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Addio a Emilio Mariani, poeta di Morra De Sanctis, franca molinaro

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Il 13 febbraio è venuto a mancare, in quel di Morra De Sanctis, Emilio Mariani, fino ad oggi, unico valido rappresentante della poesia dialettale morrese. Mariani per noi che lo abbiamo stimato, apprezzato e amato filialmente, era affettuosamente zio Emilio, un educato signore d’altri tempi custode di memoria e valori, un monumento vivente per la piccola Morra, uno scrigno di ricchezza culturale e storica, una fonte di saggezza, come tutti gli anziani di quella civiltà che la modernità ha stritolato nelle sue spire viziose.  Mariani nacque a Morra de Sanctis il primo giugno del 1930, visse negli anni difficili della guerra e del dopoguerra, col dolore mai spento del fratello morto in Russia, a lui dedicò una poesia poi, negli anni maturi. Mariani è stato direttore dell’Ufficio postale del suo paese.  Sempre acceso dalla passione per la scrittura, si è fatto custode della cultura popolare morrese, del suo dialetto, riuscendo a pubblicare un consistente numero di pubblicazioni in cui ha trovato posto letteratura e ricerca. Negli anni dopo il sisma dell’Ottanta, l’evento che mutò il volto del territorio e scavò un solco profondo nell’animo degli Irpini, Mariani cominciò a diffondere il suo dialetto attraverso la Gazzetta dei Morresi Emigrati, fondata e diretta da Gerardo Di Pietro. Furono forse quei terribili momenti a fortificare la convinzione che occorreva un meticoloso lavoro di recupero sia in termini culturali che morali.  Sedici anni dopo il terremoto, Mariani pubblicava “Fiori di campo”, la prima silloge dialettale, per la Casa Editrice Menna (AV). Qui emergeva un poeta legato vivamente alla sua civiltà agreste, innamorato della sua Morra De Sanctis, Tu vidi quand’è bèllu stu paésu, / li buulardi, lu corsu e Santantuonu; / la téglia, San Roccu e lu spetalu, / canciéddru, li chiani e re pagliare… (Morra bèlla, da Fiori di campo),versi che rimandano all’altro grande poeta irpino di Nusco che, tre decenni prima, scriveva così: Quanta culuri pu’ questu ccampagnu…/ che pinnillatu rosa e blu-marè…/ Parunu nastri queru vviu sulagnu, / quir’uorti variupinti… che buchè! (Nuscu, paesu miu, Agostino Astrominica). I fiori di campo di Mariani avevano il profumo della primavera, aromi intensi, mai dimenticati, provenienti da quel passato prossimo oramai cancellato. Già in questa raccolta però, serpeggiava, oltre alla malinconia per la civiltà scomparsa, la coscienza di una umanità per lo più meschina, abbruttita dai tutti i suoi difetti. Il poeta, che sapeva esprimersi bene e con melodico lirismo anche nella lingua nazionale, nel 2007 pubblicava, con la stessa Casa Editrice Menna, Melodie vagabonde, una silloge che si differenziava per la scelta della lingua, ma conservava contenuti e valori morali. In questo caso, la scelta della lingua italiana permetteva raffinatezze stilistiche soprattutto nei numerosi temi d’amore. Passavano gli anni e Mariani continuava a scrivere poesie, a raccogliere storie e memorie, un lavoro meticoloso che lo ha consacrato sull’altare della memoria. Prima che tutto svaniva dai ricordi della sua generazione, il poeta moltiplicava i manoscritti e garantiva alla sua Morra un corredo culturale altrimenti scomparso. I versi che fanno di lui il Buttitta della poesia dialettale Morrese è una incitazione a riappropriarsi della lingua che amiamo definire “materna”: Pecchè te mitti scuornu / de parlà r’ dialettu? / Nui simu tutti figli de r’ latinu! / Simu nati sott’a la stessa cambana / e stu suonu / n’accombagna sera e matina! / Tu vuò spiccà l’italiano / e te ‘ngarpini dint’a li verbi / e re congiunzione…/ E lassa stà ‘mbaci la grammatica / re regule e la sintassa…/ E parla cumme t’è fattu mammeta / ca nisciuni t’appassa! (Parla cumme t’è fattu mammeta, da Li tiembi d’ tata Casa Editrice Menna).  Nella raccolta, Li tesori de mò Edizioni Delta 3, che ebbi piacere di introdurre, ricompariva un uomo spesso amareggiato dagli eventi, dal trasformarsi delle cose, un uomo a volte solo perché, nella società corrente non c’è posto per certo passato, per certe sensibilità o “romanticismi”, questa società ha un altro ritmo che mal sposa le menti riflessive, attente ai moti dell’anima, alla fede, alle piccole gioie quotidiane fatte di cose semplici, di fiori, di paesaggi, di amore. Il poeta, nel silenzio della sua anima rivedeva il passato con un briciolo di nostalgia, ma con crudo verismo. Riconosceva gli errori politici susseguiti dall’epoca dei “signori” agli attuali personaggi che hanno portato la nazione sull’orlo del baratro. Qua e là, qualche pennellata raccontava a volte di un amore, antico, abbandonato, o attuale e maturo, ma sempre con la freschezza giovanile che caratterizza da sempre le più belle poesie d’amore. La donna appariva, nell’opera di Mariani, con amarezza per le perdute virtù, egli non riconosceva nella donna moderna il modello di quella “antica”, saggia nelle sue privazioni e sofferenze, constatava i modi sfacciati di certe poddastre sfaccennate della modernità. Tutta la sua opera è pervasa di cose vere e buone ma perdute, egli era convinto di una degenerazione irreversibile.
Dal punto di vista etnografico, il lavoro di Mariani è stato di notevole interesse, vecchi usi, oggetti scomparsi e tradizioni, riaffiorano dai versi ridisegnando quella civiltà pre-sismica in cui sono stati sepolti. La nvèrta racconta di un costume che, fin ora, ho riscontrato solo in Morra. Il trentuno di dicembre, Pe salutà / l’annu nuóvu ca trasìja / s’accumingiava / da lu jórnu prima … / Viérsu l’ndinni / sunava la campana / e dìja lu via / a sta caccia paisana … ogni anno, quando la campana annuncia i vespri, il paese si anima stranamente, amici e innamorati sono protagonisti di questo strano rito che, sicuramente ha radici più antiche di quanto s’immagina. Li nnammurati / stiénne a l’érta / già dà la matina / pe vvéngi la nvèrta. … La tradizione del luogo vuole, ancora oggi, che chi per primo riesce a dare il messaggio augurale pronunciando il termine La nvèrta vince il pegno e chi riceve gli auguri lo paga volentieri. Mariani spiegava che il termine è riferito proprio al regalo cioè alla strenna natalizia. Ogni momento dell’anno ha i suoi riti e i suoi simboli, arriva il Carnevale con gli eccessi e, a compensarlo segue la quaresima, ovvero, nella tradizione popolare, sua moglie. Il poeta spiegava che Cumm’ a totte / r’ femmene attenènde / quarandana ogni annu s’ lamenda … e … cu la lana e lu fusu / è custretta apparàne i debiti e i pasticci fatti dal consorte sciagurato Carnualu (La mbreia de Carnualu).
Raccontare di una strada, un mestiere, un rito antico e sacro è conservare quel legame solido con la Grande Madre, è mantenere quello scambio energetico che oggi si cerca in tante mode senza considerare che i nostri antenati, con semplicità e senza veli di mistero, praticavano come loro modus vivendi. Questa saggezza emerge dagli scritti di Mariani, forse l’ultimo poeta di una generazione di querce, le ultime, dopo di che c’è il bosco ceduo, solo fuscelli esili in balia delle bufere. Ancora, nel 2016 pubblicava Luci di cumèta e Quegli antichi lunghi dialoghi, Più di cento più di mille nel 2018. Mariani è stato Accademico di diversi sodalizi nazionali tra cui: Arte in cammino, San Marco, Lucania filatelica club, Accademia del Perseo. Sue poesie sono state pubblicate dall’Accademia Internazionale A. Grassi, dall’Associazione Nostra Spezia, Cilento poesie, Nuovi Orizzonti, Edizioni Acc. San Marco, Edizioni Presenza, Il Richiamo Foggia, Poeti Irpini nella Letteratura Nazionale e provinciale-Accademia Partenopea, Tempi nostri Ed. Arte Cultura, Echi di poesia dialettale, Echi di Tradizioni, e altre. È stato inserito nel Dizionario Artisti e Scrittori Contemporanei 1989 e in diversi giornali e riviste.


Mariani ha lasciato inedite oltre 300 poesie, più di 200 canti morresi e 300 proverbi. In tutta la sua produzione recente gli è stato vicino Donato Cassese di Sant’Andrea di Conza a lui legato da grande affetto, la sua esperienza nella ricerca storica locale, la dimestichezza col dialetto e le moderne attrezzature elettroniche sono state indispensabili per portare alla luce le molte pubblicazioni. Con Donato, alla presentazione di un suo libro, sollecitammo la raccolta di canti popolari, un lavoro che andava assolutamente fatto, magari col nostro sostegno tecnico. Ci promise che l’avrebbe messo in cantiere e ci raccontò con orgoglio un aneddoto: quando era bambino, mentre spigolava udì il canto di una donna e si fermò incantato, la madre lo riprese ma lui memorizzò quelle parole: Canta calndredda hoi canta canta, ‘n’cima a ‘na spina fai cande r’amore, li chiama li mitituri tutti quanti, sciam’a mangiane ch’è passata l’ora. È questo il primo verso che Mariani aveva annotato tra gli appunti. Vogliamo augurarci che questi appunti non vadano perduti. (Il Quotidiano del Sud, Domenica 20/02/22)


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