli sconvenienti risultati di una propaganda bieca che promuove violenza e maleducazione, con tanto amore mi dedico alla potatura delle mie rose e confido loro che mai nessuno oserà calpestarle o strapparle le spine finché avrò un alito di vita. Mi consolo così dalla deriva indotta a questa gioventù senza dei ma solo idoli vuoti. Mi piace però sempre dare un’occhiata alle rassegne stampa dal mondo con la speranza di scovare da qualche parte un segno di coscienza in risveglio. Ma forse è meglio non farlo ad evitare di scoprire che l’abisso diventa sempre più prossimo. Yusuke Narita, un assistente di economia a Yale, ha proposto di mettere in atto il ‘seppuku’, un rituale imposto ai samurai che disonoravano il Paese, questo per combattere l’invecchiamento della popolazione. La notizia apparsa sul New York Times, afferma che l’eutanasia potrebbe diventare obbligatoria in futuro per facilitare alle giovani generazioni il successo negli affari, nella politica e in altri aspetti della società su cui la generazione più vecchia ha potere decisionale. Benissimo, quindi, due e più generazioni di antropologi non hanno capito nulla correndo inutilmente dietro ai vecchi per avere uno stralcio di intervista. In barba ad Hampâté Bâ allora, bruciamo tutte le biblioteche del mondo tanto quei giovani là sanno tutto il da farsi nella loro mente costruita ad arte nelle migliori scuole di formazione internazionale. Mi chiedo se si salverà mai l’umanità dalla totale dissacrazione dell’essere. E mentre mi pongo il doloroso interrogativo ripenso alla vecchina che la mattina delle ceneri girava per le vie imbrattate dal trascorso carnevale, recitando una serie infinita di rosari per ripulire il paese dai peccati commessi. Peccati di “trasgressione”, consistenti in mottetti e abbuffate di frittata e salsicce, mica i peccati moderni denominati “libertà”. Purtroppo quei criteri, che sembrano risolversi in digiuni e preghiera, ma che in realtà hanno radici ben più profonde anche del cattolicesimo stesso, oggi non hanno più ragione di esistere. Progresso e consumismo hanno eretto l’uomo a dio di se stesso, che senso può avere ancora una Quaresima di penitenza o di pentimento? Non abbiamo commesso nessun peccato, non dobbiamo pentirci di nulla, non è peccato desiderare tutto, anche l’impensabile, non è peccato uccidere se torna utile, affamare i deboli è normale, è normale abbandonare a se stessi coloro che hanno subito le conseguenze degli abusi sanitari, o addirittura insegnare il suicidio ai depressi, e magari in futuro diverremo parricidi. Ci siamo persi per le strade di questo mondo, quando non è molto chiaro, chiaro è che la responsabilità è tutta della nostra generazione, noi con un piede nel vecchio mondo di miseria e sacrifici, e con l’altro in un futuro che ci sembrava meraviglioso e libero. Buttammo dalla finestra le vecchie casse in noce e pure il corredo della nonna e tutti i suoi consigli, la sua infinita saggezza nata da millenni di sofferenza e rielaborazione, e comprammo bauli in cartone e alluminio, belli colorati; ce li consegnarono pieni di abbaglianti promesse, di un futuro igienico, felice, prospero, senza più quaresime, né peccati da scontare, senza diavoli e senza inferno, senza padroni e senza santi. Dentro non vi erano più le lamentazioni quaresimali che le donne cantavano nei campi mentre sarchiavano il grano, non vi era più il grano del sepolcro per Gesù Morto, antica reminiscenza di Adone; vi era un meme antico svuotato del suo valore atavico e rivestito di carta stagnola multicolore, l’uovo di Pasqua, specchietto per allodole stupide, sempre più abbacchiate dallo scintillio della modernità di plastica e dalla retorica d’occasione. Così oggi torna ancora la Quaresima ma senza pignata teseca, quaranta giorni come gli altri, con ogni ben di Dio sulla tavola a sfregio di chi non ha nulla, magari però digiuna se glielo suggerisce qualche dieta alla moda, magari qualcuno appende ancora la Pupa de Caraesema al balcone ma la compra dai Cinesi che non hanno idea di cosa sia, funziona e la producono. Eppure Madre Terra si appresta al risveglio, e sebbene in alcune parti del globo si mostra seriamente sconvolta, dalle nostre parti comincia a regalarci i primi scoppapiatti, Ranunculus ficaria, le prime margherite. Nei giardini impazza l’oro della mimosa che invano tenta di ricordare alle donne quanto è stata dura la strada percorsa e in quanto breve tempo, il nostro tempo ha dissacrato il santo tempio della vita.
Articolo pubblicato sul Quotidiano del Sud

Lo spazio ha depredato il tempo, di Salvatore Agueci

Riconquista del perduto: dell’essere sull’avere

   Viviamo in un’era in cui assistiamo a un capovolgimento di tutto ciò che è stato da sempre considerato “valore” e per il quale, chi è vissuto prima di noi, si è battuto fino alla perdita della propria fisicità. Siamo in un periodo storico nel quale i valori sono divenuti disvalori e viceversa. Chi non è capace di capovolgere il senso della vita e dare spazio a ciò che nobilita realmente l’uomo è ritenuto ”fesso”, da soccombere nella società “moderna”.

   Spazio e tempo, due realtà che ci appartengono profondamente, sono capovolti e hanno perso il loro significato originario. Il tempo, infatti, che indica profondità e interiorità, verticalità, metamorfosi, è stato assorbito dallo spazio che indica qualcosa di superficiale, immediato. È un processo che non può continuare con questo attaccamento poiché senza sbocco esistenziale. Il tempo deve prendere il suo posto di primato se vuole essere connaturato con l’essere umano, dotato di razionalità e capace di percepire una successione, un moto di eventi diversi. Aristotele lo definì un «movimento, secondo prima e poi», anche «numero di movimento celestiale» (appartenente al Primo Mobile e, quindi, la necessità di un tempo eterno, circolare nello Stagirita e nel mondo pagano, lineare in S. Agostino), elementi di progresso e di continuità ma non identificabili col movimento. Il tempo così non è definibile se non con queste categorie di prius et posterius perché non si può bloccare e fotografare: scorre inesorabilmente e nel momento in cui lo fissiamo è già andato.

   La “percezione del tempo e il suo trascorrere” nascono dalla coscienza umana la quale caratterizza i fenomeni e i cambiamenti materiali e spaziali dell’esperienza. Tutto ciò, infatti, che esite ed è corruttibile appartiene al tempo e da esso è misurato, compreso lo spazio, in cui si trova.

   Il tempo, a sua volta, si avvale della ragione e della conoscenza, della capacità di trasmettere ciò che è stato fatto in precedenza per proiettarlo nel futuro, preparando le nuove generazioni a un processo senza fine. Il tempo diventa estrazione nella storia, al fine di trovare gli strumenti per gli approfondimenti presenti e sollecitare a dare senso all’impossibile.

   È nella percezione del tempo che si colgono i valori del loro corretto utilizzo e si riconosce lo spreco del non impiego. Tra le abilità che lo caratterizzano troviamo lo scavo interiore, nel soggetto e in ogni animo umano, fino al punto da scoprire, in un processo arricchente, l’essenza stessa dell’essere: i propri limiti e l’impossibilità di raggiungere traguardi senza la forza di Qualcuno. Scopriamo l’utilità del correlarci, attraverso il dialogo, l’empatia ed entrare in comunione con l’interlocutore. Per fare ciò il tempo utilizza la meditazione, l’intuizione e la parola come veicolo della trasformazione.

   Nel tempo è importante usare bene l’attesa, non come otium ma speranza nel divenire, nel cambiamento possibile: «La speranza – afferma Robert Ingersoll – è l’unica ape che fa il miele senza fiori».  E San Paolo non pone un limite ad essa affermando che bisogna sperare contro la stessa speranza, anche quando sembra non esserci alcuna possibilità.

   Il tempo, in quanto nasce con la creazione, ma la sovrasta, è illimitato, eterno. Esso opera attraverso la costruzione che può essere in un tempo spaziale o dimensionale. È la stessa trasformazione che dà origine al tempo, come afferma la filosofia occidentale.

   Lo spazio è il luogo disponibile ad accogliere qualsiasi corpo dotato di una tridimensionalità. Esso, da solo è statico e si pone come immobile, limitato. È oggetto di distruzione; da solo è un bene che appartiene al soggetto o alla comunità, ma sempre deperibile. Se nello spazio, e in ciò che contiene, l’uomo non imprime parte del proprio humus e non riesce a trasferire alla materia quell’elemento che facilita la sublimazione, quel bene è e rimane vuoto di senso.

   Necessita allora che sappiamo cogliere lo spazio temporale per coniugarli in un divenire di salvezza. Che non scindiamo l’essere dall’avere, anzi finalizziamo quest’ultimo a un maggiore arricchimento dell’essere. Occorre che cogliamo il Carpe diem di Orazio come un impegno costante senza sprecare ogni minuto dell’esistenza. Scriveva E. Levinas: «La dialettica del tempo è la dialettica stessa della relazione con gli altri», quella che ci permette di attendere con pazienza i tempi di ciascuno e cogliere sempre più la verità e la bellezza dei momenti che ci sono dati. Ancora: è il rapporto con il “Tu” vissuto nella gratuità che qualifica il tempo e lo fa diventare inestimabile, conferendogli una dimensione di eternità.

   Bisogna fare in modo che il tempo da chrónos, il defluire del tempo oggettivo, misurato dagli orologi, diventi kairós, ripieno di contenuti delle nostre giornate. Il primo è vuoto, costellato al massimo da ciò che è nello spazio, effimero, indica di fatto il “dove”, il secondo indica il “come”, la pienezza, ciò che riempie il vissuto dell’uomo, lo modifica e lo prepara arricchendolo. Il primo, ci fa essere creature dello spazio, il secondo ci prepara alla salvezza. Il kairós diviene così partecipazione anticipata dell’eternità di Dio.

   Erice, 06 dicembre 2022                                                                           

Addio a Gerardino Lardieri, menestrello d’Irpinia

Al San Bernardino, Lioni

Il 2022 si è manifestato come l’anno della morte, e non mi riferisco alle tante dipartite improvvise e inspiegabili che stanno flagellando mezzo mondo, nemmeno alle vittime dei conflitti bellici, mi riferisco proprio alla nostra Irpinia, in modo particolare al pantheon culturale che da anni anima i nostri territori. Almeno una volta al mese mi ritrovo a dover scrivere di quell’amico che ci ha lasciato, quello scrittore, quel ricercatore, quell’artista. È come se il tasso di mortalità avesse alzato l’asticella in questo maledettissimo anno, proprio qui nella nostra provincia. La scorsa settimana ci ha lasciato Gerardo Lardieri da Teora, ben noto a quanti si occupano di ricerca etnomusicale. Teorese di nascita e di indole, Gerardo era geometra di professione, artista e militante attivo, cittadino irpino per scelta. Impegnato nella promozione e difesa della cultura, spaziando in vari campi riconducibili alla valorizzazione del territorio. Nel suo profilo fb scriveva “Orientamento politico: la mia politica è l’attenzione quotidiana all’essere umano”. Aveva intensificato la ricerca etnomusicale dopo il terremoto dell’Ottanta, ben consapevole che quello spartiacque avesse sotterrato con la sua gente anche la sua poesia popolare e le sue sonorità.

Amava i Giovani. Con Daniela Vigliotta e Andrea Palermo

Lo conobbi a Vallesaccarda, ad un informale raduno di musica popolare organizzato da Franco Archidiacono allora vicesindaco; mi colpì subito il timbro della sua voce, limpida come una sorgente di montagna; mi affascinò il suono della chitarra, compagna indiscussa della sua vita, mai invadente, mai prevaricante, ma semplicemente in armonia col suo canto. Mi dedicò subito una “Villanella”, spiegandomi poi che la sua ricerca lo aveva portato indietro nel Seicento napoletano, dove aveva individuato un prototipo di questo canto. Ancora mi vibra nel cuore la melodia “Villanella che a l’acqua vai, i’ moro’ pe te e tu no’ lo ssai (…) Quanno vai co’ la lancella, pari riggina ma si’ villanella”. Quella sera a Vallesaccarda fu subito intesa, gli donai la mia antologia di canti popolari “Frammenti canori della civiltà irpina” e gli strappai una promessa di rivederci, in quell’occasione con lui c’erano i suoi migliori amici, Emidio e Salvatore. Da allora di cose insieme ne abbiamo fatte, la più divertente sicuramente fu la ricerca del rafano, Armoracia rusticana; a Teora lo mettono nelle tomacelle, ed affermano che nasce spontaneo nel loro territorio. La cosa mi parve interessantissima perché non è contemplato nel database della flora campana, così costrinsi Gerardo ad accompagnarmi per boschi e vigne sulle tracce del Rafano, non senza un risolino ammiccante dei funzionari del comune. Alla fine, l’unico rafano che trovammo nasceva nelle aiuole delle casette in legno del terremoto, impiantato dai Teoresi. Ancora ci spingemmo ad erborizzare a Castelnuovo di Conza dove andammo ad incontrare più volte un anziano signore, Carmine Tobia, dalla lunga esperienza etnobotanica. Carmine ci invitò poi alla festa dei suoi novant’anni a Oliveto Citra, e lì feci la tremenda esperienza della “Tarantella batticulo”. Gerardo fu tra i fondatori del Centro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre”.

Serate teoresi

Lui era l’anima bella, la voce armoniosa, sempre pronto a risolvere ogni diverbio tecnico o ideologico. Non si crucciava dei chilometri da percorrere per raggiungerci e poi, a fine serata, tra vino e cibarie, ci rallegrava coi suoi canti. Le sue ricerche, le interviste alla moglie Giuseppina che mi permise di scrivere un capitolo delle mie “Presenze” grazie alle sue testimonianze, mi fecero innamorare di Teora, la martire del terremoto e della modernità. Con me trascinai tanti amici anche poco propensi a valicare l’Appennino ma poi entusiasti a loro volta del calore, dell’ospitalità che Gerardino ci riservava. Il primo anno che andammo a Teora per “La notte delle serenate” ci organizzammo in comitiva ma non valutammo il clima “appenninico”, così per riscaldarci ci sedemmo tutti vicini condividendo lo scialle di qualcuna più previdente. Un anno mi coinvolsero per interpretare la parte della “zia paciera”, sorella di un padre geloso, un istrionico Emidio Natalino De Rogatis in camicia da notte e cuffietta; mai fatto teatro in vita mia, improvvisai tutto ma ci venne così bene che facemmo ridere tutta la piazza.

A Calvi per il Raduno delle Voci popolari Irpine

Per “Le Ricorrenze della Grande Madre” rispolverammo la festa della Croce con il beneplacito del sindaco Farina che si unì a noi con semplicità tra fiori di campo e arbusti di querce, sempre accompagnati dalla chitarra di Gerardo e dall’organetto dei bravi musicisti teoresi. Grazie a lui portammo il Concorso internazionale “Echi di poesia dialettale” sul palco delle serenate: Gerardo scrisse lo spartito per la poesia d’amore più bella e la interpretò per la gioia dell’autore pugliese Francesco Antonio Marini. sempre insieme a lui e al sindaco Farina, attribuimmo il premio alla memoria a un Teorese illustre ma bistrattato dai posteri, don Salvatore Nittoli.

Festival delle Serenate, con Francesco Antonio Marini, Yvonne Scherken e Felice Barletta della Grande Madre

Gerardo non mancò ad una serata al Salotto letterario del San Bernardino a Lioni, ai Raduni annuali dei Poeti dialettali e a tutti gli eventi organizzati dalla Grande Madre; con Daniela Vigliotta spianavano ogni malumore appena iniziavano a suonare. Anche i poeti più altezzosi si scioglievano e portavano il ritmo battendo il piede. Grazie a Gerardo il circuito della Grande Madre si allargò acquistando nuovi validi collaboratori come Nicola Guarino, fine poeta e pittore teorese, ma non solo, la sua amicizia spontanea era contagiosa e dove si annidava covava la gioia. A guardare indietro non posso pensare che ora Gerardo non c’è più, non posso credere che possano esser finite le lunghe telefonate in cui ci interrogavamo sul senso profondo della vita. Lui sapeva sempre dare una risposta confortante, la sua fede era ferrea, era sicuro che lassù un buon padre ci aiutasse a superare ogni difficoltà e ci infondesse forza. Il suo avvocato in paradiso era San Gerardo, per lui cantava tutte le domeniche, lasciando che la voce si perdesse nella strana cappella nuova del santuario. La prima volta che visitai il luogo fu proprio lui ad accompagnarmi spiegandomi ogni particolare. Quando poi aprirono l’urna con le ossa del santo, lui fece per me un gesto bellissimo, sul cranio di San Gerardo appoggiò un fazzoletto, poi me lo diede, allora, come adesso, combattevo con una ulcera da radioterapia dolorosissima, mi raccomandò di portare quel fazzoletto sempre con me.

Serate teoresi

Gerardo era amato nell’ambiente del santuario, era amato nelle associazioni cui apparteneva, era amato da tutti, lo dimostrò la chiesa piena di gente venuta da diversi luoghi per il suo funerale, lo dimostrarono le persone che piangevano, l’omelia del celebrante. Non poteva essere diversamente, ricostruendo una breve biografia ci rendiamo conto di quanto ha lavorato nel sociale. Dagli inizi degli anni Settanta fino alla sua dipartita è stato frontman, tastiere e voce del gruppo musicale “I Volsci”. Tra il 1980-2010 è stato primo tenore in corali parrocchiali e diocesana. Dal 2000 al 2015 ha fatto parte del gruppo di canti popolari I Menestrelli di Teora. Nel 2003 incise Canti popolari teoresi, promosso da Voci da Teora. Dal 2010 è stato organista e direttore della Corale di Materdomini. Dal 2000 è stato socio “Associazione Culturale Circolo Libero Pensiero “Giordano Bruno”, socio fondatore del Centro di ricerca tradizioni popolari “La Grande Madre”. Negli anni ’90 è stato Presidente dell’Azione Cattolica; tra il 1990 e il 2000 della Caritas Diocesana. A metà anni ’90 fu volontariato a Chernobyl, nel 1997 per il terremoto in Umbria, nel 1998 per l’alluvione a Sarno. Nel 2000 è stato fiduciario condotta Slow Food Alta Irpinia; tra la fine degli anni ’90 e il 2005 è stato Vicedirettore/Coordinatore di Redazione di “Voci da Teora”, periodico di cultura e informazione. Nel 2003 fino al 2018, ideatore e Direttore Artistico del “Festival delle Serenate” nell’ambito del progetto “Teora Terra di Serenate”. Con la dipartita di Gerardo abbiamo perduto tutti qualcosa, è come se un pezzo di noi se ne fosse andato per sempre pur avendo impressa nei ricordi la sua magnifica voce. Mi auguro che la sua Teora trovi il modo appropriato per ricordarlo negli anni a venire, magari là, nella piazzetta delle serenate, insieme ai due innamorati marmorei.

Il dono, di Margherita Tirelli

    IL DONO

Nottetempo si chinò per sollevare il coperchio della madia e, con la solita premura, esaminò a lungo il morbido impasto lievitato. Gli occhi di nonna Francesca , di un azzurro chiaro, si rischiararono ancora di più  e, tra la folla dei pensieri, si riservò un accenno di benedizione sul prezioso composto sfiorandolo con le mani che sapevano di terra. Concluse il rituale con un fugace segno di croce. Sarebbe diventato il pane dei giorni a venire.                                              
Ora che la giusta luce dell’alba rischiarava il cielo, bisognava dar conto al tempo che non doveva mai essere perso. Il seguito di quel lavoro era affidato a Stella, la primogenita appena adolescente, garante del forno a legna e della buona riuscita del pane. Quella mattina, seppure infreddoliti e ancora assonnati, Matilde ed Ernesto,i due fratelli più piccoli, erano già in piedi e operosi; anch’essi ,investiti della responsabilità dei piccoli cesti con il lievitato, seguivano le istruzioni della sorella maggiore senza batter ciglio. Erano entrambi vicini di età e di temperamento e si sentivano accomunati da un forte legame di complicità.                             
Mentre gli adulti erano già nei campi, le porzioni di impasto venivano infornate e trasformate in pane; capienti canestri di salice accoglievano infine tutta quella grazia di Dio. Ma il rito finale, la cottura dei morzelletti,era la tacita aspettativa del piccolo Ernesto, una indiscutibile consuetudine piacevolmente contemplata anche dalle sorelle. Con vigore e con sapiente abilità Stella accelerava il ritmo dei movimenti sfornando e dispensando  biscotti che, ancora caldi, venivano delicatamente adagiati nella cesta dai due piccoli assistenti. E anche questa volta Ernesto riuscì a eludere gli occhi vigili della maggiore per assolvere al suo consueto e rischioso compito: con incosciente spontaneità racchiuse tra le mani i lembi estremi della sua maglia per assicurarne uno spazio concavo e, con lodevole destrezza, vi depose una dozzina di biscotti sottratti al cesto, mentre Stella era voltata verso il forno per pochi istanti. Sentì su di sé lo sguardo di disapprovazione  di Matilde  ma non se ne curò: come risposta le lanciò un innocente e rapido cenno scherzoso con gli occhi e pose l’indice sulle labbra,invitandola al silenzio. Nessuno più di Matilde riusciva a scavare nei pensieri nascosti del fratello. In un lampo Ernesto si dileguò dietro l’angolo dell’orto e scese di corsa lungo la mulattiera. Stavolta Matilde, seria e determinata, decise di seguire il piccolo ladro, con andatura spedita e cauta. Glielo imponeva la sua coscienza e non avrebbe tollerato ancora una volta quel furto inspiegabile; ormai disapprovazione e collera non conoscevano argini alla sua pazienza e comprensione. Sapeva che sarebbe stato difficile ristabilire quella fiducia che determinava l’essenza del loro legame fraterno, ma nonostante l’intenzione di fermarlo e di affrontarlo, volle dar conto al suo intuito e, con insolita fermezza, continuò la sua corsa a giusta distanza. Lo seguì con lo sguardo : Ernesto continuava a correre e a tenersi goffamente in equilibrio per via del dolce fardello che reggeva nella maglietta; si dirigeva verso ” Verdecaro”, il terreno di  famiglia, e con un salto scavalcò il bordo fatto di pietre e attraversò il morbido manto di erba alta che portava al piccolo tratturo e ai campi arati . Laggiù,tra i frutteti, sua madre e suo padre stavano lavorando. Matilde si fermò sul bordo in pietra e tirò il fiato. Pensò che di certo la corsa del fratello si sarebbe conclusa lì, tra l’erba alta dove, ben nascosto, avrebbe gustato, indisturbato, quei deliziosi biscotti. Lo seguì con lo sguardo e, stupita si accorse che, al contrario, raggiungeva i genitori: dopo un breve scambio di battute , Ernesto raccolse in una mano un po’ di dolcetti dal suo piccolo grembo di lana e li offrì a suo padre e a sua madre. Dalla sua posizione la sorella osservò quella scena inaspettata, e ne percepì un innegabile sollievo che la rincuorò dalla sottile vergogna provata pochi momenti prima: notò che i suoi genitori esprimevano gioia e gratitudine a  quel  piccolo figlio che, di sua iniziativa e con nascosta consuetudine, assolveva a un dovere dettato solo dal cuore e alleviava la loro dura fatica nei campi col piacere di pochi biscotti. Quella volta tornarono insieme verso casa.  Il silenzio eloquente garantì il loro antico legame: la peculiarità di quel gesto semplice e profondo  era il contributo che Ernesto offriva  anche a Matilde.

Ricordando Alessandro Battaglino – franca molinaro

Maggio Salesiano 2016 – Firenze

In questo momento terribile di ansia, terrore, perdita di certezze, obblighi forzati, mancanza di chiarezza in ogni dove, sempre più giovani si perdono; diversi, qui da noi, in Irpinia, scelgono la via sconosciuta dell’aldilà piuttosto che identificarsi in una società sempre meno umana. Così abbiamo perduto un altro valoroso figlio, giovane, artista iperattivo, con grandi capacità tecniche valorizzate da una continua ricerca interiore. Alessandro Battaglino era uno scultore bravissimo, ma la sua arte non è bastata a riempirgli la vita, così, lasciando tutti attoniti, in settimana, si è tolto la vita nella sua casa di Villamaina. Lo conobbi anni fa, quando ero impegnata nello studio di Genista anxantica, la ginestra della mefite. Alessandro mi fu di gran sostegno nelle ricerche sul campo, insieme setacciammo il bosco e il terreno nei paraggi del bulicame per censire il numero di individui di Genista e capire un po’ meglio la vegetazione del luogo. Lui si entusiasmava ai miei studi e immaginava progetti per la valorizzazione del territorio, della ginestra e di Gussone che per primo la pose all’attenzione della scienza. Fu un periodo di grande impegno quello, in cui Alessandro entrò a far parte del “Centro di ricerca tradizioni popolari La Grande Madre”, apportò la sua vivacità e il suo prezioso contributo. Tra i vari lavori, scolpì una statuina della Grande Madre, una specie di “oscar” che consegnammo poi al vincitore del concorso “Echi di poesia dialettale”. La collaborazione tecnica per me fu un arricchimento, lui era bravissimo nella scultura e aveva gran competenza nella conoscenza ed utilizzo dei materiali. Amava l’onice da cui ricavava magnifiche pietre da incastonare o da usare come pendenti, ma ne faceva anche statuine di alto valore simbolico. Si emozionava, lungo il Vallone dei bagni, quando scopriva quelle pietre che definiva “paesine” e che ci mostrava con orgoglio stupendoci con il profilo netto del disegno raffigurante tante minuscole metropoli. Grazie a lui conoscemmo Benito Vertullo che entrò nel gruppo con la sua competenza di cameramen. Nel maggio del 2016 lo invitai a partecipare al “Maggio Salesiano”, un evento organizzato dai coniugi D’Argenio Radassao, a Firenze. Lui aveva scolpito, nel carrara bianchissimo, una mano semiaperta, “La mano di Dio”, accompagnata da un biglietto con scritta “toccare”, si proprio il contrario di quanto si raccomanda per le opere d’arte; occorreva toccare, porre la propria mano in quella di Dio per assaporarne le sensazioni, le vibrazioni. Ricordo la sua emozione nel ricevere, dalle mani di Eugenio Giani, presidente della regione Toscana, il premio per la partecipazione.  A ritorno da Firenze lui partì per un lavoro, doveva realizzare monumenti in cioccolato, mi mandò le foto di alcune opere, copie in scala del Colosseo, del Colonnato di San Pietro. In seguito se ne andò a Milano, lavorò come restauratore, ci perdemmo. Un giorno mi sentii chiamare alle spalle, mi voltai e me lo trovai di fronte, mi abbracciò quasi a stritolarmi. Parlammo poco con la promessa di rivederci presto ma arrivò la pandemia. Quando un giorno mi telefonò, perché voleva venire a farmi visita, io tergiversai, eravamo in apprensione per i contagi, era meglio rimandare. Non me lo perdonerò mai, avrei dovuto incontrarlo, ascoltare le sue confessioni come un tempo, forse aveva bisogno di parlare, ero stata sempre un po’ mamma con lui da che lo avevo conosciuto, ma fui egoista e pensai ad evitare occasioni di contagio. Alessandro non aveva la mamma, era morta quando era bambino, le mancava tanto questa figura che forse aveva ritrovato nella mia propensione ad accogliere tutti tra le braccia ed ascoltare ogni problema. Ma la pandemia ci ha divisi, ha spaccato la società, allontanato amici e conoscenti, creato diffidenze, così i più fragili pagano il prezzo più alto. Alessandro era sicuramente fragile, la sua ipercreatività lo rendeva vulnerabile, era uno spirito in cerca di verità, e le verità, a volte, fanno male.
Alessandro era nato a Gesualdo, paese cui era particolarmente legato ma si trasferì a Villamaina dove, la famiglia Montuori gli mise a disposizione una casetta con vista sulla Valle del Fredane. La casa comprendeva un giardino dove Alessandro aveva esposto delle opere e un locale sottostante, un tempo frantoio, dove aveva allestito un laboratorio di scultura. Era diplomato in scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, aveva un’ottima preparazione tecnica acquisita con gli studi ma non disdegnava di imparare da chiunque avesse un minimo senso artistico o una qualunque competenza. A Villamaina era il mezzo attraverso il quale i forestieri approcciavano il paese. Era lui ad avvicinarli e metterli a loro agio, poi li invitava a conoscere le persone che rientravano nella sua stima, così come i luoghi. Amava accompagnarsi soprattutto con persone colte e con spirito libero, costoro diventavano per lui figure di riferimento che elogiava con sincero affetto. Nel 2000 conobbe a Villamaina lo scultore scalpellino Vincenzo Caputo. Con lui approfondì la conoscenza della pietra locale e, nel 2003, per il parco Caputo Madonna dell’Antica, realizzò il Volto di Gesù. Sempre per questo luogo realizzò la pietra con le indicazioni del parco. Nel 2013 scolpì un monumento alla memoria di Carmine Capobianco, collocato sulla piazza del Santuario del Buonconsiglio a Frigento. Molto lavoro di scalpellino eseguì per “Le Conche”, il casale in pietra di Enzo Di Gianni, allora in ristrutturazione. A Di Gianni era legato, non solo da impegni lavorativi, ma da una profonda ammirazione, vedeva nell’architetto un visionario capace di concretizzare i propri sogni. Visionario era lui stesso, in grado di immaginare grandi progetti, capace anche di realizzarli con poco denaro e molto lavoro, senza aspettare incentivi da terzi, se solo avesse avuto l’aiuto di altri testardi volitivi. Ammirava noi della Grande Madre che lavoravamo duro senza sovvenzioni statali per il progetto grandioso del premio internazionale e diceva che con quel metodo si poteva fare di tutto. Il suo sogno era di realizzare qualcosa di importante per Villamaina, il paese che lo aveva adottato e che lo amava più della sua Gesualdo. Pensava sempre al concittadino Gussone, ed era convinto che sulla sua memoria si potevano costruire cose belle e valide, legate alla flora spontanea del luogo. Ma la passione più grande restava sempre la pietra, le pietre. Passavamo mattinate lungo il Vallone dei Bagni, ognuno dietro le sue ricerche, Benito con la sua attrezzatura fotografica, io dietro le piante, lui a spulciare tra le pietre a trovare quella buona per materializzare una sua idea. Si andava d’accordo perché per entrambi le pietre avevano un valore immenso, spirituale; maneggiarle o scolpirle era instaurare un rapporto profondo con la Madre Terra, un rapporto intimo e ancestrale che riannodava il gomitolo del tempo e congiungeva alle origini. Tornavamo poi dal fondo del burrone con le tasche piene di pietruzze o pezzi più grossi già destinati ad un progetto artistico. Dalle sue mani nascevano oggetti dalla profonda simbologia che rispondevano alle sue domande esistenziali.  Dal punto di vista stilistico, la sua ricerca artistica si concentrava sulla rappresentazione figurativa con una variante onirica e surrealista che rendeva unica ogni sua opera. Il suo spiccato eclettismo lo portava a sperimentare molti ambiti espressivi e altrettante tecniche, così dalla pietra passava ai materiali cementizi o alla pittura, il tutto sempre investito di quei moti profondi che muovevano il suo animo. Ora Alessandro non c’è più, ma la comunità di Villamaina lo vedrà ancora ogni giorno nelle opere che ha lasciato sparse per il paese, un artista è immortale perché continua a mostrarsi attraverso la sua arte, egli vivrà per sempre congiunto alla terra degli avi, la stessa che lui amava infinitamente e rispettava come Madre.

Addio a Emilio Mariani, poeta di Morra De Sanctis, franca molinaro


Il 13 febbraio è venuto a mancare, in quel di Morra De Sanctis, Emilio Mariani, fino ad oggi, unico valido rappresentante della poesia dialettale morrese. Mariani per noi che lo abbiamo stimato, apprezzato e amato filialmente, era affettuosamente zio Emilio, un educato signore d’altri tempi custode di memoria e valori, un monumento vivente per la piccola Morra, uno scrigno di ricchezza culturale e storica, una fonte di saggezza, come tutti gli anziani di quella civiltà che la modernità ha stritolato nelle sue spire viziose.  Mariani nacque a Morra de Sanctis il primo giugno del 1930, visse negli anni difficili della guerra e del dopoguerra, col dolore mai spento del fratello morto in Russia, a lui dedicò una poesia poi, negli anni maturi. Mariani è stato direttore dell’Ufficio postale del suo paese.  Sempre acceso dalla passione per la scrittura, si è fatto custode della cultura popolare morrese, del suo dialetto, riuscendo a pubblicare un consistente numero di pubblicazioni in cui ha trovato posto letteratura e ricerca. Negli anni dopo il sisma dell’Ottanta, l’evento che mutò il volto del territorio e scavò un solco profondo nell’animo degli Irpini, Mariani cominciò a diffondere il suo dialetto attraverso la Gazzetta dei Morresi Emigrati, fondata e diretta da Gerardo Di Pietro. Furono forse quei terribili momenti a fortificare la convinzione che occorreva un meticoloso lavoro di recupero sia in termini culturali che morali.  Sedici anni dopo il terremoto, Mariani pubblicava “Fiori di campo”, la prima silloge dialettale, per la Casa Editrice Menna (AV). Qui emergeva un poeta legato vivamente alla sua civiltà agreste, innamorato della sua Morra De Sanctis, Tu vidi quand’è bèllu stu paésu, / li buulardi, lu corsu e Santantuonu; / la téglia, San Roccu e lu spetalu, / canciéddru, li chiani e re pagliare… (Morra bèlla, da Fiori di campo),versi che rimandano all’altro grande poeta irpino di Nusco che, tre decenni prima, scriveva così: Quanta culuri pu’ questu ccampagnu…/ che pinnillatu rosa e blu-marè…/ Parunu nastri queru vviu sulagnu, / quir’uorti variupinti… che buchè! (Nuscu, paesu miu, Agostino Astrominica). I fiori di campo di Mariani avevano il profumo della primavera, aromi intensi, mai dimenticati, provenienti da quel passato prossimo oramai cancellato. Già in questa raccolta però, serpeggiava, oltre alla malinconia per la civiltà scomparsa, la coscienza di una umanità per lo più meschina, abbruttita dai tutti i suoi difetti. Il poeta, che sapeva esprimersi bene e con melodico lirismo anche nella lingua nazionale, nel 2007 pubblicava, con la stessa Casa Editrice Menna, Melodie vagabonde, una silloge che si differenziava per la scelta della lingua, ma conservava contenuti e valori morali. In questo caso, la scelta della lingua italiana permetteva raffinatezze stilistiche soprattutto nei numerosi temi d’amore. Passavano gli anni e Mariani continuava a scrivere poesie, a raccogliere storie e memorie, un lavoro meticoloso che lo ha consacrato sull’altare della memoria. Prima che tutto svaniva dai ricordi della sua generazione, il poeta moltiplicava i manoscritti e garantiva alla sua Morra un corredo culturale altrimenti scomparso. I versi che fanno di lui il Buttitta della poesia dialettale Morrese è una incitazione a riappropriarsi della lingua che amiamo definire “materna”: Pecchè te mitti scuornu / de parlà r’ dialettu? / Nui simu tutti figli de r’ latinu! / Simu nati sott’a la stessa cambana / e stu suonu / n’accombagna sera e matina! / Tu vuò spiccà l’italiano / e te ‘ngarpini dint’a li verbi / e re congiunzione…/ E lassa stà ‘mbaci la grammatica / re regule e la sintassa…/ E parla cumme t’è fattu mammeta / ca nisciuni t’appassa! (Parla cumme t’è fattu mammeta, da Li tiembi d’ tata Casa Editrice Menna).  Nella raccolta, Li tesori de mò Edizioni Delta 3, che ebbi piacere di introdurre, ricompariva un uomo spesso amareggiato dagli eventi, dal trasformarsi delle cose, un uomo a volte solo perché, nella società corrente non c’è posto per certo passato, per certe sensibilità o “romanticismi”, questa società ha un altro ritmo che mal sposa le menti riflessive, attente ai moti dell’anima, alla fede, alle piccole gioie quotidiane fatte di cose semplici, di fiori, di paesaggi, di amore. Il poeta, nel silenzio della sua anima rivedeva il passato con un briciolo di nostalgia, ma con crudo verismo. Riconosceva gli errori politici susseguiti dall’epoca dei “signori” agli attuali personaggi che hanno portato la nazione sull’orlo del baratro. Qua e là, qualche pennellata raccontava a volte di un amore, antico, abbandonato, o attuale e maturo, ma sempre con la freschezza giovanile che caratterizza da sempre le più belle poesie d’amore. La donna appariva, nell’opera di Mariani, con amarezza per le perdute virtù, egli non riconosceva nella donna moderna il modello di quella “antica”, saggia nelle sue privazioni e sofferenze, constatava i modi sfacciati di certe poddastre sfaccennate della modernità. Tutta la sua opera è pervasa di cose vere e buone ma perdute, egli era convinto di una degenerazione irreversibile.
Dal punto di vista etnografico, il lavoro di Mariani è stato di notevole interesse, vecchi usi, oggetti scomparsi e tradizioni, riaffiorano dai versi ridisegnando quella civiltà pre-sismica in cui sono stati sepolti. La nvèrta racconta di un costume che, fin ora, ho riscontrato solo in Morra. Il trentuno di dicembre, Pe salutà / l’annu nuóvu ca trasìja / s’accumingiava / da lu jórnu prima … / Viérsu l’ndinni / sunava la campana / e dìja lu via / a sta caccia paisana … ogni anno, quando la campana annuncia i vespri, il paese si anima stranamente, amici e innamorati sono protagonisti di questo strano rito che, sicuramente ha radici più antiche di quanto s’immagina. Li nnammurati / stiénne a l’érta / già dà la matina / pe vvéngi la nvèrta. … La tradizione del luogo vuole, ancora oggi, che chi per primo riesce a dare il messaggio augurale pronunciando il termine La nvèrta vince il pegno e chi riceve gli auguri lo paga volentieri. Mariani spiegava che il termine è riferito proprio al regalo cioè alla strenna natalizia. Ogni momento dell’anno ha i suoi riti e i suoi simboli, arriva il Carnevale con gli eccessi e, a compensarlo segue la quaresima, ovvero, nella tradizione popolare, sua moglie. Il poeta spiegava che Cumm’ a totte / r’ femmene attenènde / quarandana ogni annu s’ lamenda … e … cu la lana e lu fusu / è custretta apparàne i debiti e i pasticci fatti dal consorte sciagurato Carnualu (La mbreia de Carnualu).
Raccontare di una strada, un mestiere, un rito antico e sacro è conservare quel legame solido con la Grande Madre, è mantenere quello scambio energetico che oggi si cerca in tante mode senza considerare che i nostri antenati, con semplicità e senza veli di mistero, praticavano come loro modus vivendi. Questa saggezza emerge dagli scritti di Mariani, forse l’ultimo poeta di una generazione di querce, le ultime, dopo di che c’è il bosco ceduo, solo fuscelli esili in balia delle bufere. Ancora, nel 2016 pubblicava Luci di cumèta e Quegli antichi lunghi dialoghi, Più di cento più di mille nel 2018. Mariani è stato Accademico di diversi sodalizi nazionali tra cui: Arte in cammino, San Marco, Lucania filatelica club, Accademia del Perseo. Sue poesie sono state pubblicate dall’Accademia Internazionale A. Grassi, dall’Associazione Nostra Spezia, Cilento poesie, Nuovi Orizzonti, Edizioni Acc. San Marco, Edizioni Presenza, Il Richiamo Foggia, Poeti Irpini nella Letteratura Nazionale e provinciale-Accademia Partenopea, Tempi nostri Ed. Arte Cultura, Echi di poesia dialettale, Echi di Tradizioni, e altre. È stato inserito nel Dizionario Artisti e Scrittori Contemporanei 1989 e in diversi giornali e riviste.


Mariani ha lasciato inedite oltre 300 poesie, più di 200 canti morresi e 300 proverbi. In tutta la sua produzione recente gli è stato vicino Donato Cassese di Sant’Andrea di Conza a lui legato da grande affetto, la sua esperienza nella ricerca storica locale, la dimestichezza col dialetto e le moderne attrezzature elettroniche sono state indispensabili per portare alla luce le molte pubblicazioni. Con Donato, alla presentazione di un suo libro, sollecitammo la raccolta di canti popolari, un lavoro che andava assolutamente fatto, magari col nostro sostegno tecnico. Ci promise che l’avrebbe messo in cantiere e ci raccontò con orgoglio un aneddoto: quando era bambino, mentre spigolava udì il canto di una donna e si fermò incantato, la madre lo riprese ma lui memorizzò quelle parole: Canta calndredda hoi canta canta, ‘n’cima a ‘na spina fai cande r’amore, li chiama li mitituri tutti quanti, sciam’a mangiane ch’è passata l’ora. È questo il primo verso che Mariani aveva annotato tra gli appunti. Vogliamo augurarci che questi appunti non vadano perduti. (Il Quotidiano del Sud, Domenica 20/02/22)