Home » Uncategorized » La Via Appia e Ponte Appiano di franca molinaro

La Via Appia e Ponte Appiano di franca molinaro

Categories

 

terre d'irpinia doc (741)

Piena storica del fiume Calore (2010), l’ acqua occupa tutto lo spiazzo alluvionale

Testo e foto di franca molinaro
Dopo secoli di incuria, nel 2017, 23 settembre, sullo spiazzale alluvionale di Ponte Rotto sul Calore, in tenimento di Apice, si è svolta una manifestazione che, ci auguriamo, possa essere l’inizio di un periodo nuovo per le nostre contrade. I Comuni di Calvi, Venticano, San Giorgio del Sannio, Ceppaloni ed Apollosa – che condividono il tratto sannitico-irpino della via Appia – hanno stipulato un protocollo d’intesa atto a mantenere alta l’attenzione sul Ponte Appiano, un bene storico-archeologico di particolare valore ma abbandonato a se stesso da troppo tempo, presenti illustri personaggi arrivati da lontano ma presenti anche i pochi appassionati locali che hanno a cuore la nostra terra. Coordinatore del progetto è Pasquale Moscillo. A Ponte Appiano, per gli amici Ponte Rotto, il 23 è arrivata una delle più belle voci del giornalismo internazionale, il grande Paolo Rumiz, per narrare con competenza e semplicità le sue esperienze col territorio. Rumiz, ponendo il ponte come baricentro della romanità non ha mancato di ricordare il valore simbolico che il ponte investe in ogni cultura. La sua attenzione al mito e al sacro, non scisso dalla storia, ne fa uno studioso dalla grande sensibilità e delicatezza.

 

IMG_20161019_171209PONTE ROTTO, PONTE PIANO O PONTE APPIANO tratto da “Morroni,passato e presente, storia e tradizioni, Franca Molinaro, Edizioni Delta3, Grottaminarda (AV) 2002, pag.45/50

Ponte Piano o Appiano, ma per meglio intenderci Ponte rotto, è situato ad Ovest di Morroni, là dove il comune di Apice confina con quello di Calvi e di Bonito, mentre di fronte si trovano il comune di Mirabella Eclano e quello di Venticano. In questo crocevia geografico sfocia il vallone di Castel del Lago, cioè il vallone Mele, che, durante l’inverno, riversa aggressivamente le sue acque contro il vecchio ponte. Della costruzione originale, oramai è rimasto poco e col ponte è scomparso anche il fiume, dei 66 metri di letto, è rimasto poco o niente, durante l’estate, il fiume si prosciuga quasi totalmente regalando un paesaggio di desolazione e morte. Pochi fossi, con poca acqua, ospitano i pesci che riescono a sopravvivere, maggiormente sono carpe grazie alle loro abitudini terragnole (amano rifugiarsi nella sabbia del letto del fiume). Sull’acqua melmosa uno strato di sfagno imprigiona qualche animaletto più piccolo e lo soffoca. Poche rane si annidano in qualche pantano ombroso e le libellule girano indisturbate. I mitili si arenano nella sabbia che presto asciuga e li imprigiona. Il letto vuoto mette a nudo le basi dei piloni del ponte scoprendo anche l’ultima lapide nell’arco più a valle. Nonostante tutte queste sciagure, il fiume e il ponte conservano ancora intatto il loro fascino arcaico, durante tutta l’estate, a cominciare dal Lunedì dell’Angelo, un gran numero di persone, per sfuggire alla caotica vita di città o solo per trascorrere dei momenti spensierati, si rilassa sulle sponde del Calore, all’ombra dei pioppi, dei salici e dei maestosi ruderi romani. La tradizione popolare avvolge questo luogo in un tetro mistero; costruito ed abitato dai diavoli, il ponte reca in basso rilievo una mano a quattro dita ed un occhio appartenenti ad un diavolo che lasciò le impronte appoggiandosi alla pietra. Custode di tesori ricavati dai pedaggi pagati dai mercanti, protettore dei briganti, sgomento per le anime innocenti, Ponte Rotto è stato per secoli un posto di perdizione, di inganni, di paura; la sua vera storia, però, non viene mai menzionata nei racconti popolari. Nonostante le antiche cattiverie, è una tappa di rigore per gli innamorati, tutte le coppiette, locali e non, almeno una volta nella vita hanno passeggiato, mano nella mano, lungo la riva del fiume scambiandosi bugiarde promesse gonfiate dall’atmosfera romantica dei ruderi romani. Di storie, il ponte ne ha sentite tante e certo ne avrebbe da raccontare, ma la sua storia vera, quale sarà? La leggenda narra di un vecchio mago distratto che lasciò il libro nero o del comando, incustodito. Il libro fu trovato da persone incompetenti e fu aperto. Bisogna sapere che all’apertura il libro pronunciava: comanda patrò, ma i maldestri non sapendo cosa comandare, ordinarono punte a sidece a qua a Roma, gli sventurati diavoli che dovevano eseguire l’ordine furono costretti a costruire sedici ponti in una sola notte, tra cui Ponte Rotto, al ritorno, distrutti dalla gran fatica furono puniti dal diavolo capo per aver ubbidito ad un ordine così strampalato.
Per ora la storia più attendibile è quella dello storico greco Stradone che ci spiega il tempo, il luogo ed il movente. Strabone decisamente più attendibile spiega che fu costruito per permettere alla Via Appia, la Regina Viarum, proveniente dalla località Cancelleria, in comune di Calvi, attraverso la piana del Cubante (dove ancora oggi c’è una strada detta Appia Antica, che dovrebbe seguire il tracciato originale), di attraversare il Calore e proseguire verso Aeclanum.
La Via Appia costituiva l’asse di sviluppo dell’economia antica ed innervava tutta l’Italia Meridionale. La “Regina Viarum”, a 164 miglia da Roma, attraversava Beneventum, a metà strada tra le due estremità e sbocco a fondo valle dei monti del Molise, della Daunia e dell’Irpinia, con i valichi verso i due mari. Da Benevento partiva, attraverso il bivio di Calore, la Via Appia Nuova e per Forum Novum (presso Paduli) la Via traiana, che fiancheggiava la Appia.
La Regina Viarum, lasciata l’ex capitale degl’Irpini, si dirigeva verso Sud-Est, dopo quattro miglia giungeva a Nuceriola, l’odierna Pastene; dopo oltre sei miglia da Nuceriola passava il Calore sul ponte detto oggi Ponte Rotto, quindi, attraversato il fiume, entrava in territorio eclanese. Ponte Rotto è, dunque, a circa 10 miglia romane da Benevento ed a cinque da Aeclanum. La via Appia, cavalcato il ponte, seguiva un tratto in salita costeggiando appena l’attuale vallone Salico, lo oltrepassava proseguendo per le massarie Colarusso, per la Valle dei Morti, attraverso lo Cefureo puntava su Aeclanum.
La città era divisa in due dall’Appia, sul cui lastricato è ancora possibile vedere i segni delle ruote dei carri; distava 15 miglia da Benevento e 179 da Roma, a metà strada tra Roma e Brindisi (le cifre sono desunte dalla Tabula Peutingeriana).

terre d'irpinia doc (590)
“Da Aeclanum in poi, il tracciato della Via Appia è discusso, né sono sufficienti i nomi delle stationes e le distanze fornite dagli Itinerari per arrivare a conclusioni certe ed indiscutibili. “Sub Romula, per esempio, la statio che veniva subito dopo Aeclanum, per alcuni, con a capo Mommsen e De Ruggiero, era nei pressi dell’odierna Carife, per altri, e fra loro il Fraccaro ed il Salmon, era vicina all’odierna Bisaccia, per il Miller, infine, era ubicata ad Est di Guardia dei Lombardi.
A parte l’ubicazione di Sub Romula, si è cercato per il passato di determinare il percorso dell’Appia Antica tra Aeclanum ed Aquilonia, ma con scarsi risultati. In genere si è propensi a credere che l’Appia seguisse all’incirca il tracciato dell’odierna strada statale 303: Frigento-Guardia dei Lombardi-Bisaccia, sulla linea di displuvio tra Calore ed Ufita, e poi tra Calaggio ed Ofanto”.
La Via Appia, commissionata da Appio Claudio il Cieco nel corso della sua censura, era destinata a congiungere tra loro Roma e Capua, successivamente anche i centri di Venosa, Taranto e Brindisi. I Romani avevano a cuore le buone condizioni di questa “Regina Viarum” perché rappresentava la colonna vertebrale del loro sistema viario. Per essa arrivavano a Roma i prodotti tessili e le materie prime dall’Oriente, il grano dalla Siria, dall’Asia Minore e dalla Mesia, l’olio dalla Grecia e svariati prodotti alimentari dall’Apulia, il tutto passante per Ponte Rotto, nell’Irpinia. E’ risaputo che l’Irpinia, fin dai tempi più remoti, ha svolto funzione di valico per i mercanti che, dal Tirreno, raggiungevano l’Adriatico e viceversa.
Le direttrici di sviluppo economico nel nostro meridione, da sempre, seguono il corso di una realtà geografica che non può essere ignorata e che alla fine determina lo sviluppo di centri di produzione e orienta le correnti di traffico. La conformazione fisica del territorio Irpino, percorso da ampie vallate in senso trasversale alla penisola, favorì la costruzione di strade di collegamento tra l’una e l’altra sponda. Spesso erano gli stessi tratturi preistorici sui quali si spostavano i pastori a divenire importanti strade romane.
A causa dell’intenso e continuo traffico la strada doveva essere tenuta in buono stato e questo le conferiva una particolare bellezza, ma non solo, di gran bellezza ed importanza erano i monumenti che l’affiancavano lungo il percorso, nei pressi e dentro i centri abitati. Le strade romane venivano costruite secondo precise regole d’ingegneria: dopo aver fatto scavare un fossato fino a raggiungere uno strato roccioso sottostante, venivano poste sul fondo grosse pietre, creando così una robusta massicciata, su di essa gettavano uno strato di ghiaia, uno di sabbia e pietrisco, infine vi sistemavano le grosse pietre di basalto che formavano il lastricato. Spesso per le vie più importanti venivano costruiti i marciapiedi, che erano proporzionati alla larghezza della via, e tra il marciapiede e la strada si scavava un solco chiamato scolo. Un’altra caratteristica delle vie romane era il tracciato rettilineo, la Via Appia, ad esempio, nella palude Pontina, percorre in linea retta sessanta chilometri. Anche il tratto che costeggiava Morroni seguiva un rettilineo di molti chilometri. Da un passo di Antonio Ferri intuiamo l’importanza che la via assunse in epoca romana: ”La via Appia venne descritta da Orazio nel suo famoso viaggio da Roma a Brindisi. Per questa arteria passavano le vittoriose legioni di Roma, i cui guerrieri con il lauro della vittoria, seguivano il console vincitore il quale non aveva orecchi per i lamenti dei vinti condotti in catena. Vi passavano Flaminio e Paolo Emilio, che trassero in catena Perseo, ultimo re dei Macedoni; vi passò Aureliano conducendo seco Zenovia, regina di Palmira e fra le più belle donne dell’antichità. Fu questa la via battuta dai consoli e dai questori che andavano in lontane provincie con i loro legionari carichi di armi, ma stringevano nelle mani anche le catene per legarle ai polsi dei popoli vinti!…per qui passavano infine i re delle nazioni conquistate, diretti ai Sette Colli per implorare la grazia di un potere che non avevano saputo serbare con la forza delle armi. Purtroppo per la medesima strada scorrazzarono i barbari, quando, come locuste divoratrici portarono lo sterminio nelle nostre contrade!…”.
Effettivamente, nel tardo Medioevo, per ragioni politiche, i percorsi cambiarono, la Via perse importanza perché bisognava spostare il traffico per evitare il Ducato pontificio. Ma poiché gli sbocchi naturali del sistema orografico non si spostano come non si spostano le correnti di traffico che ne dipendono, l’innovazione impoverì una zona, senza dare ricchezza ad altre.
Gli ultimi scambi commerciali tra l’Irpinia e il Sannio, del tardo Medioevo, segnarono, nelle nostre zone, la definitiva scomparsa dell’antica strada, la costruzione dell’autostrada A16 contribuì a distruggere le ultime tracce della civiltà romana. Durante i lavori di spiano vennero ritrovati molti reperti archeologici, tombe, monete, utensili, ossa, armi, da quel che dicono i contadini della zona, bastava per metter su un museo, ma tutto andò trafugato.18198719_1177203792402249_1709050096940501671_n[1]

18194905_1177203649068930_4260098755175240916_n1.jpg

 

 

 

Tornando al nostro ponte, troviamo pareri diversi circa la sua età, “ L’ingegnere Meomartini, opina che, Ponte Rotto possa rimontare all’epoca di Adriano o Traiano, trovando egli la costruzione identica a quella del ponte delle Chianche di Buonalbergo”, quello cavalcato dalla Via Numicia, del quale si sanno per certe le origini, “Ciò non pare perché i tempi in cui l’Appia fu prolungata, e molti anni prima di Traiano, essa dovette avere un ponte originario degno della sua imponenza, e i ruderi dell’Appiano sono là per dimostrarlo”.
È probabile che originariamente il ponte fosse in legno, ma la necessità di avere una struttura stabile e duratura, spinse le autorità di Roma a costruirne uno di maggiori dimensioni, capace di sopportare il continuo via vai di mercanti, soldati e pellegrini, quest’ultimi diretti nella Valle di Ansanto, il più vicino e più famoso santuario pagano dell’Irpinia, dedicato alla dea Mefite. Con la ristrutturazione della Via Appia, intorno al 123 d.C. (come si può dedurre da alcuni miliari e dall’epigrafe), fu ristrutturato anche il ponte. Questi lavori rientrarono in un più vasto programma di ristrutturazione, dato il pessimo stato in cui versava il tratto di strada tra Benevento e l’incrocio dell’Appia con l’Herdoniana e la strada verso Aequm Tuticum. L’Imperatore Adriano contribuì con 1147000 sesterzi, mentre i latifondisti eclanesi ne versarono 569100, pari ad un terzo della spesa totale. I lavori riguardavano quindici miglia, per un costo di 100000 sesterzi a miglio, ed una spesa totale di circa 1716000 sesterzi. Nel 1865 fu rinvenuta quest’epigrafe che ricorda i lavori eseguiti:
IMP. CAESAR L’Imperatore Cesare Traiano Adriano
DIVI TRAIANI Augusto, figlio del divino Traiano
PARTHICI F DIVI Partico, nipote del divino Nerva
NERVAE NEPOS Pontefice Massimo nell’anno della
TRAIANUS HADRIANUS settima podestà tribunizia, durante il
AUG PONT. MAX. TRIB. terzo consolato, ha fatto (ristrutturare)
POT. VII CO S. III la Via Appia, trascurata da gran tempo,
VIAM APPIAM PER per 15 miglia e 750 passi, aggiungendo
MILLIA PASSUS 1147000 sesterzi ai 596100 che hanno
XVDCCL LONGA versato i proprietari terrieri.
VETUSTATE AMIS
SAM ADIECTIS
XIXLVII AD DLXIX C QUAE
POSSESSORES AGRORUM
CONTULERUNT FECIT (N. 7)
Questa ristrutturazione potè trarre in inganno il Meomartini inducendolo a confondere una costruzione probabilmente exnovo, con una di prima edificazione.
Nel 167 d.C. Marco Aurelio Antonino commissionò altri lavori di manutenzione al ponte ed al tratto della Via Appia nell’alta Irpinia, dove le condizioni topografiche causavano gravi ristagni d’acqua che rendevano difficile il transito; i briganti approfittavano di questa condizione per depredare i viandanti sprovveduti, le stesse stationes dislocate lungo la via con i loro soldati non bastavano a rendere sicuro il cammino. Gli Eclanesi si compiacquero di questi lavori di risanamento, tanto da dedicare all’Imperatore una stele di ringraziamento; secondo gli storici Lupoli, Racioppi Guarini, Corcia, questa specie di cippo miliario con l’epigrafe si doveva trovare a Ponte Rotto, per altri si trovava tra l’Ofanto e Venosa. Ecco cosa diceva l’epigrafe:
IMP. CAES All’Imperatore Cesare Marco Antonino
M. ANTONINO Augusto Armeniaco Parto
AVG. ARM. PARTH per aver riaperto al traffico
PATRI PATRIAE la via che porta al ponte
VIA AD PONTEM sull’Ofanto ed a Venosa
AVF. ET VENUSIAM dissestata dalle acque
ACQUAR. INTERRUPT ed infestata dai briganti
ET LATROCINIIS gli Eclanesi dedicarono
RESTITUITA con decreto dell’Amministrazione
AECLANENSES
D.D

 

Crescenzo Miletti, in una sua nota, menziona un’affermazione del canonico Racioppi, secondo cui quest’iscrizione fu portata da Ponte Rotto a Mirabella Eclano.
Werner Johannowsky in “Appunti su alcune infrastrutture dell’annone romana tra Nerone e Adriano” estratto dal “Bollettino di Archeologia” del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali, così scrive parlando della Via Appia e di Ponte Rotto: “La creazione della Via Traiana e il rifacimento della Via Appia fino a Benevento sotto Nerva e Traiano, e poi sotto Adriano, di quello da qui a Aeclanum, completato nel 123 d.C., vanno visti anche in funzione dell’utilizzazione del Tavoliere per colture cerealicole. Infatti, ciò aiuta meglio a capire la creazione di un’arcata del ponte dell’Appia sul Calor di un mulino ad acqua, che è il più antico impianto del genere databile con precisione e conosciuto da resti chiaramente individuabili; questo ponte di almeno sette arcate della larghezza media di 15 metri circa, ha pilastri in blocchi quadrati con nucleo in opera cementizia di ciottoli, pertinenti a una prima fase di età probabilmente tardo-repubblicana, che reggevano evidentemente campate lignee. Gli archi e il piedritto ovest, che ha incorporato un tratto del precedente acciottolato, appartengono alla fase adrianea ed hanno il nucleo in opera cementizia stratificata in scaglie di tufo e paramenti in laterizio con ricorsi in mattoni e bipedali. La presenza di cornici sagomate in laterizio e di mensole sporgenti in calcare negli spigoli tra le arcate ricorda da vicino l’architettura di un ponte che attraversava la Via Appia nel vicus Aarclanus in territorio di Sinuessa, che potrebbe essere dato quindi anch’esso in età adrianea o forse anche negli ultimi anni di Traiano. L’impianto, le cui strutture legano con quelle della fase adrianea, è costituito da una camera che occupava tutta l’arcata, ed era preceduta a monte da un bacino e da un canale di adduzione con argini di laterizi e reticulatum con le stesse caratteristiche di quanto abbiamo osservato per il piedritto. Mentre non conosciamo le dimensioni della apertura nel muro a monte della camera, che è quasi interamente crollato, quello a valle era attraversato da cinque orifizi alla cappuccina, larghi alla base cm 40 ed allo stesso livello il massiccio contrafforte addossato al pilastro occidentale dell’arcata presenta allo spigolo la traccia di un elemento lapideo evidentemente strappato in cui doveva essere inserito l’asse delle ruote che dovevano corrispondere alle cinque aperture.
Non a caso tale impianto è ubicato nella zona dove il Calore comincia a diventare navigabile per chiatte, il che consentiva certamente un trasporto più agevole della farina fino a Volturnum, dov’era inevitabile il trasbordo. Anche se nel nostro caso si tratta di un impianto meno complesso di quello di Barbegal nella Narbonense, la cui datazione al tardo-impero viene attualmente rimessa in discussione, si tratta pur sempre di una struttura con potenzialità notevole che, inserita com’era in un complesso pubblico, doveva essere di proprietà pubblica, e non a caso era stato scelto il primo fiume di una certa portata che si incontrava venendo dalla Daunia, mentre la stazione itineraria Calor doveva essere anche sede di horrea, così come evidentemente anche porto fluviale di Volturnum. D’altra parte anche la creazione sotto Traiano dei nuovi porti con vaste strutture di immagazzinamento a Centumcaelle, a Terracina e soprattutto a Portus, in aggiunta a quanto creato da Claudio, insieme con l’aumento delle infrastrutture di Ostia e la ricostruzione del molo puteolano danneggiato da una tempesta ed attuato sotto Antonino Pio sono dovute alla necessità più che mai impellenti dell’annona romana dopo l’abbandono dei progetti di Nerone”.
Il ponte era a schiena d’asino, tecnica architettonica romana che permetteva di ridurre i piloni centrali, cioè quelli costruiti nell’alveo del fiume, quattro erano fuori dall’acqua (Miletti parla di nove piloni). Questo sistema alzava gli archi a tutto sesto, ecco perché ci troviamo di fronte a misure come tredici metri di altezza massima con una luce di dodici metri. La lunghezza del ponte era di 142 metri circa, perché il complesso architettonico era costruito in una zona semipianeggiante, il lato Nord-Ovest, infatti, dove il terreno segue un certo pendio, corrisponde alla parte più corta del ponte partendo dall’apice, l’altra parte, proseguendo verso Sud-Est si allunga evitando eccessivi dislivelli fino ad inoltrarsi nella piana alluvionale sulla riva destra del fiume. Il ponte doveva apparire molto decorato, in proposito scrive Miletti: “ …il ponte, data l’esistenza dei bassorilievi, doveva avere le testate degli archi e i parapetti scorniciati e fregiati…i vuoti, le sporgenze di residuali pezzi di cornicioni in cima ai ruderi, fanno sospettare l’esistenza di sculture. La carreggiata del ponte poteva misurare un 4 metri, essendo di 6 quasi normalmente, la profondità dei piloni in piedi”.
Con la distruzione di Aeclanum, la Via Appia non perse importanza ed il suo ponte continuava ad essere un passaggio chiave per gli spostamenti verso l’Apulia, lo dimostra un muro, costruito probabilmente dai Bizantini, con materiali di risulta, a sostegno del terzo arco a partire da sinistra. La Via da Appia diventò Beneventana. In seguito, con la discesa dei Normanni (1053) quando Benevento diventò città pontificia, la via perse importanza perché il traffico si spostò sulla via che dalla Puglia, per Ariano, Acqua Putida odierna Piano Pantano, giungeva ad Avellino.
In questo periodo anche il ponte fu abbandonato.

13872696_1200836779979707_1004121550915724001_n[1]

Il secondo ponte

13907126_1200834443313274_173521875113965662_n[1]

Frammento di fregio

Successivamente, con materiali di risulta, fu costruito un altro ponte poco più a valle, più piccolo, a sessantadue metri dal primo, con una lunghezza di quarantadue metri con due soli piloni, su un pilone di quest’ultimo vi è l’ultima epigrafe rimasta a Ponte Rotto, cementata a testa in giù per dimostrare che non era quello il suo posto originario, questa epigrafe è scolpita sopra un grosso blocco di pietra incastonato nel pilone, forse per questo non è stata portata via.
Da un testimoniale, chiuso il 10 marzo 1534, per 4 gli atti di Notar Giovan Francesco Testa, che il Notar Nicola Mazziotta di Benevento estrasse dall’originale che si trovava nell’Archivio dell’insigne Abbazia di S. Sofia in Benevento, col quale testimoniale questa abbazia intese provare il suo possesso sul feudo del Cubante, contrastatole dall’Università di Montefusco, si desume che a quell’epoca le relazioni commerciali tra la città di Benevento ed i paesi al di là del Calore come Grottaminarda, Mirabella Eclano, Gesualdo ed altri dovevano esercitarsi per la via la quale passava di qua dal palazzo del Cubante a costo alla chiesa di San Donato.
Il ponte, quindi, era ancora trafficato; da quanto detto apprendiamo che il commercio avveniva tra i paesi dell’Irpinia e il beneventano. Dagli atti notarili dell’epoca apprendiamo che il castello era sede doganale per le merci che dall’Irpinia, cavalcando Ponte Rotto, seguivano la vecchia Appia in territorio beneventano e viceversa:
…esso testimonio quest’agosto passato ha fatto l’anno, che venendo da lo mercato di Gesualdo con bovi et altre bestie, ce pagò lo passo a gli huomini di Apici, quali raccoglievano per lo Monastero di S. Sofia.
L’Arcivescovo di Benevento, Cardinale Orsini, nel 1692, incaricò padre Antonio da Olivadi di raccogliere fondi per la riparazione del ponte caduto con il terremoto del 1688, ed avere ancora un collegamento tra Morroni ed il Cubante. Negli anni che seguirono, il vecchio ponte vide la sua rovina, si trasformò in una cava di materiali edili. Dalle campagne vicine e lontane, arrivavano con picconi, martelli e ogni sorta di attrezzo, anche dinamite, dice Crescenzo Miletti, i mattoni del rivestimento erano eccellenti per la costruzione dei forni per il pane, perché erano più resistenti dei mattoni moderni, le pietre erano buone per farne muratura o per essere frantumate e gettate in fondamenta, i fregi erano delizie di appassionati. Miletti parla di magnifiche decorazioni scomparse o distrutte o inserite in nuove costruzioni.
Crescenzo Miletti, in qualità di sindaco di Bonito ed appassionato studioso, nel 1911 scrisse alla R. Sovrintendenza alle Antichità della regione Campania e Molise, denunciando lo stato di abbandono e di oltraggio a spese del ponte, richiamando inoltre l’attenzione su una lapide che stava per staccarsi. La risposta delle autorità fu positiva in parte, la lapide fu rimossa e portata al R. Museo di Napoli, fu tentato di darle un’interpretazione e ne risultò che potesse essere una dedica all’ordine religioso dei Mercuriales di Aeclanum. I caratteri non molto leggibili erano:
C.L. praefecto-MER-ARESCUSA. ET-L. CORINTHUS-MER-ENE-MERITO-L. FESTO L.
Il professor Salvatore Aurigemma stilò una relazione rifacendosi a uno studio dell’ingegnere Meomartini e tutto finì nella dimenticanza, senza neanche fare il nome di chi promosse l’iniziativa.
La situazione non è cambiata, a circa cento anni, il ponte appare ancora in tutta la sua podestà, ma non vi è più un pezzo da poter portar via, appare solo il nudo èmplecton.
Passeggiando tra i ruderi non si può non pensare alla magnificenza di una simile opera, alle vicende del passato, di quali tesori siamo ereditieri. Per lunghissimi anni, scavando nei pressi del ponte, sono stati trovati reperti archeologici di notevole importanza, monete, tesori, manufatti, sculture, oggi non vi è rimasto che “l’irremovibile”. A noi locali, principali artefici di tale saccheggio, è rimasta la nostalgia di cose che avremmo potuto ammirare, magari in un museo irpino.
Ancora oggi, attente ricerche porterebbero alla luce frammenti di storia in tutta Morroni, ma domani, gli archeologi della nostra progenie troveranno solo spazzatura accuratamente occultata.

 

terre d'irpinia doc (777)

Vallone Mele, il confine tra Venticano e Calvi

 

V. D’AMBROSIO, Ponte Appiano: un viadotto di 20 secoli, pag. 30.
A. SALVATORE, Aeclanum, pag. 61.
A. FERRI, Aeclanum Quintodecimo Acquaputida Mirabella, pag. 23/24.
C. MILETTI, Ponte Appiano o Ponterotto.
LUIGI BOCCHINO, I Francescani nel Sannio Atti del convegno di Benevento, 1-3 ottobre, 1992, pag. 237.
Calvi nella sua storia e nelle sue vicende pag. 36.
WERNER JOHANNOWSKY, Appunti su alcune infrastrutture dell’annona romana tra Nerone e Adriano, pag. 10/13.
Da un testimoniale del 1534 del Notaio Giovan Francesco Testa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


1 Comment

  1. […] Riferimenti: Strade RomaneFranca Molinaro, Via Appia e Ponte Appiano […]

Leave a comment