La stipe votiva della Mefite, oggi esposta al museo provinciale di Avellino, dal tempo del suo rinvenimento ad oggi, è stata oggetto di numerosi studi da parte di studiosi qualificati, a costoro farò riferimento per poter scrivere questo articolo, immaginando che queste notizie proposte possano essere sconosciute a molti. L’attenzione degli studiosi cade, in modo particolare sul grande xoanon, negli ultimi tempi divenuto familiare al grande pubblico grazie all’opera di divulgazione in atto. Vediamo prima di tutto cos’è uno xoanon. Scrive Ranuccio Bianchi Bandinelli: “Si indicano con questo termine le statue primitive, di arte greca, con testa e braccia espresse plasticamente, ma col corpo cilindrico in forma di colonnetta o squadrato in forma di trave”. Il termine è tecnico e significa: opera, intagliata o raschiata, levigata accuratamente. Xoana in legno, di piccole dimensioni, sono stati trovati in Sicilia a Palma di Montechiaro, fra materiale sacro depositato presso una sorgente sulfurea. Xoana sono stati ritrovati anche in altri luoghi distanti tra loro, questo ad indicare che ci troviamo di fronte ad una forma di rappresentazione primitiva comune a tutta l’umanità. Pensiamo ad esempio alle statue colossali di Rapa Nui nel Pacifico Meridionale. Il nostro xoanon, quello che vediamo oggi al museo, è alto 135 centimetri, fu rinvenuto negli anni ’50 del Novecento da Giovanni Oscar Onorato, insieme ad altre quattordici piccole statuette lignee. Dagli esami di laboratorio svolti in collaborazione tra l’Innova-Circe di Caserta, la Seconda Università degli Studi di Napoli, la Dendrodata s.a.s. di Verona e la Soprintendenza Archeologica di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta, è risultato di legno di Quercus robur, la quercia di cui abbondano i nostri boschi. Naturalmente è sopravvissuto ai millenni perché interrato in un suolo particolare che è quello della mefite, nel quale ha subito un processo di carbonizzazione e mineralizzazione. Il grande xoanon che vediamo oggi non è esattamente quello che fu rinvenuto all’epoca. Scrive Vincenzo Franciosi: “…dopo il rinvenimento negli anni ’50 del Novecento, i reperti lignei furono restaurati a Napoli, nel laboratorio di chimica del Museo di Capodimonte, dal Dr. Selim Augusti. Prima fu consolidato il legno mediante un bagno di colla organica e NaF, usato come antisettico, seguito da un bagno in una soluzione al 3% di acido tannico, in modo da rendere la colla insolubile; poi, le cavità presenti nel legno furono riempite con una pasta ottenuta mescolando polvere di legno, polvere di tannino e colla. Se, da un lato, il restauro ha assicurato la conservazione degli xoana, dall’altro sembra aver prodotto delle modifiche, che nella loro fisionomia, soprattutto per quanto riguarda il reperto 1499, il grande xoanon: l’intera figura sembra lievemente allungata e alcuni caratteri sono accentuati; oltretutto, la scultura presenta due accenni di braccia, che non comparivano prima del restauro” Questi arti sono di legno differente. “A differenza di quanto affermato da Augusti, non fu usato, quindi, per il restauro, lo stesso legno della scultura. La presenza di materiale moderno utilizzato per il restauro (colla, pasta di legno, inserzioni di legno differente per le braccia), rappresenta un problema per analisi quali le misurazioni del radiocarbonio, dal momento che viene a contaminare la concentrazione di C del legno originario. Riguardo alla dendrocronologia, sul reperto 1499 è possibile contare circa 40 anelli. Si tratterebbe, quindi, del tronco di una quercia di circa mezzo secolo utilizzato per intagliare la figura rappresentante, con ogni probabilità, la divinità stessa. Delle 15 figure xoaniche, soltanto una viene solitamente indicata come femminile, la 1231, di carattere sub-dedalico, tre come maschili (1237, 1238, 3304), la 1238 è caratterizzata da un’evidente barba, le altre vengono definite asessuate. Tra queste ultime viene compreso anche il grande xoanon. Ora, ad una attenta osservazione, la figura presenta caratteristiche prettamente femminili: vita stretta, glutei pronunciati, profilo sinuoso”. Il restauro avrebbe potuto cancellare anche l’accenno della V pubica. Lo studioso spiega il significato della x incisa sul petto, confrontando altre figurine ritrovate in logo, di epoca successiva. La x risulterebbe da una mantellina che i popoli di allora indossavano fermandola sul petto con una spilla. “…un motivo presente su una serie di statuette fittili, muliebri (1235, 1463, 1464, 1465, 1466, 1470, 1474) anch’esse provenienti dal deposito votivo di Mefite, databili tra il V e il IV secolo a.C. (più tarde, quindi, del nostro xoanon, che sembrerebbe risalire alla fine del VI secolo a.C.) (…) Il grande xoanon di Mefite, quindi, rappresentava schematicamente una figura femminile vestita di una lunga tunica, col caratteristico ‘corpetto’ a croce di S. Andrea sul petto, il tutto certamente ravvivato dal colore. Verosimilmente il mantello era di tessuto”. Personalmente, sulla presenza della X, ribadisco quanto già scritto precedentemente. Perché segnare sul legno un mantello se poi la statua veniva rivestita da un mantello di stoffa? Mi piace invece far riferimento agli studi di Marija Gimbutas riportati in “Il linguaggio della Dea”: la X è tra i simboli più antichi utilizzati per decorare le statuette della Dea Madre e gli oggetti cultuali. Chevron, X, V, spirali, furono osservati dalla Gimbutas su una campionatura di 2000 manufatti dell’Antica Europa. Secondo le sue scoperte: “… il culto della Grande Madre è stato dominante nell’Europa del Neolitico Antico, tra il 7000 e il 3500 a.C. Un’Europa abitata da popoli felici che risiedevano in villaggi, praticavano l’agricoltura, non conoscevano la guerra, vivevano in armonia con la natura grazie al fatto che le donne avevano un ruolo primario nell’organizzazione sociale e nella vita religiosa. Una vita serena che cessò verso il 4000 a.C quando cominciarono ad arrivare da Est orde di cavalieri armati che distrussero quella società matriarcale e la pace dei popoli della Grande Dea”. Pensando a questi popoli preindoeuropei, mi piace ricordare quanto letto nel bel testo di Giampiero Galasso, “Storia dell’Irpinia antica”, circa quelle genti provenienti dall’altra parte dell’Adriatico che vanno a formare la civiltà Oliveto-Cairano, “comunità prive di grandi differenziazioni sociali al loro interno, in cui ciascuno porta con sé come ultimo corredo, poche cose essenziali, equivalenti per tutti, senza neppure una differenza tra maschi e femmine. La dignità sociale dell’uomo e della donna è uguale, pur nella diversità dei ruoli…” Con queste intuizioni “pericolose”, mi piacerebbe ancora che, ricercatori illuminati, provassero a leggere la storia di Mefitis sotto altra angolazione, quella già proposta da Flavia Calisti nella sua “Mefitis, dalle Madri alla Madre” nella consapevolezza di sollevar polemiche. Già Fabrizio Loffredo scrive, in “La Dea Mefitis: Dalle Moféte Del Sannio Ad Abano Terme” “…restringendo l’inquadratura sul dato del cattivo odore, ci rendiamo conto che non poteva trattarsi di una «Grande Madre». L’interpretazione di Mefitis in chiave di una «Grande Madre», a mio parere assai discutibile, è invece sostenuta a più riprese da Calisti nella sua monografia, o di una dea genericamente protettrice delle donne. Mefitis esplicitava piuttosto il potenziale negativo e pericoloso della donna, il rischio latente che essa, per scelta o per sorte, suscitasse repulsione e venisse meno al suo ruolo familiare invece che sedurre e fungere da collante della comunità”. Ma questa osservazione potrebbe riguardare tempi postumi, quando il culto della Madre era già stato soppiantato.
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Il simulacro della dea Mefite- franca molinaro
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